Analizzare l’impatto del Covid-19 su pazienti di etnia, classe sociale, genere, lingua, luogo di provenienza e stato assicurativo diverso: questo lo studio condotto dal Brigham and Women's Hospital di Boston sui suoi pazienti e dipendenti, i cui risultati sono serviti a definire una strategia data driven, finalizzata a ridurre le conseguenze di ogni forma di discriminazione razziale e disuguaglianza socio-economica sulle minoranze etniche colpite dal virus.

La discriminazione razziale, e il suo sottile legame con la pandemia da Covid-19 e l’assistenza sanitaria, negli Stati Uniti è un tema al centro del dibattito, a partire dallo scoppio dell’emergenza virus. All’origine, il dato emerso chiaramente fin dalle prime settimane della fase acuta dell’epidemia mondiale: il Coronavirus, negli USA, sta colpendo con più incidenza le minoranze etniche.

Dato confermato dall’Organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti, ovvero il Centers for Disease Control and Prevention, il quale ci informa di afroamericani e latinoamericani con il doppio delle probabilità di contrarre il virus rispetto al resto della popolazione. Il tutto accompagnato da un effetto a catena che va a inasprire dinamiche antiche, legate all’asse disparità razzialidisuguaglianze socioeconomiche.

Tra le motivazioni alla base di tale dato, il fatto che le persone appartenenti a questi gruppi sociali hanno, nell’ambito del sistema sanitario USA, meno possibilità di accedere alle cure mediche a causa di precarie situazioni economiche. Aspetto, questo, che si riflette anche sulle condizioni di vita, che rendono difficile, per questi soggetti, rispettare corrette norme igieniche e misure di sicurezza anti-covid, tra cui il distanziamento sociale.

E a ciò si aggiungono fattori che hanno a che vedere con il tipo di professione esercitata: afroamericani e latinoamericani, spesso, svolgono attività di servizio o di produzione che non è possibile svolgere in modalità smart working. Dunque, anche nelle fasi più critiche della pandemia, hanno dovuto recarsi fisicamente a lavoro, mettendo a rischio la propria salute e quella dei colleghi.

Infine, la presenza di patologie croniche quali diabete, obesità e scompensi cardiaci – in molti casi correlabili a un’alimentazione poco sana e a difficoltà di accesso alle cure mediche, che consentirebbero il monitoraggio costante di tali disturbi – contribuisce, in queste persone, ad aggravare gli effetti del coronavirus.

Questo il problema. Vediamo, ora, il metodo dal quale è scaturita una delle soluzioni possibili.

Discriminazione razziale e Covid-19, lo studio del Brigham and Women’s Hospital di Boston

Analizzare l’impatto del Covid-19 su pazienti di etnia, classe sociale, genere, lingua, luogo di provenienza e stato assicurativo diverso: questo lo studio condotto dal Brigham and Women’s Hospital di Boston – clinica universitaria della facoltà di medicina dell’Università di Harvard – sui suoi pazienti e dipendenti, fin dai primi giorni di pandemia. I risultati sono serviti a definire una strategia data driven finalizzata a ridurre le conseguenze di ogni forma di discriminazione razziale e disuguaglianza socioeconomica sulle minoranze etniche colpite dal virus.

La metodologia della ricerca, oltre alla raccolta di dati per mezzo di una piattaforma unificata, si fonda sull’esame dell’effetto intersezionale del virus attraverso l’analisi di più variabili. Che cosa significa, nel concreto? Che sono state analizzate le sovrapposizioni (intersezioni) delle diverse identità sociali dei pazienti (genere, classe, etnia, lingua, luogo di provenienza e stato assicurativo) e le loro interazioni a molteplici livelli, per arrivare a identificare le relative possibili discriminazioni.

