L’Unione Europea ha introdotto le CER nel 2018 e ha chiesto agli stati membri di prenderne atto e incoraggiarne la creazione entro il 2021. Dopo 4 anni la troppa burocrazia e i pochi standard continuano a frenarne la diffusione, lasciando spazio di iniziativa a startup e innovatori

Nate per decentralizzare e democratizzare la produzione di energia, le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) [Renewable Energy Communities – RECs, anche note come Citizen Energy Communities – CECs] stanno iniziando a diventare una realtà diffusa e concreta solo ora. A 4 anni dalla deadline fissata dall’Europa per il recepimento della sua normativa a riguardo da parte dei singoli Paesi membri, queste realtà propongono ai cittadini di produrre rinnovabili e di gestirne il consumo. Li invitano a partecipare attivamente alla grande sfida della transizione verde, per provare a renderla anche giusta, offrendo loro benefici non solo economici ed energetici, anzi. Ciò che maggiormente spinge a prendere parte a questo tipo di iniziativa sono vantaggi di tipo ambientale e sociale.

Non si crea una CER per risparmiare o per trarne profitto. Iniziando a condividere l’energia prodotta dal piccolo lucido pannello fotovoltaico installato sul proprio tetto, si comincia ad apprezzare l’idea di sentirsi parte e di poter contare su una comunità con gli stessi valori in senso più ampio. Questo (re)inizio di sharing economy potrebbe spingere a un cambiamento di mindset diffuso verso un nuovo paradigma di consumo. L’Europa ne avrebbe bisogno e ci sta sperando: le CER ancora arrancano a prender piede, infatti, ma non solo per la ritrosia di chi è invitato a prendere parte. Il problema è la burocrazia.

Nonostante una adesione a macchia di leopardo, con accentuate differenze di approccio, stile, forme giuridiche e business model su microscala, ad accomunare tutte le CER d’Europa resta il problema della burocrazia. Chiunque ovunque provi a costituirne una si trova di fronte a una strada in ripida salita. C’è voglia di condividere, lo dimostrano le attuali 9-10 mila comunità energetiche rinnovabili già esistenti già sorte qui e là, nonostante tutto, ma se i processi per costituire una comunità si snellissero, in futuro potrebbero diventare talmente tante da rivoluzionare il mondo delle rinnovabili, e forse questo non ha tutti piace.


Le comunità energetiche rinnovabili sono una realtà su carta da anni ma sul territorio europeo stanno comparendo adesso e a fatica, frenate dalla burocrazia
In Italia non esiste un modello standard per le CER, ognuna è un caso a sé e ciò crea difficoltà a chi le fonda e diffidenza in chi vuole aderirvi
Le sfide delle CER sono uno spazio di mancati servizi e strumenti che le startup possono provare a sfruttare innovando
Anche i centri sociali e culturali possono cogliere l’occasione e diventare anche CER, includendo nella propria mission la condivisione di energia

CER in Italia: cercasi standard e identità

Secondo l’Electricity Market Report realizzato dal Politecnico di Milano a maggio 2024 sul nostro territorio si contavano 168 iniziative per la costituzione di comunità rinnovabili vere e proprie e autoconsumo collettivo. Raddoppiano rispetto all’anno precedente, ma la maggior parte sono ancora in una fase progettuale, solo 46 risultano effettivamente attive. Se di rivoluzione energetica si vuole parlare, quindi, in Italia siamo ancora agli albori, ma non per mancata partecipazione da parte dei cittadini. La ragione del ritardo è da un lato normativa, dall’altro di mancanza di standard. Il decreto che regola queste realtà in modo più stabile e chiaro è entrato in vigore a gennaio 2024 e i portali GSE per la richiesta degli incentivi solo in aprile: abbiamo appena iniziato e i cittadini stanno man mano capendo le regole del gioco.

Guardando al futuro, il problema da risolvere è invece “l’assenza di un modello unico”, spiega Matteo Zulianello, Capo Progetto “L’utente al centro della transizione energetica” di RSE su autoconsumo e CER di GSE. “Ad oggi non c’è un percorso standard e noi come centro di ricerca dobbiamo provare ad aiutare a costruirne uno e dare chiarezza alle persone che vogliono approcciarsi a questo tema. La maggiore difficoltà è capire se puoi partecipare  e come, e quali risorse condividere e quali puoi trovare”.  La varietà delle comunità energetiche potenzialmente realizzabili non aiuta a trovare delle linee comuni: “a seconda che il soggetto promotore abbia finalità sociali,  economiche o legate al perseguimento di politiche ambientali possono cambiare le modalità di attivazione della costituzione della comunità energetica, che a sua volta è regolata da una serie di meccanismi e di regole di relazione tra i membri della comunità e i membri”, racconta Zulianello.

Ogni CER costituisce un caso a sé, standardizzare è quindi una sfida come lo è l’incoraggiare la partecipazione dei cittadini come produttori o consumer. “Serve trovare l’equilibrio per gestire bene l’operazione – spiega Zulianello – il modello CER.ca.MI nato a Milano da questo punto di vista è un modello interessante perché definisce dei valori minimi e massimi di ritorno degli investimenti che vengono fatti e viene data una garanzia ai produttori sull’effettivo funzionamento del meccanismo”.

CER.ca.MI ha trovato un modello

Nata nel 2024 come associazione e oggi diventata ente del terzo settore, CER.ca.MI si distingue nel panorama italiano provando a proporre un modello preciso di CER e un percorso per realizzarne una riducendo al minimo la burocrazia. Unendo le forze del Comune e del Politecnico, questa iniziativa offre si focalizza su comunità energetiche rinnovabili ad alto impatto sociale in contesti densamente abitati e urbani. Parte da Milano e invita i partecipanti a reinvestire il 100% degli incentivi guadagnati attraverso la condivisione di energia in iniziative sociali e/o ambientali direttamente collegate alla comunità e scelte da essa scelte. Che siano eventi culturali o progetti di formazione, donazioni a ONG locali, supporti a iniziative contro la crisi climatica o di recupero del territorio: ogni comunità può decidere ed è chiamata a decidere in modo autonomo ma socialmente impegnato.

Dopo uno stallo normativo di 3 anni (l’idea risale al 2021), oggi Cercami è una piattaforma che supporta la creazione di CER nel territorio milanese, provando a facilitare il percorso burocratico di chiunque apprezzi l’approccio proposto. Secondo Filippo Bovera, docente del Politecnico di Milano e presidente di CER.ca.MI, le sfide principali da affrontare sono due e non riguardano l’adesione cittadina ma la potrebbero scoraggiare.

Una è tipicamente urbana e deriva dalla mancata corrispondenza tra perimetro politico di azione (municipi) e perimetro di condivisione dell’energia (cabine primarie). “Si matura l’incentivo sul secondo perimetro ma va poi ridistribuirlo rispettando il primo – spiega Bovera – per risolverlo abbiamo introdotto dei comitati di gestione che permettono di esprimere ai territori la loro volontà rispetto all’utilizzo dell’incentivo”. Un trucco che fa sì che nessuno si trovi in una no man’s land che lo lasci escluso.

La seconda sfida è la stessa che aspetta tutte le comunità energetiche d’Italia, ovunque si trovino. “C’è il rischio di creare aspettative molto alte e non essere poi in grado di mantenerle in termini di tempistiche, per difficoltà di carattere amministrativo – afferma Bovera – per realizzare un impianto fotovoltaico occorrono un paio di mesi ma per connettersi ce ne vogliono altri 5 o 6 perché i distributori hanno ancora poco personale dedicato a quest’attività e le altre pratiche amministrative richiedono di per sé tanto tempo. Presentata le documentazioni per accedere al portale del GSE, la risposta arriva in media dopo 6 mesi. In sostanza passa oltre un anno prima che un cittadino possa toccare con mano i benefici della propria adesione a una CER. Che sia CER.ca.MI o un’altra”.

Non lasciandosi scoraggiare dalle lungaggini italiane, “questa iniziativa si propone come “modello per aree urbane e, sul territorio di Milano è già applicabile in qualsiasi area”, spiega Giuliano Rancilio, ricercatore del dipartimento di Energia del Politecnico di Milano, sottolineando il ruolo di abilitatore che svolge la piattaforma, “non lasciando che la complessità dell’iter di creazione e gestione di una CER da zero pesi tutto sulle singole realtà o gruppi di cittadini che vogliono provare a condividere la propria energia rinnovabile”.

La comunità ibrida di Basis

Cambiando area e mindset ma non Paese, in Val Venosta si incontra una comunità energetica rinnovabile che, invece di essere incastonata in un comune grande, di comuni ne include 15 e piccoli. Su chiama EVi ed è nata per “promuovere la resilienza locale e l’innovazione attraverso cultura, partecipazione e sostenibilità”, spiega Luca Daprà, project manager di BASIS, la realtà che nel 2022, ha presentato un progetto di CER ad alto impatto sociale chiedendo e ottenendo i fondi del PNRR per realizzarlo.

Come accaduto a CER.ca.MI, anche la comunità energetica rinnovabile EVi ha dovuto attendere il 2024 e la definizione per l’attuazione delle direttive RED II con le relative normative tecniche per nascere ufficialmente e operare sul territorio. Ora, finalmente libero di svilupparla, il team di BASIS freme per “farla crescere localmente e far comprendere alla gente i suoi vantaggi”. Oltre a quelli previsti dalle comunità energetiche rinnovabili in quanto tali, EVi secondo Daprà ne offre anche altri specifici e legati alla posizione geografica unica della valle in cui è nata. “L’area in cui viviamo risulta protetta dai sistemi meteorologici prevalenti, i livelli di precipitazioni sono bassi e godiamo di circa 300 giorni di sole all’anno – spiega – siamo una località perfetta per la produzione fotovoltaica e, grazie ai ghiacciai e ai bacini idrici, abbiamo un grande potenziale per piccoli sistemi idroelettrici a pompaggio”.

Forte delle condizioni al contorno favorevoli all’efficacia energetica del modello di condivisione, con la sua EVi, BASIS non vuole limitare il proprio impatto ma anzi “diventare un esempio che ispiri la nascita di tante altre comunità ibride energetico-culturali, dove gli spazi culturali non solo consumano ma producono e gestiscono anche energia rinnovabile, reinvestendo il surplus in valore pubblico, in forma di progetti artistici, educativi e sociali”, spiega Daprà. Con tutto il suo team dedicato, BASIS è pronta al decollo: sta già supportando lo sviluppo di una centrale elettrica virtuale locale per favorire ulteriormente l’autoconsumo e ridurre il sovraccarico della rete a media potenza. Guarda avanti fiduciosa ma guarda preoccupata alle sfide burocratiche che la aspettano per crescere e che aspettano tutte le nuove comunità che vorranno provare a nascere. Parla di “un processo di implementazione ancora frammentato e burocratico”, di “barriere pratiche – come ritardi nell’accesso alla rete, supporto insufficiente per le piccole comunità e incertezza legale –  e di ostacoli sugli incentivi”, non sempre sono erogati in modo adeguato e incoraggiante per le CER.

Serve semplificare. Spazio alle Startup

L’evidente complessità della legislazione rende difficile per i privati capire quali guadagni tangibili si possano ottenere. Li può spaventare o respingere e c’è chi prova a trasformare questo rischio in un’opportunità offrendo servizi innovativi e agili per colmare il gap tra la bella idea di CER scritta su carta e la difficile impresa di realizzarne una sul suolo italico. HexErgy è una delle startup italiane nata abbracciando questa unica mission e dedicandole la sua intera soluzione tecnologica. L’ha divisa in quattro parti, quattro atti di una stessa opera di creazione di una CER dove trova spazio anche la blockchain, per garantire la sicurezza dei dati e massimizzare efficienza, ricavi e sostenibilità ambientale. Tra design, creazione, gestione e marketplace, il punto di forza della piattaforma è certamente la parte di creazione, “quella che risolve i tanti problemi di burocrazia tuttora presenti quando si prova a fondare una comunità energetica rinnovabile”, spiega Alessandra Coco, marketing specialist di HexErgy. Si dice soddisfatta dell’accoglienza finora ricevuta dal mercato, ma né lei né il suo team si accontentano di questo sorridente riscontro. “In futuro desideriamo offrire la possibilità di scambio energia anche TRA comunità energetiche e non solo ciascuna al proprio interno – afferma – e dopo l’Italia, nel 2026 vogliamo raggiungere anche Portogallo, Spagna e Francia”.

Frequentando qualche evento “da startupper”, probabilmente incontreranno Jane, ma più che calpestarsi i piedi a vicenda, le due realtà potrebbero addirittura trovare un modo per collaborare. Già incubata presso X-UP (Polytechnique) e Leonard (VINCI), questa startup francese ha scelto di concentrarsi su una piattaforma che abilita comunità energetiche basate unicamente sull’energia solare “perché si prevede diventerà la principale fonte di elettricità al mondo entro il 2050 – spiega il co-founder Nathan Bouldoiresnoi vogliamo renderla accessibile a tutti perché il sole dà energia ogni giorno a tutto il Pianeta e noi crediamo che debba poter essere utilizzata per alimentare un futuro più equo e sostenibile. Questo per noi è un obiettivo significativo, urgente e non solo di business”.

