Mettendo a nudo le sofferenze del giornalismo italiano, si possono cercare delle soluzioni in ambito europeo, o costruirne di nuove. Magari anche sfruttando l’intelligenza artificiale. Invece di affrontare questa tecnologia come un nemico, o ripudiarla, la si può utilizzare per restituire al giornalismo qualità, “assumendola” come assistente junior.

Oltre 500 giornalisti italiani sottoposti a uno screening sulla salute mentale del settore. È il più ampio e completo mai fatto finora, e non è un caso che Irpi l’abbia realizzata proprio ora. Era necessario da tempo, infatti il quadro che ne emerge è complicato. Compromesso? Dipende da diversi possibili fattori di aggravamento che si intrecciano con l’evoluzione del settore. Ce ne sono di umani, economici e politici, ma anche di tecnologici. Tutti potrebbero rivelarsi anche ingredienti da mescolare in una nuova formula di cura. Serve investigare e a farlo sono soprattutto i giornalisti direttamente coinvolti, da quando oltre agli altri hanno iniziato a intervistare loro stessi. Una sola domanda: “come ti senti?”. 


Nel giornalismo italiano, il malessere psicologico è figlio soprattutto di precarietà e retribuzioni troppo basse. L’indagine condotta da Irpi – la più ampia mai realizzata sul tema – ha acceso i riflettori su un disagio profondo che attraversa tutte le fasce d’età e colpisce soprattutto i freelance. Ma ha anche innescato un processo di autoriflessione tra gli stessi giornalisti, chiamati a interrogarsi non solo su “come stanno”, ma su dove sta andando il loro mestiere.
Dalla Grecia arriva un esempio di resistenza e consapevolezza collettiva. Il media indipendente Solomon ha creato un toolkit di “sopravvivenza” per affrontare la salute mentale nelle redazioni. Non è una cura definitiva, ma uno strumento per condividere esperienze, aprire conversazioni e costruire una cultura del lavoro più umana e sostenibile.
Nel panorama in rapido cambiamento, l’intelligenza artificiale si affaccia come possibilità ambivalente. Per alcuni è uno strumento utile, quasi un assistente che alleggerisce i compiti più ripetitivi. Per altri è una fonte di nuove ansie e rischi, dall’erosione dell’identità professionale alla perdita del tocco umano. Molto dipende dalla conoscenza che si ha di questi strumenti e da come si sceglie di integrarli.
Dalle testimonianze raccolte emerge una parola chiave: consapevolezza. L’AI può offrire soluzioni pratiche – trascrizione, fact-checking, traduzioni – e ampliare le opportunità, soprattutto in contesti svantaggiati. Ma servono formazione continua, sperimentazione condivisa, nuove regole e strumenti sviluppati dai giornalisti stessi, per evitare che l’AI venga subita e non governata.

Stressante e sottopagato: l’autodiagnosi del giornalismo italiano 

Sfogliando l’indagine, i fattori maggiormente impattanti sul benessere psicologico sembrano essere l’instabilità e la precarietà del lavoro, seguiti dagli stipendi troppo bassi e dall’obbligo non scritto di essere connessi e disponibili a ogni ora. Tra i disturbi più comuni, l’87% dichiara di soffrire di stress, il 73% di ansia, il 68% di senso di inadeguatezza. Più del 40% riferisce di sindrome da burnout, scatti d’ira immotivati e dipendenza da internet e dai social network. Si parla esplicitamente di “depressione” in un caso su tre di quelli considerati, spaziando per fasce di età e di status diversi. Il campione è infatti composto per il 46% da giornalisti con età compresa tra i 18 e i 35 anni, per il 31% da chi è nella fascia 35-45, per il 14% da appartenenti alla fascia 45-55, per il 6% da 55-65enni e per il restante 2% da over 65. Più della metà delle persone che hanno risposto (65%) si definisce “freelance”.

Alice Facchini, la giornalista autrice dell’indagine, racconta che l’idea le è venuta dopo che Solomon ha pubblicato un toolkit sulla situazione in Grecia. 

“Ciò che mi è sembrato più inesplorato”, spiega Facchini, è il modo in cui la questione della salute mentale “influenza anche la qualità dell’informazione”. 

