Nell’ambito degli studi sulla protesica dell’arto, e dell’arto superiore in particolare, di particolare rilevanza sono gli sviluppi nella protesica attiva, grazie all’utilizzo di sensori elettromiografici. La nuova frontiera è rappresentata dall’RFID

Sommario

Dall’RFID una risposta per migliorare la protesi dell’arto

Diverse tipologie di protesi

Le protesi passive

Le protesi attive

Protesi ibride

Le protesi mioelettriche: come funzionano

Migliorare la comunicazione con l’RFID

RFID anche sottocute

Lo studio di Tor Vergata e Inail

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Sono davvero molto lontani i tempi in cui la protesica degli arti inferiori o superiori aveva meri scopi estetici, con l’obiettivo di nascondere o rendere meno evidente la mancanza di un arto o di parte di esso. Fin dagli Anni Sessanta del secolo scorso, medici e ingegneri si sono impegnati per sviluppare soluzioni innovative che consentano a pazienti di ridurre le limitazioni che l’amputazione porta inevitabilmente con sé e sostituire, almeno in parte, le funzionalità dell’arto o della parte di esso mancante.

A questo molto hanno contribuito le ricerche in ambito ingegneristico, biomeccanico e nel settore della biomeccatronica, che negli anni hanno portato alla realizzazione di dispositivi sempre più complessi, personalizzati, durevoli e funzionali.

Fondamentale, nella storia della protesica del nostro Paese è la creazione, nel 1961, del Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio (BO), struttura, come si legge nella nota di presentazione, “nella quale vengono applicate le più aggiornate conoscenze nel campo dell’ortopedia tecnica e dove, realtà unica in Italia, viene ricostruito il quadro funzionale e psico-sociale dell’infortunato, per la completa reintegrazione nel mondo del lavoro, nella famiglia e più ampiamente nella società”. Il Centro collabora con Enti e Centri di Ricerca in tutta Italia e si occupa della ricerca di nuove tecnologie finalizzate alla produzione, della produzione e fornitura di protesi e presidi ortopedici, nonché della riabilitazione ed addestramento all’uso della protesi.

Diverse tipologie di protesi

Le protesi passive

Quando si parla di protesi, la prima, grande distinzione è tra protesi passive e attive.
Nel primo caso si tratta di dispositivi che non consentono un movimento intrinseco da parte del paziente, se non l’opponibilità del pollice mediante un meccanismo a molla, ma sono pensate per ricostruire la sua integrità corporea e per completarne lo schema sia  in  termini  di estetica sia in termini di riequilibrio dei pesi, al fine di evitare l’insorgenza di ulteriori patologie.

È importante la distinzione tra protesi cosmetiche, che, come suggerisce il nome, hanno una mera funzionalità estetica, possono essere applicate in tutti i livelli di amputazione e vengono utilizzate quando non sia possibile l’applicazione di protesi attive e funzionali, e protesi lavorative. In quest’ultimo caso si tratta di protesi che vengono utilizzate prevalentemente in caso di amputazione delle dita o del carpo della mano e consentono al paziente di svolgere determinate attività grazie all’inserimento di specifici strumenti, quali ad esempio uncini o pinze. In questo caso, l’estetica lascia spazio alla funzionalità e l’obiettivo è quello di un più completo reinserimento del paziente nel contesto lavorativo.

Le protesi attive

Le protesi attive, come suggerisce il nome, hanno come obiettivo il ripristino delle caratteristiche funzionali dell’arto mancante. In realtà, più che di vero e proprio ripristino si tratta di mimare l’aspetto e sostituire la funzione dell’arto amputato. Obiettivi tutt’altro che semplici da raggiungere, se si considerano le caratteristiche fisiologiche degli altri e dell’arto superiore in particolare. Particolarmente complessa è la ricostruzione dei gradi di liberà dell’arto: la sola mano ne comprende 23, necessari per consentire di compiere le più diverse traiettorie nello spazio per afferrare oggetti delle più diverse forme e dimensioni.

Anche nel caso delle protesi attive, è importante la distinzione tra le diverse tipologie: protesi a energia corporea, protesi a energia extracorporea e protesi ibride.

Le protesi a energia corporea, dette anche cinematiche, utilizzano i muscoli residui o i muscoli di zone limitrofe. Si tratta di ausili che possono essere utilizzati per tutte le amputazioni fino al 3° medio transomerale e utilizzano dei bretellaggi a trazione: il paziente è in grado di eseguire movimenti controllati, sfruttando l’energia meccanica prodotta dal momento della spalla o del moncone. Le funzionalità che riescono a riprodurre comprendono essenzialmente apertura e chiusura della mano e flesso-estensione del gomito.

