Il lavoro di un futurista non è predire il futuro ma studiare il futuro. Cercare prove, come si fa nelle indagini forensi, e formulare ipotesi, ipotizzare scenari... per prendere decisioni nel presente

Nessuno va a lavorare in azienda per il presente: si lavora per il futuro. Le conseguenze di quel che facciamo oggi, cioè i risultati, sono nel futuro. Su cosa impegnarsi, su cosa fare ricerca e sviluppo, su cosa investire, ma anche su quanto produrre. Quali sono le priorità tattiche, per l’immediato, e quali i piani strategici, che vanno portati avanti sul lungo periodo? Come distinguere cosa è importante da cosa è semplicemente urgente?

Il lavoro del futurista si muove lungo quest’asse, ma non ha una dimensione sola. Invece, è per sua natura multidimensionale perché deve tagliare trasversalmente campi diversi e intercettare i segnali che anticipano i cambiamenti, cioè i cambi di direzione che portano a delle convergenze.

Harish Shah
Harish Shah

In una videochiamata tra Milano e Singapore Harish Shah, futurista autodidatta e poliedrico, il primo futurista professionista della città-stato del Far East (e infatti lui si definisce “The Singapore Futurist“) emerge il profilo del futurista che riguarda la comprensione della trama di cui sono tessute le nostre società: ogni filo è una disciplina diversa, un ambito del sapere, ma per quanto siano grandi o sottili, colorati o semplici, è l’ordito che crea il disegno complessivo, in un gioco costante di azioni e reazioni che definisce il presente e anche i futuri possibili.

«Oggi diventare futuristi è una cosa socialmente accettabile, ma bisogna capire per bene cosa fa ciascun futurista: oggi su Linkedin o su Facebook si trovano un sacco di “futuristi” e “futurologi” ma molto spesso sono tutt’altra cosa: persone che si occupano di tecnologia, professionisti, uomini d’affari, persone che lavorano nel mondo della finanza o della strategia e creano le policy. Si autodefiniscono futuristi perché quel che dicono si suppone avvenga nel futuro. Ma occuparsi professionalmente di futuro è una cosa diversa, perché da un lato è una scienza ma dall’altro richiede anche una formazione, un certo tipo di mente per processare le idee. Il futurista professionale a mio avviso è una figura per definizione “cross”, transdisciplinare per modo di pensare».

Harish Shah accompagna la sua attività di consulente come futurista a quella di coach e di public speaker e presentatore. Ha lavorato nel settore delle risorse umane, marketing, organizzazione aziendale, giornalismo e ancora in altri ambiti, in un percorso personale molto ricco e complesso. Il futurismo è un punto di approdo quasi obbligatorio perché la visione della complessità e molteplicità di punti di vista lo lega alla capacità di pensare e comprendere le convergenze.

Come Jack London, che per diventare scrittore prima aveva fatto l’esperienza di vita dei suoi futuri personaggi: London aveva fatto innumerevoli lavori, dallo strillone di giornali al pescatore clandestino di ostriche, dal cacciatore di foche al corrispondente di guerra, dall’agente di assicurazioni al cercatore d’oro. Forse meno avventuroso ma certamente altrettanto ricco e complesso, il lavoro di Shah gli ha dato la prospettiva necessaria al suo lavoro.

«Per diventare un futurista credibile – dice Harish Shah – bisogna imparare a pensare senza confini sui soggetti che osserviamo: la politica, la geostrategia, i differenti tipi di settori economici e industriali, la tecnologia, la storia. Bisogna essere in grado di pensare e cogliere aspetti diversi su tutte le linee, o almeno quante più possibili. Quando si parla di futuro e futuristi si parla di persone che hanno la capacità di pensare in orizzontale attraverso silos diversi. Questo tipo di perone è sempre esistito, per questo sostengo che futuristi si sia per inclinazione e non lo si diventi per tipologia di studio. Ci sono persone così in tutti gli ambiti: business, tecnologia, politica. Però per essere un futurista devi farlo full time, è il tuo lavoro a definire il tuo “working title”».

Harish Shah, si fa il futurista (non si è)

In maniera simmetrica al modo con il quale le culture anglosassoni concepiscono molte figure professionali (ad esempio, non si diventa giornalisti perché si supera un esame, ma perché si “fa”, cioè si esercita il mestiere di giornalista e si seguono nella pratica alcuni principi etici) il futurista non è uno stato ma un processo. Si fa il futurista (di professione!), non si è un futurista.