In Italia sei giornalisti su dieci guadagnano meno di 35 mila euro lordi all’anno”. Quasi la metà dei giornalisti freelance – che spesso sono collaboratori precari o lavoratori autonomi – guadagna meno di 5 mila euro all’anno e l’80% non supera i 20 mila euro [dati INGPI, Rapporto sulle dinamiche occupazionali nel settore giornalistico, da La Via Libera].

Secondo Alessandra Costante, Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI): 

“Il giornalismo in Italia non solo è sempre più povero e vecchio, ma è anche più precario. La precarietà è il più grande bavaglio alla libertà e all’indipendenza dell’informazione e all’articolo 21 della Costituzione”. Nell’indagine dell’Irpi emerge che “la bassa retribuzione è considerata il fattore che incide maggiormente sul benessere psicologico dei giornalisti”.

La ricetta greca: un kit di sopravvivenza e consapevolezza 

In Grecia non esistevano dati sulla salute mentale dei giornalisti, ed è per questo che uno strumento come il kit realizzato da Solomon era più che mai urgente. Iliana Papangeli, giornalista e direttrice di Solomon, spiega che l’idea “è nata dalla nostra esperienza diretta con le sfide di salute mentale che i giornalisti devono affrontare. L’abbiamo sviluppato durante il periodo senza precedenti di covid19 e allo stesso tempo abbiamo affrontato le pressioni della gestione di un’agenzia indipendente. Allo stesso tempo, il nostro team era alle prese con la sorveglianza del nostro caporedattore, con il peso emotivo di anni trascorsi in prima linea per coprire la migrazione e i rifugiati, e con la lotta costante per ottenere risorse – qualcosa che spesso sembra una corsa senza fine”. 

“La conversazione sulla salute mentale era già in corso all’interno del nostro team e sapevamo che altri – colleghi di diversi media e freelance – stavano affrontando le stesse difficoltà. I freelance, in particolare, sono ancora più vulnerabili a causa delle condizioni di lavoro precarie e della mancanza di supporto istituzionale per il loro benessere. Tuttavia, attraverso i focus group che abbiamo condotto, abbiamo scoperto che anche i media e le organizzazioni più affermate spesso non hanno gli strumenti, le politiche e le risorse necessarie per sostenere la salute mentale dei giornalisti”, continua Papangeli.

Per noi di Solomon,

“la salute mentale nel giornalismo non è solo un problema individuale: è profondamente legata alle condizioni di lavoro, ai vincoli finanziari, agli attacchi alla libertà di stampa e all’urgente necessità di ripensare la cultura delle redazioni. Dobbiamo orientarci verso una gestione incentrata sull’uomo che sfidi gli stereotipi, smantelli i comportamenti abusivi e promuova redazioni più sane e sostenibili”.

A tre anni dalla pubblicazione di questo documento in Grecia, dice Papageli, la situazione non è migliorata, e anche a Salomone esiste una carta per il benessere dei giornalisti. Tuttavia, a livello europeo la questione è diventata centrale e viene discussa in conferenze e workshop. 

Aristea Protonotariou, giornalista di Solomon: 

“Vorrei solo aggiungere che grazie alla nostra esperienza di fare del benessere uno dei nostri valori fondamentali, stiamo lavorando per estendere questo approccio anche al di fuori della nostra redazione. Vogliamo condividere questa mentalità con altri piccoli media e colleghi freelance, incoraggiandoli ad adottare pratiche simili e a dare priorità alla salute mentale nel loro lavoro. Lo facciamo non solo attraverso la pubblicazione del kit di strumenti per la salute mentale, ma anche partecipando attivamente a conferenze, tavole rotonde e interventi in Grecia e all’estero, sostenendo una cultura giornalistica più sana e sostenibile”.

Intelligenza artificiale in redazione: perché no?

Ma che dire delle ansie dei giornalisti riguardo all’emergente prevalenza dell’uso dell’AI in molti campi, compreso il giornalismo? Si potrebbe sospettare che l’AI possa aumentare le preoccupazioni dei giornalisti, in quanto aumenta l’insicurezza del lavoro e può creare ulteriori pressioni sul posto di lavoro. Al momento in Grecia non sta accadendo, secondo Protonotariou: 

“in base alla nostra esperienza a Solomon, gli strumenti di AI ci sono stati utili finora, soprattutto per le attività amministrative e operative” spiega. 

Lo stesso vale per i giornalisti con cui abbiamo parlato: le cose non stanno affatto così. Senza alcuna pretesa statistica ma per esplorare possibili dinamiche psicologiche e tecnologiche in corso nel mondo del giornalismo, abbiamo incontrato quattro professionisti, tre europei (Francia, Spagna e Repubblica Ceca) e uno filippino, approfondendo la loro esperienza con l’AI. 

A quanto emerso, tale tecnologia spesso rende il lavoro dei giornalisti più facile e accessibile, ma dipende dal livello di confidenza che si ha con gli strumenti AI, ed esso varia da giornalista a giornalista. Tutti gli intervistati rimangono però sempre molto cauti sul loro potenziale sfruttamento eccessivo nelle redazioni e chiedono maggiore consapevolezza nell’approccio e nell’utilizzo dell’AI, soprattutto per preservare l’integrità del giornalismo nel lungo periodo, nonostante l’utilità e il comfort attuali di questi strumenti.

Come viene percepita e utilizzata l’AI?

Uno stagista. Un collega junior. “Un assistente che ci dà poteri che prima non avevamo e ci permette di fare molte più cose”. Con molti se e molti ma, l’intelligenza artificiale è parte integrante e attiva del mondo del giornalismo e lo è stata fin dall’epoca dell’AI pre-generativa. Ogni progresso non fa che amplificare la gamma di utilizzi possibili e aumentare esponenzialmente i rischi e le opportunità. 

I principali utilizzi emersi nelle interviste condotte riguardano il recupero e la trascrizione delle informazioni, l’interazione con reportage molto lunghi e l’identificazione di spunti per le interviste. Può anche aiutare a migliorare la forma e la scorrevolezza di testi scritti in una lingua diversa dalla propria lingua madre, ma “mai per scrivere da zero: è una questione di etica”, spiega Caroline Harrap. Francese, Harrap lavora come freelance con la stampa internazionale e britannica, parlando soprattutto di viaggi, cultura e sostenibilità, ma il suo “no” all’AI per creare da zero trova eco in tutte le altre voci raccolte. Anche quella di chi ha fondato la “Future Journalism Today Academy“, come Laurens Vreekamp, e di chi, come Irene Larraz, che coordina il laboratorio spagnolo di innovazione mediatica Newtral, “collabora” con l’AI fin dai tempi dell’università.

La utilizziamo come supporto per il fact-checking da molto tempo, abbiamo iniziato con l’automazione del rilevamento e ora la usiamo anche per analizzare la diffusione delle notizie”, dice Larraz. Abbiamo anche sviluppato un chatbot a cui le persone possono chiedere se qualcosa è vero o no. In futuro vogliamo anche monitorare canali come Telegram, per prevenire meglio le fake news e fare il pre-banking”.

L’intelligenza artificiale “sta facilitando la mia vita lavorativa in termini di idee, ricerca di contatti e pubblicazioni”, confessa Harrap, sottolineando però che l’intelligenza artificiale è solo un aiuto, ma non fa mai la scelta finale in queste decisioni, che spetta all’uomo. Anche l’interpretazione è un compito chiave che l’IA rende più fattibile ed efficiente. Per chi, come Ronald Rodrigues, si occupa principalmente di diritti dei migranti, sia come freelance che come redattore multimediale di Radio Free Europe/Radio Liberty, l’agilità con cui l’IA consente di tradurre le lingue locali/regionali è inestimabile, non solo in termini di tempo ma anche di opportunità di ampliare le narrazioni. 

