Da sempre il settore legale è chiuso in rigidi protocolli, restio alla condivisione di dati e risorse e a un approccio improntato alla funzionalità e alla semplificazione, necessarie a un’applicazione interdisciplinare e trasversale delle più recenti soluzioni tecnologiche. Ma cosa accade, oggi, col rapido progredire di quella spinta innovativa che sta influenzando tutto il mercato?

Parlare di digitalizzazione negli studi legali rimanda a un’immagine del settore legale geloso dei suoi paradigmi, “incatenato” in rigidi protocolli che fanno della tradizione la loro bandiera, figli di una consuetudine talmente radicata da chiudersi in se stessa.

Chiusura e mentalità a compartimenti stagni, che ritroviamo anche nel settore pubblico, nelle amministrazioni e nelle istituzioni governative, restie ad una condivisione di dati e risorse, nonché a trovare un linguaggio comune ed organico, che esalti collaborazione e comunicazione bidirezionale. Ostacoli ad un approccio improntato alla funzionalità e alla semplificazione, base necessaria per una applicazione interdisciplinare e trasversale delle più recenti soluzioni tecnologiche.

Ma oggi? Come la mettiamo con il rapido progredire di quella spinta innovativa che sta influenzando tutto il mercato? Con quella digitalizzazione che, post pandemia, ha reclutato sempre maggiori seguaci e non ha risparmiato nessuno?

Digitalizzazione negli studi legali: l’innovazione tecnologica impone un ruolo proattivo alla figura dell’avvocato

In tema di digitalizzazione negli studi legali, a parte una percentuale, ancora troppo bassa, di veri “innovatori”, con i quali, se non ci conosciamo, comunque ci “riconosciamo”, sembra che il comparto faccia fatica ad abbracciare il nuovo: adagiato nella propria “comfort zone”, ritiene l’innovazione una ulteriore possibilità di lavoro e di guadagno, ma niente di più. E così rischia di perdere una opportunità.

Diverso è quanto sta avvenendo fuori dall’Italia, da sempre patria della “tradizione”, nel senso più aulico ma anche meno lusinghiero.

Se negli Stati Uniti, gli studi legali già affrontano questioni “disruptive”, trasformando e plasmando la professione classica dell’avvocato, da “difensiva” a “consulenziale” e di supporto all’impresa; se nell’Europa, ci si affaccia in maniera proattiva al mondo dell’innovazione, calando esempi pratici nei sistemi infrastrutturali pubblici e privati; se, anche nel continente africano, come per esempio in Nigeria, si affronta la questione di come i sistemi algoritmici possano aiutare a decongestionare la macchina giudiziaria, da anni in affanno, in Italia, si tende a guardare con sufficienza, talvolta con condiscendenza se non con sospetto, alla comunicazione, fattore determinante per la riuscita di progetti innovativi, alla “apertura” del proprio sapere e della propria conoscenza, prodromica alla creazione di network trasversali più efficienti e performanti, al servizio del singolo e dell’impresa.

L’Europa, con il GDPR, ha rappresentato un esempio normativo da seguire per le regolamentazioni straniere. E, in tema di intelligenza artificiale, si è fatta portavoce di una visione antropocentrica, in contrapposizione alle logiche di business tipiche statunitensi, o alle manovre di un potere centralizzato, espressione del versante orientale.

Perché la digitalizzazione negli studi legali stenta a decollare? Perché il mondo legale ancora non si espone? Per la diffidenza che lo ha sempre contraddistinto? Per la chiusura congenita ad una reale contaminazione del sapere, base di una maggiore conoscenza globale?

Allo stato attuale, qui in Italia, ancora viviamo la figura dell’avvocato come risolutore di problemi, in netta posizione difensiva, quando la tecnologia ci sta imponendo una visione inversa, proattiva, preventiva.

Individuare necessità e provvedere a risolverle

Come tutti sappiamo, ogni progetto di innovazione tecnologica, richiede alcuni paradigmi per una corretta governance, che sono imprescindibili: come si potrebbe pensare di rilasciare un servizio SaaS (Software as a Service), senza una corretta compliance in materia di privacy? Come si potrebbe costruire un protocollo blockchain, senza un preliminare studio sulla sicurezza informatica oltre che sulla corretta conservazione dei dati acquisiti? O ancora, come rilasciare sul mercato un nuovo sistema di intelligenza artificiale, senza aver provveduto a stilare un Codice Etico? [per approfondimenti sull’AI, consigliamo la lettura della nostra guida all’intelligenza artificiale che spiega cos’è, a cosa serve e quali sono gli esempi applicativi – ndr].

Ogni procedura di digitalizzazione, coinvolgendo aspetti multiformi nell’utilizzo dei dati, in un’epoca che ha visto il prolificare di incidenti informatici e di data breach, a enti pubblici e privati, deve necessariamente contemplare una corretta impostazione, che parta dalle origini di un progetto, che ne sia la base e non il corollario.

L’insieme di tutti e di tanti altri aspetti, come una adeguata compilazione di contratti con i dipendenti e collaboratori che possano anche tutelare la proprietà intellettuale di eventuali committenti, fa capire quanto sia “indispensabile”, senz’alcuna esagerazione, la digitalizzazione negli studi legali e un ruolo preparatorio e proattivo del professionista legale, che avrà il compito, per nulla semplice, di individuare necessità e provvedere a risolverle.

Eppure ancora oggi si fa fatica a giustificare un budget di spesa a stampo legale in questo senso, mai contemplato nei migliori business plan anche delle imprese neofite, attente a minuziosi calcoli per la realizzazione di piattaforme multitasking e tecnologie dirompenti, ma mai a fondi per una corretta e strutturata governance dei processi di lavoro.

Non è marketing, ma semplice constatazione che quello che oggi sembrerebbe un investimento “a perdere”, rappresenta, in una vision a lungo termine, il maggior cespite di guadagno, in termini di risparmio, di ogni impresa odierna.

Scritto da:

Raffaella Aghemo

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