Le protesi a energia extracorporea rappresentano l’ambito sul quale maggiormente si concentrano le attenzioni di ricercatori in tutto il mondo. In produzione fin dalla fine degli anni Sessanta, le protesi a energia extracorporea o mioelettriche utilizzano segnali elettromiografici, che provengono dalla contrazione dei residui muscolari dei pazienti, o comandi elettrici attivati da specifici interruttori. Nella sostanza trasformano l’energia elettrica in energia meccanica, così da consentire la movimentazione delle diverse parti della protesi. I segnali mioelettrici vengono rilevati da elettrodi specifici, convogliati a un amplificatore e quindi utilizzati per ottenere il movimento funzionale richiesto. Naturalmente, è necessario che il paziente sia in grado di azionare in modo volontario e selettivo i diversi gruppi muscolari per poter “comandare” le azioni di estensione e flessione sulla protesi.

Le Protesi ibride

Come suggerisce il nome, rappresentano l’unione tra protesi a energia mioelettrica (più frequentemente la mano) e protesi cinematiche (più frequentemente il gomito).
Il loro vantaggio, rispetto alla protesi a energia extracorporea, è quello della leggerezza, unita a una riduzione del costo complessivo per la loro realizzazione.

Le protesi mioelettriche: come funzionano

Come accennato, le protesi mioelettriche sono in grado di eseguire i movimenti dell’arto superiore sfruttano l’energia che proviene da accumulatori elettrici e batterie.
Allo stato attuale, sono in grado di controllare fino a tre motori in corrente continua, in genere si applicano dalla disarticolazione del polso fino a quella della della spalla, e in qualche caso anche nelle amputazioni parziali della mano, e sono in grado di eseguire movimenti di flessoestensione, di prono-supinazione del polso e di apertura e chiusura della mano.
In particolare, per quanto riguarda le mani mioelettriche, si parla di due tipologie principali: i modelli tridigitali, nei quali pollice, indice e medio si muovono attivamente, mentre anulare e mignolo si muovono in modo passivo, mentre i modelli poliarticolati, più complessi e costosi, presentano un movimento attivo in tutte e cinque le dita. La ricerca si sta concentrando in modo particolare su questi ultimi modelli, soprattutto in un’ottica di programmabilità, al fine di riprodurre i movimenti di ogni singolo dito, grazie all’applicazione di algoritmi di machine learning.

Componenti protesi mioelettrica

Componenti di una protesi mioelettrica – Immagine da elaborato di Laurea di Alice Rosa – SUPSI

Come si evince dall’immagine qui riportata, le parti principali che compongono una protesi miolettrica sono l’invaso, realizzato su misura sulla morfologia del moncone residuo, che ospita gli elettrodi che raccolgono il segnale elettromiografico generato, come specificato in precedenza, dalla contrazione dei muscoli. Il segnale viene amplificato ed elaborato da una unità di controllo che definisce quale è il movimento richiesto sulla base di un algoritmo. Quanto all’alimentazione, l’energia è fornita da accumulatori esterni che azionano un motore elettrico in corrente continua la cui rotazione determina il tipo di movimento. Normalmente vengono utilizzate batterie ricaricabili a 6-8 Volt, che in genere hanno una autonomia di mille movimenti nella giornata, che possono significativamente salire nel caso in cui si utilizzino batterie al litio.

Migliorare la comunicazione con l’RFID

Le protesi del braccio possono essere controllate da segnali elettromiografici (EMG) generati dalla differenza di potenziale elettrico (tipicamente 70-90 mV di picco) tra l’esterno e l’interno delle cellule muscolari durante la contrazione del muscoli residui del moncone dell’avambraccio. I segnali vengono vengono catturati dai sensori della pelle e quindi elaborati in tempo reale per la trasduzione nei gesti della protesi.
Condizione necessaria per il corretto funzionamento di questo tipo di protesi è che i sensori siano in grado di captare il segnale elettromiografico generato a seguito di una contrazione isometrica del muscolo sottostante. Il segnale, va detto, ha un valore molto basso, dell’ordine dei microVolt e una banda di frequenze inferiori al kiloHertz.
Ed è proprio su questo aspetto che si sta concentrando una ricerca in corso che vede la collaborazione dell’Università di Tor Vergata e il Centro Protesi INAIL di Budrio.
La ricerca parte proprio dalla constatazione che i segnali elettromiografici vengono raccolti da sensori a montaggio superficiale: una scelta che presenta limiti evidenti legati alla variazione dell’impedenza cutanea dovuta al sudore o alla possibilità di distacco. Inoltre, come accennato poc’anzi, sono caratterizzati da un basso rapporto segnale-rumore dovuto all’assorbimento dei segnali mioelettrici da parte di strati muscolari, grassi e cute.
Proprio per superare questi limiti, da tempo si lavora alla sostituzione dei sensori a montaggio superficiale con dispositivi impiantabili. Uno sviluppo interessante e che sta trovano sempre maggiore diffusione, ma che richiede comunicazioni wireless sicure e affidabili.