Se guardiamo al di fuori del contesto europeo, in luoghi dove i corsi di scrittura e di lingua sono meno accessibili, l’IA può fare la differenza tra la presenza o la mancanza di voci e prospettive diverse nel giornalismo. Nelle Filippine, George Buid, che non è ancora sicuro del suo inglese nonostante i suoi sforzi per seguire dei corsi, è in grado di pubblicare e mantenere gli standard editoriali con l’aiuto dell’IA. Iniziando come fotoreporter, per poi passare alla scrittura, la conoscenza dell’inglese è sempre stata una barriera preventiva per George, che prima dell’IA era in grado di raccontare gli argomenti.  “Prima mi ci voleva una settimana per scrivere un articolo, il mio redattore lo voleva in un’ora, ora posso farlo” – dice il giornalista.

AI sì o AI no? Palla al centro 

Tuttavia, nonostante tutte le comodità e le opportunità offerte dall’IA, i giornalisti non si lasciano cullare da un senso di sicurezza e rimangono critici. Ognuno evidenzia le criticità e i rischi, a seconda del proprio punto di vista. Harrap ha quello di un freelance e sottolinea come l’uso dell’IA “accentui la sensazione di solitudine, incidendo molto anche sui lavori di copywriting che alcuni giornalisti cercano di arrotondare, visto che sono pagati molto poco”, dice. 

Trasversale è invece la preoccupazione per il diritto d’autore e l’uso dei contenuti per l’addestramento dell’intelligenza artificiale. Vreekamp ha persino lanciato l’idea di un “modello di abbonamento per pagare i giornalisti per l’uso dei contenuti che producono, per controllare i risultati della ricerca”. “Mai per alimentare i modelli di IA, però” – sottolinea – “invece stiamo offrendo i nostri contenuti gratuitamente, rischiando di diventare obsoleti”. 

Larraz esprime anche il timore per l’aumento delle fake news e Buid e Rodrigues per la perdita del “tocco umano”. Il primo parla di “narrazione appiattita”, il secondo di “assenza di prospettiva umana”, sottolineando come gli algoritmi possano anche “rafforzare pregiudizi e stereotipi, soprattutto nei confronti delle comunità emarginate, per le quali mancano dati e informazioni”. Lo stesso Rodrigues si dice “preoccupato per le informazioni che i sistemi di IA raccolgono attraverso il riconoscimento facciale, l’analisi dei social media e la presenza online in generale, violando le norme sulla privacy” ma, nonostante questo, è fiducioso: “finora il giornalismo ha ancora molta prospettiva umana”.

Per il giornalismo, l’AI rimane un’arma a doppio taglio, che porta grandi benefici e miglioramenti negli ambienti di lavoro, ma anche rischi in agguato. Le redazioni, i singoli giornalisti e le associazioni giornalistiche devono rimboccarsi le maniche perché servono “risorse per gestire meglio questa tecnologia, più regole e più strumenti”. E di rassicurazioni sulla tutela dei posti di lavoro nel giornalismo. Tra i freelance la paura è forte e non va ignorata”, spiega Harrap. Non uno di meno”, quindi, e anche Vreekamp è d’accordo nonostante ricopra un altro ruolo nel settore. Tutti devono essere coinvolti in workshop e corsi sull’IA nel giornalismo, con attività continue in cui sperimentare regolarmente nuovi modelli e strumenti e imparare come funzionano”, afferma. Larraz la pensa allo stesso modo e Newtral ha sempre creato il gruppo di lavoro in modo che ingegneri e giornalisti potessero collaborare, “perché è l’unico modo per prendere coscienza del potenziale dell’IA”. E poi, aggiunge, “come giornalisti dobbiamo iniziare a sviluppare i nostri strumenti. Non dobbiamo più aspettare che altri li sviluppino per noi, prendendo i nostri dati e vendendo soluzioni. Anche perché spesso non sono le soluzioni di cui abbiamo bisogno”. 

L’intelligenza artificiale, quindi, è uno strumento da maneggiare con cautela per i giornalisti, ma almeno al momento non li rende più ansiosi, semmai facilita i loro compiti quotidiani. Tuttavia, i giornalisti sono più che consapevoli di non diventare complici e di vigilare sui valori giornalistici di fronte alle nuove tecnologie.


Questo articolo – disponibile anche in lingua inglese – è stato prodotto in collaborazione con Francesca Barca e Kata Moravecz, nell’ambito delle Thematic Networks di PULSE un’iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali. 

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