In sintesi, non ci si è fermati allo studio dell’impatto differenziato del coronavirus sulle persone di colore rispetto ai bianchi o sugli uomini rispetto alle donne. L’analisi di più variabili ha permesso di andare oltre e di comprendere, ad esempio, l’impatto differenziale sugli uomini di colore rispetto alle donne di colore o, ancora, sulle donne di colore appartenenti a una data classe socio-economica e con un dato stato assicurativo rispetto a donne bianche appartenenti a un’altra classe socio-economica e con un altro stato assicurativo.

Discriminazione razziale: le variabili “lingua” e “luogo di provenienza” nella ricerca dell’ospedale di Boston

L’approccio utilizzato ha rilevato disuguaglianze che altrimenti sarebbero rimaste nascoste. In particolare, tra i dati messi in luce isolando e incrociando due specifiche variabili – lingua e luogo di provenienza – il fatto che il numero di decessi dei pazienti Covid ispanici non di lingua inglese ricoverati in terapia intensiva è più elevato rispetto a quello dei pazienti ispanici di lingua inglese. Dato importante, questo. Che ha condotto a riflessioni, da parte del Brigham and Women’s Hospital, su come migliorare, fin dal primo ingresso in ospedale, l’accesso dei pazienti non di lingua inglese a un servizio di interpretariato.

Allo stesso modo, la variabile geografica – correlata alla mappa dei tassi di contagio per quartiere, a Boston – ha rilevato che le zone della città a più alta densità di persone di colore sono risultate positive al tampone in un numero più alto rispetto a quelle zone in cui vivono i bianchi. Di fronte a questi dati, l’ospedale di Boston, nei mesi scorsi, ha creato una task force e realizzato test Covid-19 gratuiti nei quartieri risultati più a rischio, monitorando, attraverso tamponi ripetuti, oltre 5.800 residenti.

Il valore dello studio realizzato è stato proprio quello di essere riuscito a effettuare, attraverso l’incrocio dei dati raccolti, oltre 7.500 proiezioni di determinanti sociali della salute, mettendo in evidenza problematiche a breve e a lungo termine, che l’ospedale ha aiutato a risolvere concretamente, ad esempio distribuendo, ai residenti delle zone della città più a rischio, mascherine, cibo, buoni pasto per generi alimentari e beni essenziali come pannolini e salviette.

Disuguaglianze sociali ed economiche ai danni dei dipendenti dell’ospedale

Lo studio condotto dal Brigham and Women’s Hospital, oltre ai pazienti ricoverati presso la struttura ospedaliera, ha coinvolto anche i dipendenti, i cui dati sono stati raccolti e incrociati in base a informazioni relative alla classe sociale di appartenenza.

Che cosa hanno messo in luce? Una tendenza preoccupante: su un folto gruppo di dipendenti impegnati in prima linea nella lotta al Covid – tra cui chi si occupa della distribuzione del cibo, della movimentazione di materiali e macchinari, di assistenza a pazienti e medici – erano stati eseguiti meno tamponi e meno test sierologici rispetto a quei dipendenti dal livello socioeconomico più elevato, tra cui medici e infermieri. E il primo gruppo di dipendenti era risultato positivo al Coronavirus fino a dieci volte di più rispetto al secondo gruppo.

Di fronte a questo dato, la Direzione dell’ospedale ha innanzitutto ritenuto inadeguato – data l’emergenza in corso e la gravità di quanto rilevato – il classico mezzo di comunicazione aziendale (email) utilizzato per comunicare con quel gruppo di dipendenti. Successivamente, oltre ad avviare test tempestivi in presenza dei primi sintomi, li ha raggruppati in piccole sessioni in tema di salute, benessere e prevenzione, stimolandoli a porre domande, a esprimere preoccupazioni e a sciogliere dubbi sul virus.

A queste sessioni – alle quali hanno partecipato oltre mille dipendenti – hanno preso parte, tra i tanti, virologi, esperti di sicurezza e responsabili delle risorse umane, i quali hanno distribuito ai presenti materiale informativo redatto in cinque lingue.

Scritto da:

Paola Cozzi

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin