Le “Tecnologie dell’intuizione” sono un ossimoro, una contraddizione in termini, almeno dal punto di vista apparente. In realtà, c’è di più. Mettere insieme queste due anime, quella del potenziale creativo e dei sistemi organizzativi, permette di creare un modo diverso di guardare le attività delle aziende. E le sorprese non mancano.

«È il titolo, particolarmente felice, di un libro di Enrico Giraudi», dice Paolo Cervari nel corso di una intervista telefonica. «Da un lato evoca il calcolo freddo e dall’altro il calore dell’incalcolabile. Per me è una soluzione per costruire le costellazioni organizzative manageriali, un format per cui sono certificato che permette di stabilire in maniera collaborativa gli elementi del problema e affrontali insieme. È un metodo che permette di costruire una costellazione molto semplice che fornisce elementi sui quali riflettere e che consentono di cambiare le cose».

Paolo Cervari

Paolo Cervari è un filosofo. Anzi, il Chief Philosophy Officer di Guanxi, consulente di Exeo Consulting, cofondatore di Sherpa42, con ruolo di consulente per gruppo interno di ExO Italy e stratega per WeMind Academy. Ma sopra tutto è un “consulente per le persone e la cultura”. L’approccio è comunque atipico. La figura del filosofo come consulente per le aziende è una novità relativa, almeno in Italia. «Penso di essere il primo – dice Cervari – ma non c’è una lista, quindi non posso dirlo con certezza. La sostanza è più importante: mi occupo della filosofia aziendale. La filosofia si occupa di ciò che è vero, di ciò che è giusto e ci è consono e piacevole. Sono le critiche di Kant, le tre branche del sapere filosofico: l’ontologia, cioè cosa è vero, l’etica, cioè se una cosa è giusta o sbagliata, e l’estetica, cioè cosa è consono alla mia sensibilità. Penso che queste tre aree siano essenziali per qualsiasi soggetto e per qualsiasi organizzazione. Lavoro in questo ambito eclettico che riguarda le aziende in modo diverso da quelli tradizionali».

La filosofia in azienda

Le aziende sono entità particolari. Tendiamo a confonderle con il loro nome, il logo, gli edifici dove hanno sede, il tipo di ragione sociale. In realtà, le aziende sono persone. E quando si accetta questo punto di vista, occorre guardare le cose dal punto di vista delle persone e delle loro relazioni.

«Mi occupo dello scopo delle aziende e del modo con il quale viene portato avanti. Lo scopo per una azienda è fondamentale: viene elaborato dalle persone, viene diffuso in tutta la struttura, dà la misura se quel che si fa ogni giorno avvicina o allontana dallo scopo. E siccome lo scopo evolve, ogni giorno bisogna chiedersi quanto ci si avvicini o ci si allontani».

Paolo Cervari propone come esempio Google: l’obiettivo dell’azienda era, all’inizio, fare in modo che tutte le informazioni fossero condivisibili. La misura di questo scopo è la lente attraverso cui guardare, nel corso del tempo, il modo in cui avviene l’esecuzione delle attività lavorative.

«Il punto è vedere e capire se ogni azione posta in essere dalle persone dell’azienda ci avvicina di più o ci allontana dallo scopo stabilito. Questo tipo di disciplina quotidiana è esattamente quello che un filosofo azienda oggi può aiutare a valutare, con una funzione di custode e testimone dello scopo. Inoltre, può avere un ruolo chiave nel dialogo che avviene tra i lavoratori e l’azienda, cioè il patto che è stato fatto. I soci nell’etimologia latina erano gli alleati: e questa è l’idea che deve stare alla base del dialogo tra le persone di un’azienda: un dialogo produttivo e allineato sui valori e gli scopi. È chiaramente un ambito elettivo per il lavoro di un filosofo, che si occupa di esplicitare i valori e le aspettative».

L’importanza dello scopo, e il fatto che non si possa evadere dalla sua necessità, sta in un altro paradosso: gli imprenditori e le aziende che dichiarano di non avere uno scopo preciso. «In realtà chi non ha un “purpose”, uno scopo, ha quello come fine: non avere uno scopo. Qualsiasi organismo si muove seguendo dei criteri: gli organismi unicellulari si muovono seguendo il caldo e il freddo e la presenza di zuccheri. Ma quando un imprenditore ti dice che non c’è uno scopo, vuol dire che ne sono inconsapevoli. Probabilmente è solo fare soldi, ma se un filosofo li interroga può chiederli quali limiti si pongono per fare soldi: sono disposti a licenziare a sangue freddo, rovinare famiglie, magari a violare la legge, a uccidere qualcuno? È un paradosso, ma fa emergere i limiti e quindi l’idea di quello che fa in realtà la persona che diceva di non avere uno scopo. E se questa persona si dà dei limiti, perché li rispetta? Quali sono i modi con i quali si definisce? Pian piano, facendo le domande giuste, emerge un ritratto più ricco e più complessi di quel che fa un imprenditore o una azienda».

C’è una domanda che ha una valenza notevole dal punto di vista della costruzione delle imprese: per quanto tempo si vuole fare business?

«Se pensi di fare impresa con una determinata attività solo nel breve o anche nel medio o nel lungo cambiano molte cose. Un discorso è progettare la propria attività perché esista tra 30 anni e un altro è quello di fare l’exit entro cinque. E se si ha questo secondo obiettivo, come fanno alcune startup che progettano di vendere al terzo round di investimenti, si comincia a capire che cos’è che sta ammazzando l’industria, avvelenandone il tessuto: se lo scopo è solo arricchirsi, lo si può fare costruendo delle schifezze, basta che gli altri ci credano. Questo è immorale, ma non nel senso della morale cristiana. È immorale dal punto di vista del capitalismo industriale, perché è incompatibile con uno sviluppo armonico e coerente della società. Facendo le domande giuste si possono capire molte cose».

Il lavoro del filosofo aziendale per Paolo Cervari è la chiave di volta che racchiude una serie di attività consulenziali diverse. Dal lavoro per Alberto Giusti, che lo ha voluto come filosofo aziendale residente per Guanxi Group, a quello con le società di consulenza che aiutano le aziende ad arrivare agli obiettivi che si sono dati e transitare attraverso la digital transformation, secondo Cervari è possibile fare molto grazie alla filosofia:

«Le persone normalmente considerano la filosofia come una cosa molto razionale e l’intuizione come poco razionale. In realtà sostengo che anche nella filosofia ci sia razionale e irrazionale e che i filosofi lavorino anche sulla base delle passioni e delle intuizioni e poi costruiscano sopra la razionalità che permette di dargli un senso».

Alla fine, l’obiettivo è portare una voce nel mondo delle aziende che permetta di offrire uno sguardo alternativo. Perché c’è un problema, legato alla storica refrattarietà da parte delle imprese famigliari italiane rispetto all’innovazione: «Le nostre aziende piccole e medie vogliono solo un trapano migliore che fa i buchi più velocemente. Se lo vedono, lo capiscono». La sfida è fargli capire quel che non possono vedere ma che avrà un impatto enorme sulla loro crescita o addirittura sulla loro stessa capacità di sopravvivere.

Il cambiamento, visto che le aziende sono in realtà persone, passa dal talento. E dalla capacità di attrarne di più, sempre migliore. Per questo il talento, spesso travestito da ideologia e retorica, è in realtà un tema che merita un approfondimento e un po’ di distinzioni.

«La prima cosa è che gli uffici di gestione delle risorse umane stanno assumendo un ruolo chiave in azienda. Occorre ripensare molte cose. Siamo abituati a pensare il talento come bravura, capacità del singolo, che per si scopre che cambia molto a seconda dell’ambiente in cui si trova, della rete di cui fa parte. Abbiamo una idea individualista del talento, ma è più logico pensarlo in termini di team, di rete, di gruppi sociali. Per questo ritengo che il punto non sia solo attrarre il talento, quanto avere un ambiente in cui le idee fioriscano. E qui c’è un problema di sistema e di struttura decisionale delle aziende, perché mantengono una impostazione gerarchica che non è più adatta ai nostri tempi».

Siamo ancorati ad antichi modelli burocratici e gerarchici

C’è un discorso a cui Paolo Cervari tiene molto e che ruota attorno a una immagine generata durante la conversazione: la gerarchia militare.

«Le aziende oggi sono ancora seguono un modello organizzativo di tipo gerarchico. Mentre ci sono parole come “holocracy” e organizzazioni “teal”, dal colore delle foglie di tè, in realtà le aziende sono ancora legate a un modello burocratico e gerarchico antico, codificato, di stampo militare. Un modello nato con l’esercito prussiano, in cui gli ufficiali dovevano obbedire agli ordini perché durante la guerra un ufficiale che prende decisioni creative non funziona, sarebbe un pessimo ufficiale. Solo che quel mondo non c’è più».

Le organizzazioni ispirate dal modello prussiano, che è alla base della struttura aziendale di tutte le grandi e piccole imprese, sono perfette per un mondo basato sull’esecuzione. Un mondo che non riserva sorprese, prevedibile, nel quale la strategia è aprioristicamente giusta e la differenza la faccia chi riesce a eseguirla nel modo migliore. L’esercito più disciplinato e compatto vince contro gli altri.

Invece, oggi viviamo in un mondo completamente diverso:

«Il mondo è complesso, caotico, imprevedibile. Non si possono pensare dei modelli decisionali lenti, poco reattivi e basati su saperi precedenti. Bisogna portare la responsabilità della decisione al livello operativo più vicino possibile alla realtà e dargli l’autonomia e l’agenzia per prendere la decisione. Negli Usa hanno portato la autonomia decisionale al livello più vicino possibile a dove si svolge l’azione. Il cecchino può prendere decisioni in modo autonomo anche se hanno conseguenze strategiche, perché non è possibile fare domande ai superiori, attivare procedure che richiedono tempo. La decisione del cecchino di sparare è una funzione della sua capacità di analisi. Qui entra in campo una esperienza storica nel campo delle organizzazioni che è quella del manifesto Agile, peraltro vecchio di più di venti anni. È una prassi operativa, apparentemente sdoganata, che ancora va spiegata in azienda. Occorre dire alle persone che non è necessario che le cose siano perfette, ma che vengano fatte. Poi vedremo se sarà necessario perfezionarle perché hanno dei difetti. Questo cambiamento di mentalità è fondamentale perché trasforma il modo con il quale le persone lavorano in azienda».

Infine, una nota. La pandemia e il lockdown hanno accentuato un fenomeno in filigrana già presente nella nostra società. È il fenomeno del rifiuto del lavoro.

«Perché c’è una nuova generazione che non accetta il lavoro purché sia. Proporre a una persona di 22 anni di fare un lavoro brutto, dove non si impara niente, obbedendo in silenzio, facendo straordinari non pagati e che domani verrà automatizzato e quindi cancellato, non è più accettato. Questo accade perché si sono alzati gli standard: avere una casa riscaldata un tempo non era così normale e oggi invece è dato per acquisito. Per questo oggi c’è un cambiamento di valori tra i giovani che dicono: “si lavora come dico io e non solo come dici tu“»,

Resistere, opponendo schemi precedenti tradizionali e ritenuti immutabili, è semplicemente futile.

Scritto da:

Antonio Dini

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