L’Università di Cambridge ha sviluppato un arto che può autoregolare la sua forza a seconda degli oggetti che si trova dinanzi
Quando vediamo una mano robotica, ma anche un vero e proprio robot, afferrare qualcosa, in realtà la macchina non sta afferrando un bel niente. O meglio: sta eseguendo un comando con poca cognizione di causa. Peraltro, tutto accade in maniera molto simile a quello che succede all’uomo: il cervello impartisce il comando e la mano agisce. Ma con una differenza netta: gli umani, prima di prendere un oggetto, hanno già in mente una stima equilibrata del suo peso, della sensazione probabile che la superficie avrà sulla mano, della possibilità che possa cadere o meno. Lungi dal poter donare queste “sensazioni” ai robot, i ricercatori dell’Università di Cambridge hanno sviluppato un sistema con cui una mano robotica può avvicinarsi a quella umana, con tutti i ‘metadati’ del caso a disposizione.
Come dettagliato in un documento pubblicato da Advanced Intelligent Systems, il team dell’Università ha realizzato una mano robotica in grado di afferrare e trattenere attivamente vari oggetti tramite sensori incorporati nella sua “pelle”. Inoltre, non è necessaria alcuna articolazione delle dita per svolgere i vari compiti, semplificando così drasticamente il design, la programmazione e le esigenze energetiche. A conti fatti: prima di stringere tra le ‘mani’ un oggetto, la mano può già rendersi conto della forza necessaria per non farlo cadere ma anche per non stritolarlo, all’occorrenza. Un esempio? Se impartiamo ad un robot il comando “prendi quell’uovo”, è probabile che la macchina lo disintegri. Non è cattiveria ma è l’assenza di quella che i ricercatori chiamano ‘logica fuzzy’: se per un robot non c’è grado di verità diverso da 0 o 1, per l’uomo esistono anche le cosiddette sfumature, le differenze tra prendere un uovo e basta o prenderlo “con delicatezza”, “con fermezza”, “con forza”. Dotare una mano robotica di tale sensibilità la avvicina parecchio al sentiment umano.
«Vogliamo semplificare la mano il più possibile», ha spiegato nel documento di analisi Fumiya Iida, professore presso il Bio-Inspired Robotics Laboratory dell’Università e uno dei coautori dell’articolo. «Possiamo ottenere molte informazioni e un alto grado di controllo senza attuatori, in modo che quando li aggiungiamo, otterremo un comportamento più complesso in un pacchetto più efficiente».
Come funziona la mano robotica
Per farcela, i ricercatori hanno prima impiantato sensori tattili all’interno di una mano antropomorfa morbida, stampata in 3D, che si muoveva solo attraverso il polso. Il team ha quindi eseguito oltre 1.200 test per studiare le sue capacità di afferrare e trattenere. Molti di questi test si sono concentrati sulla raccolta di piccole palline di plastica stampate in 3D imitando movimenti predeterminati degli esseri umani. Dopo le palline di plastica, la mano è passata al tentativo di raccogliere il pluriball, il mouse di un computer e persino una pesca. Secondo i risultati, la mano ha gestito con successo 11 dei 14 oggetti di prova aggiuntivi.
La mano sviluppata dagli scienziati, con il tempo, può imparare che determinate combinazioni di movimento del polso e dati del sensore portano al successo o al fallimento, adattando così le articolazioni secondo necessità. Sebbene non sia perfetta, la mano robotica potrebbe rivelarsi utile in una varietà di ambienti e settori, come la produzione. Andando avanti, i ricercatori sperano di espandere potenzialmente le capacità dell’arto combinandolo con la visione artificiale e insegnando a “sfruttare il suo ambiente” per utilizzare una gamma più ampia di oggetti.
Tra gli ambienti di applicazione più idonei a tale tecnologia ci sono sicuramente gli senari industriali, dove l’uomo svolge ancora un ruolo centrale non senza rischiare incidenti e pericoli. Pensiamo a quei compiti dove una mano deve applicare una differente pressione sugli oggetti, magari in una catena di montaggio, e in cui la mano robotica potrebbe adattare, via software, la forza per singola attività. Ma anche il recupero di persone e animali in ambienti critici, magari dopo un evento naturale, in presenza di barriere o per catastrofi.
Lasciare che un arto del genere possa ‘lavorare’ attivamente, con quasi una percezione di quello che ha attorno, rappresenta un passo importante verso una nuova era dell’interazione uomo-macchina, un futuro roseo per la scienza e il progresso.