«Il futurista legge un sacco di cose, cerca di trovare dei punti nel rumore di fondo, dai media mainstream a Google Scholar, dai blog ai rapporti di ricerca di qualche piccola università o alla registrazione dei brevetti. Il futurista cerca questo tipo di informazioni: cerca anche di capire quali sono le grandi aziende e cosa fanno, quali sono le tendenze delle nuove generazioni. È un lavoro di ricerca e analisi costante, tedioso, continuo. Quando poi si trova un segnale debole che fa da attivatore a qualcosa, questo ci permette di capire se una traiettoria sociale, scientifica oppure economica viene modificata almeno un po’ e allora il futurista ne prende nota e continua a cercare. Quando poi queste deviazioni diventano una massa critica capace di produrre un impatto cross-funzionale, allora elabora uno scenario. Non ci sono singole nuove tecnologie capaci da sole di cambiare il mondo: occorre capire quali cose collegate assieme lo stanno cambiando. Occorre trovare cioè la convergenza di più cose. La cosa più importante per il futurista è vedere la convergenza di cose diverse, da settori diversi».

Il futuro come convergenza

L’idea di convergenza ricorre nel ragionamento di Harish Shah. È l’idea di una convergenza di modifiche, di impatti, di impulsi. In una realtà complessa e piena di interdipendenze tra ambiti diversi, per capire la direzione occorre guardare alla risultante di un complesso di forze che “tirano” in tutte le direzioni. Qual è la direzione che emerge da questo sistema complesso? Quale impatto sulle traiettorie dei singoli ambiti hanno dei piccoli o grandi cambiamenti? E quale impatto complessivo avrà il cambiamento di traiettoria di alcuni settori specifici a seguito di innovazioni, cambiamenti sociali, trasformazioni anche lente ma non per questo meno profonde o durature?

«Prendiamo gli smartphone per esempio. Nascono come insieme di tecnologie che trovano un senso: internet, le reti wireless, la potenza di calcolo miniaturizzata, le fotocamere miniaturizzate e molte altre cose possibili su una scala prima non disponibile. Ma poi ci sono l’organizzazione tecnologica ed economica del software in app distribuito e mantenuto attraverso gli store, con un modello completamente diverso rispetto a prima. L’importanza dei social e della posizione, la disponibilità del Gps. Se andiamo a guardare, è stata la convergenza di innovazioni in campi molto diversi, da quelli tecnologici a quelli sociali ed economici, ad aver portato a quello che viene definito “iPhone moment”. Che però non è un momento solo, è la convergenza di tanti momenti diversi».

Un cambiamento simile è quello che stiamo vedendo con l’intelligenza artificiale ma il cui reale portato, dice Harish Shah, è comprensibile solo se analizziamo i differenti fili a cui la AI si sta legando e agli altri cambiamenti. La casa che è digitalizzata e adesso può diventare intelligente, il bisogno di risolvere la congestione del traffico e la possibilità di avere auto a guida autonoma, la ricerca di una maggiore efficienza nella produzione ma anche nella distribuzione e nei consumi. Aree dove l’intelligenza artificiale può avere un impatto che a sua volta stimola la ricerca e lo sviluppo. Una convergenza di bisogni e di potenzialità che rende autonomi una serie molto ampia di ambiti, portando come conseguenza alla liberazione di risorse e tempo per gli esseri umani. Cosa che porta a ulteriori cambiamenti e mutamenti di traiettorie in altri ambiti.

«Noi futuristi diamo un senso al futuro per le persone in modo che possano prendere delle decisioni. Nessuna azienda oggi lavora sul presente: lavoriamo tutti sul futuro, pensiamo e facciamo cose per arrivare a obiettivi che magari sono tre, cinque anni nel futuro. Le decisioni di oggi sono fondamentali per il futuro e per questo occorre che ci siano delle modalità per capire meglio quali saranno gli scenari, come sarà il panorama del futuro, quale forma prenderà l’ecosistema di prodotti, business, mercato, produttori, se parliamo di alcune aree di lavoro. Se capisci questo, investi in buona ricerca e sviluppo. Un bravo futurista deve capire come cambia il futuro e quindi quali prodotti lavorano meglio per il futuro. Cosa ripagherà gli investimenti da uno a cinque anni».

Business e tecnologia si sono fusi

Da quando, alcuni anni fa, tutte le aziende sono diventate anche aziende di software e la domanda chiave per i ceo è diventata “Quanti programmatori hai assunto nell’ultimo anno?“, distinguere tra business e tecnologia (intesa come informatica) è praticamente impossibile. Anche la vecchia distinzione, fatta dalla Harvard Business Review, che vedeva l’informatica come una leva per aumentare il business dell’azienda o per ridurne i costi, è svanita nello specchietto retrovisore.

