Un giovane team di ricercatori ha sviluppato (e testato direttamente nell'ambiente del volo spaziale) un metodo per studiare come le cellule, grazie al sistema CRISPR Cas9, sono in grado di riparare il DNA danneggiato delle radiazioni ionizzanti alle quali sono esposti gli astronauti in missione per lunghi periodi.

TAKEAWAY

  • Quello della medicina spaziale è un segmento della medicina dedito allo studio degli effetti causati dall’ambiente dello spazio sulla salute degli astronauti.
  • Sono, in particolare, le radiazioni ionizzanti presenti nello spazio – e causa della rottura del doppio filamento del DNA, responsabile dell’insorgenza del cancro – a rappresentare il maggior pericolo per la salute degli astronauti in missione.
  • In risposta a tale problema – che ostacola la ricerca e le esplorazioni nello spazio – un giovane team di scienziati ha sviluppato (testandolo direttamente in orbita) un metodo che si serve del sistema CRISPR Cas9 per riparare il DNA danneggiato.

Da un inedito studio realizzato nello spazio – a bordo della Stazione Spaziale Internazionale e reso noto sulla rivista scientifica PLoS ONE il 30 giungo 2021 – ha origine un filone di ricerca sull’utilizzo del sistema CRISPR Cas9 per la medicina spaziale, finalizzato a riparare il DNA danneggiato dalle radiazioni ionizzanti presenti nello spazio, alle quali sono sottoposti gli astronauti in missione per settimane o mesi.

CRISPR Cas9 – lo ricordiamo – è uno strumento di editing genomico basato sull’impiego della proteina Cas9, capace di tagliare con precisione un DNA bersaglio all’interno del genoma di una cellula animale, umana o vegetale, eliminare sequenze di DNA e sostituirle con altre, modificando così il genoma o correggendo mutazioni dannose.

E la medicina spaziale rimanda a una branca della medicina risalente agli anni cinquanta – con i primi lanci dell’uomo nello spazio – dedita allo studio delle ripercussioni sullo stato di salute degli astronauti (spesso in orbita per settimane o addirittura mesi) di fattori quali l’assenza di gravità, l’irraggiamento solare, le difficoltà nel nutrirsi e le radiazioni ionizzanti. Queste ultime, in particolare, sono particelle ad alta energia che, entrando a contatto con il corpo umano, generano un gran numero di particelle elettricamente cariche.

Queste radiazioni costituiscono un nodo inestricabile per le Agenzie spaziali che vogliano programmare esplorazioni oltre l’orbita bassa terrestre. La NASA – National Aeronautics and Space Administration, dal canto suo, nel 2015 ha definito una propria policy per affrontare il rischio radioattivo (in ottemperanza alle regole stabilite dall’OSHA – Occupational Safety and Health Administration, l’Ente statunitense che detta le linee guida per la sicurezza sul lavoro), fissando, per l’esposizione alle radiazioni in orbita terrestre bassa, un limite di 1000 mSv/anno, dove “mSv” è l’unità di misura delle radiazioni e 1 mSv di radiazione spaziale equivale approssimativamente a essere sottoposti a tre RX al torace.

E nel 2016, in un Report sui rischi di cancerogenesi da radiazioni, evidenzia l’associazione tra l’esposizione alle radiazioni e lo sviluppo del cancro e di altri effetti nocivi sulla salute, con dati provenienti da studi epidemiologici citati. Più nello specifico, nel documento, il rischio di cancerogenesi da radiazioni ionizzanti è considerato – per gli astronauti in missione – un “rischio rosso”, a causa sia dell’elevata probabilità di accadimento, sia dell’alto potenziale di impatto dannoso.

CRISPR Cas9 per la medicina spaziale: il test sperimentale a bordo della Stazione Spaziale Internazionale

In tema di CRISPR Cas9 per la medicina spaziale, lo studio realizzato in orbita fa parte del programma americano Genes in Space, competizione scientifica che vede gli studenti di biologia e biotecnologie impegnati a progettare esperimenti sul DNA per la Stazione Spaziale Internazionale, con l’obiettivo di stimolarli ad affrontare concretamente le sfide della vita reale dell’esplorazione nello spazio.

Il punto di partenza, in questo caso, è stato il rischio, per gli astronauti in missione, di un tipo particolarmente dannoso di danno al DNA causato dalle radiazioni ionizzanti – noto come “rottura del doppio filamento” – ritenuto responsabile dell’insorgenza del cancro.

Ma le cellule – come spiega il team di Genes in Space – possiedono meccanismi naturali attraverso i quali riparare il DNA danneggiato. Meccanismi che, se attivati direttamente in orbita, divengono particolarmente strategici. L’unico limite è dato dalle condizioni di microgravità, sollevando alcune preoccupazioni sul fatto che la riparazione possa non essere adeguata.

Le rotture a doppio filamento – prosegue il gruppo do studio – sono un tipo di danno al DNA che può essere riparato da due principali vie cellulari: giunzione terminale non omologa – durante la quale possono essere aggiunte inserzioni o delezioni nel sito di rottura – e la ricombinazione omologa, in cui spesso la sequenza del DNA rimane invariata.

Il sistema CRISPR Cas9 offre un modello per la generazione sicura e mirata di rotture del doppio filamento del DNA. Da qui l’idea di portare tale tecnica nello spazio, direttamente a bordo della Stazione Spaziale Internazionale – costantemente in orbita terrestre bassa e abitata da sei astronauti che rimangono a bordo fino a un massimo di sei mesi – e di porlo al centro di un test, di un esperimento, in cui è stata provocata la rottura a doppio filamento del DNA delle cellule di lievito per poi valutare la scelta del percorso di riparazione e osservarne in modo dettagliato tutti i passaggi.

CRISPR Cas9 per la medicina spaziale
L’astronauta (e scienziata) della NASA Christina Kock mentre esegue la procedura sperimentale di rottura e riparazione del DNA delle cellule di lievito a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (credit: Sebastian Kraves).

La ricerca futura: perfezionare il metodo di riparazione del DNA danneggiato

L’adozione della tecnica del CRISPR Cas9 per la medicina spaziale – per quanto riguarda questo primo esperimento sulle cellule di lievito eseguito in orbita – ha avuto successo, segnando il primo passo verso ricerche più approfondite sulla riparazione del DNA nello spazio.

Commenta Sarah E. Stahl Rommel, del NASA JSC Microbiology Lab:

“Non si è soltanto trattato dell’esecuzione del sequenziamento del DNA in un ambiente estremo come quello di una navicella spaziale, ma anche dell’integrazione di tale operazione in un flusso di lavoro biotecnologico funzionalmente completo, applicabile allo studio della riparazione del DNA e di altri processi cellulari in condizioni di microgravità

Aggiungendo che questo traguardo fa ben sperare in una soluzione concreta contro gli effetti nocivi delle radiazioni ionizzanti sugli astronauti, grave motivo di ostacolo “all’esplorazione e allo studio, da parte dell’umanità, della vasta distesa dello spazio”.

La ricerca futura, osserva il team di Genes in Space, punta ora a perfezionare il metodo messo a punto, al fine di “imitare” meglio – replicandolo – il complesso danno al DNA causato dalle radiazioni ionizzanti.

La tecnica del CRISPR Cas9 potrebbe servire da base anche nell’ambito di indagini su numerose altre tematiche di biologia molecolare relative all’esposizione, per lunghi periodi, all’ambiente dello spazio da parte degli astronauti in missione.

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