Per questo motivo, lo studio si concentra sulla possibilità di impiantare i sensori mioelettrici nel braccio del paziente ed essere interrogati dalla protesi attraverso un collegamento wireless transcutaneo, utilizzando dunque tecnologia a radiofrequenza nella banda UHF (860-960 MHz).

RFID anche sottocute

Negli ultimi anni, lo sviluppo di nuove tecnologie wireless per applicazioni sanitarie ha riscosso un notevole interesse per una serie di indubbi vantaggi ad esse correlati, come la riduzione del rischio di rottura dei cavi o la necessità di sostituire le batterie incorporate negli impianti.
È questo il campo di applicazione della telemetria biomedica, che consente la trasmissione di segnali fisiologici attraverso il corpo per monitorare da remoto i parametri biofisici umani mediante dispositivi medici impiantati all’interno del corpo del paziente.
In questo ambito, l’RFID, tecnologia di identificazione a radiofrequenza, rappresenta un’interessante soluzione, anche in considerazione del fatto che l’impianto di tag RFID è tecnica ampiamente utilizzata da anni per l’etichettatura degli animali.
Non solo.
Le architetture basate su RFID sono già state sperimentate per il campionamento di parametri umani fisiologici variabili nel tempo. Ad esempio, la Wireless Identification and Sensing Platform (WISP) è stata utilizzata per la misurazione esterna dei segnali elettroencefalografici (EEG) e per la registrazione invasiva della conta dei picchi neuronali all’interno del cervello.
Gli sviluppi recenti nello studio dei trasponder e dei sensori hanno aperto nuovi potenziali scenari. I tag RFID potrebbero essere impiantati nell’uomo senza la necessità di una fonte di alimentazione integrata: possono essere attivati da remoto da un lettore esterno tramite il trasferimento di potenza wireless.

Architetture basate su RFID: lo studio di Tor Vergata e Inail

Lo studio, dunque, si concentra sulla progettazione di un RFID-EMG completo, che include anche l’interfaccia di antenna e sensore, per la misurazione automatica e non cooperativa dell’elettromiografia.
Si tratta di uno studio interessante, perché coniuga l’utilizzo di componenti a basso costo, quali sono per l’appunto i sensori RFID, e i benefici che derivano dal non utilizzo di connessioni cablate esterne.
Il risultato è un sensore EMG epidermico, facile da montare, simile a un cerotto, che per le sue dimensioni compatte e per la sua flessibilità può eventualmente essere oggetto di un impianto sottocutaneo, nell’interfaccia muscolo-grasso, così da eliminare possibili problemi di distacco dovuti ad esempio alla sudorazione e migliorando nel contempo anche il rapporto segnale-rumore del biosegnale acquisito.

RFID protesi - La ricerca italiana

RFID per le protesi dell’arto – La ricerca italiana, credits:
Carolina Miozzi, Giovanni Saggio, Emanuele Gruppioni, Gaetano Marrocco, Vito Errico

Partendo dunque dal principio che l’identificazione a radiofrequenza nella banda UHF può essere considerata una possibile piattaforma di comunicazione per evitare sensori cablati e facilitare il montaggio e la rimozione della protesi, i ricercatori che partecipano allo studio, Carolina Miozzi, Giovanni Saggio, Emanuele Gruppioni, Gaetano Marrocco e Vito Errico, hanno dimostrato mediante simulazioni e misurazioni la fattibilità di un collegamento transcutaneo UHF-RFID tra antenne impiantate all’interno del moncone e un interrogatore esterno idoneo ad essere integrato nella presa protesica.
La comunicazione può essere stabilita correttamente utilizzando una potenza di ingresso inferiore a 23 dBm, in conformità con l’integrità dei dati (Bit Error Rate) e con le normative sull’esposizione elettromagnetica.

Scritto da:

Piera Midemù

Giornalista Leggi articoli