Un’altra ragione per cui Jane ha scelto il sole sono i costi di accesso alle tecnologie per sfruttare la sua energia, ben più bassi di quelli legati a fonti eoliche o impianti idroelettrici.

Flessibile e accessibile a tutti, proprio come l’energia solare, la piattaforma di Jane si rivolge soprattutto ai cittadini comuni, con una particolare attenzione alle aree rurali e alla specifica categoria degli agricoltori. “Supportandoli nello sfruttare le proprie potenzialità di produzione di energia solare, permettiamo loro di generare un reddito aggiuntivo, guadagnandosi un ruolo da protagonisti delle proprie comunità, anche come fornitori di energia – spiega Bouldoires – Questo può favorire una maggiore coesione e rappresentare una motivazione per impegnarsi sul territorio, al di là della coltivazione del loro singolo appezzamento di terreno”. Campi a parte, i vantaggi illustrati valgono anche per i comuni cittadini che possono allontanarsi dal rischio di povertà energetica sposando un modello partecipativo e guadagnando un nuovo legame con la propria comunità di origine o residenza. “Crediamo che la condivisione dell’energia possa costruire solidarietà locale e legami sociali”, afferma infatti Bouldoires, mettendo in luce le stesse complessità nel far decollare le comunità energetiche rinnovabili già emerse per l’Italia: complessità tecniche e amministrative.

Anche in Francia, come in Italia, sembrano essere le startup le più pronte a sfruttare la tecnologia per semplificare e democratizzare l’opportunità proposta dall’Europa e tradotta con goffaggine dagli stati membri in una possibilità poco facile da abbracciare.

Creare CER creative

Francia e Italia non sono infatti gli unici Paesi ad arrancare nella messa a terra del modello sharing proposto dalle comunità energetiche. Il panorama europeo è vario ma la burocrazia frenante è una costante cross border e in ogni Paese impone una distanza tra modelli ideali identificati nei palazzi di Bruxelles e iniziative concrete realizzabili sul territorio d’Europa. L’abisso che continua a separare decisori, regolatori e cittadini diventa un terreno fertile per nuove iniziative di business ma anche per progettualità di diverso taglio altrettanto innovative.

Un buon esempio è l’iniziativa triennale Co-PED (Community-based cultural and social centers as incubatori for Positive Energy Districts) che invita i centri sociali e culturali a diventare protagonisti della transizione energetica nella comunità dove operano, creando modelli di gestione e governance finanziaria per aiutarli a passare dalle promesse ai fatti senza inciampare nella burocrazia. Tra i principali obiettivi di Co-PED emerge quello urgente di colmare il divario rurale-urbano, garantendo una transizione energetica inclusiva ma anche diffusa. I centri culturali e sociali in aree non metropolitane possono svolgere un ruolo cruciale in tal senso, trasformando in laboratori partecipati di nuovi paradigmi di consumo. Lo stesso vale per la necessità di aumentare la partecipazione da parte dei cittadini a iniziative che partono dall’Europa e che rischiano di essere percepite lontane e/o imposte dall’alto.

Un centro culturale o sociale locale, può diventare un ottimo “mediatore” avvicinando le persone alle politiche europee di sostenibilità ambientale, svelandone il valore strategico e inclusivo. Nelle attività previste da Co-PED, ce ne sono anche di dedicate ai responsabili politici a livello sia locale che nazionale ed europeo. Quelli che desiderano imparare a mettere a terra le comunità energetiche rinnovabili facendole attecchire nel proprio territorio possono contare su questo nuovo alleato per lo sviluppo di schemi di finanziamento, incentivi e politiche che ne facilitino la realizzazione.

Sotto forma di consorzio internazionale, Co-PED riunisce centri sociali e culturali, istituti di ricerca, reti civiche e società energetiche di varia provenienza ma ugualmente disposte a condividere best practices e competenze. Lo potranno fare ancora meglio negli otto Urban Living Lab che stanno nascendo nei vari contesti urbani, periurbani e rurali, come test ground per soluzioni collaborative, adattabili e scalabili. L’indirizzo di quello italiano coincide con quello di BASIS e della sua community energetica in Val Venosta, quelli degli altri 7 sono sparsi tra Svezia, Francia, Austria, Ungheria e Paesi Bassi. Sul sito ufficiale di Co-PED se ne può apprezzare l’artistica diversità ricca di contrasti ma anche di opportunità da cogliere e da mettere offrire ai loro territori, moltiplicate.


Questo articolo è stato prodotto nell’ambito delle Thematic Networks di PULSE un’iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali. 


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