«Da quando business e tecnologia si sono fusi, la prospettiva del futurista è cambiata. A mio avviso è praticamente impossibile distinguere tra funzioni di business e funzioni di tecnologia. Non è più interconnessione: sono due aree fuse irrimediabilmente insieme. Ma si può fare previsione e futurismo in tante aree: ci sono i futuristi che si occupano di economia, di finanza, ma ci sono anche in ambiti industriali, in ambiti sociali. Le reti sono diverse ma molti fili sono ovviamente gli stessi. Si parla di futuristi nel settore della salute, ma qui mancano ancora i professionisti, nel senso che è un ambito relativamente nuovo».

«La professione del futurista però sta diventando sempre più importante perché sempre più aziende e settori della società stanno capendo che serve. Però è ancora una fase fluida, in cui le professionalità hanno storie diverse, vengono da percorsi molto diversi. Alcuni pensano che andare a fare un corso, ad esempio un master, permetta di diventare futuristi. Personalmente non sono sicuro che funzioni perché non ho mai incontrato dei futuristi professionali che provenissero da un master fatto da più di un paio di anni. Ma forse dipende dalla mia prospettiva. Invece, ho incontrato persone che hanno fatto corsi di laurea o addirittura dottorati di ricerca e sono molto bravi, vanno avanti molto bene. Bisogna notare però una cosa, la più interessante: prima di studiare per diventare futuristi queste persone erano già futuristi. È stato un percorso di formazione sopra una capacità preesistente, non sono diventati futuristi da zero. Questo perché penso che sia difficile allenare un futurista con un workshop o un corso, così come è difficile allenare un leader con un manuale di leadership. I grandi leader non diventano tali facendo un corso, così come i futuristi non diventano tali perché hanno letto un libro di futurologia. Devono avere già un certo tipo di personalità e talento: essere eclettici, essere interessati a una molteplicità di cose, avere la capacità di pensare in maniera trasversale per capire le persone e le cose in ambiti diversi. Questi sono talenti che si possono raffinare, ma se non ci sono secondo me non si possono dare».

I futuristi professionisti sono una nicchia (il futurista è chi lo fa di professione)

Studiare il futuro e parlare con altri futuristi pian piano diventa un abito mentale e porta alla sindrome del martello: si cammina per la casa e ogni cosa che sporge diventa un chiodo da battere. Ma non è così. Non sono tutti futuristi solo perché hanno avuto successo, ad esempio. Molti imprenditori hanno e hanno avuto caratteristiche particolari, ma questo non consente di definirli futuristi. E come loro, moltissime altre figure professionali, dice Harish Shah, che hanno a che fare con il futuro. Come dicevamo all’inizio: tutti quanti lavoriamo e viviamo per il futuro. La differenza sta nel farlo professionalmente avendo la capacità e l’attitudine per interpretarlo, per riuscire a leggero.

«Bisogna stare attenti a una cosa: il futurismo è comunque una professione di nicchia. Serve e serve sempre di più, viene riconosciuta socialmente sempre di più, ma rimane una nicchia. Bisogna fare attenzione alle persone che dirottano il senso delle cose: c’è gente che crede negli alieni, nel grande vecchio, nell’idea che se ti copri la testa con i fogli di alluminio ti proteggi dalle radiazioni, o che pensa che le AI dovrebbero essere la nuova religione. La parola futurista e il termine futurismo viene dirottato, ma è pericoloso. Come professione deve essere liberata da una serie di fraintendimenti. E pensare che il futurista è chi lo fa di professione. Ci possono essere giornalisti, ad esempio. che lavorano con il futuro, cercano e studiano le informazioni, analizzano le traiettorie e capiscono le convergenze, ma non sono futuristi full time. Così come gli imprenditori: il loro obiettivo è guadagnare e per fare questo fiutano il futuro. Con alcune eccezioni, però: i ceo-futuristi».

Harish Shah pensa soprattutto a Larry Page e Sergei Brin, i fondatori di Google. Pensa a loro come differenti da altri imprenditori perché la loro attività imprenditoriale e prima ancora di ricerca durante il dottorato in cui hanno concepito l’algoritmo di “page ranking” che è alla base del motore di ricerca di Google è stato un lavoro di futurismo.

«I due pensavano al bisogno del mondo nel futuro in termini di riorganizzazione della conoscenza, del bisogno di ricercare le informazioni. Hanno visto la convergenza di cose diverse, che i loro concorrenti non facevano o non capivano. Hanno capito che l’esplosione di internet avrebbe portato a una disseminazione di informazioni non strutturate perché questa è la natura architetturale del web e questa la conseguenza della sua democratizzazione e distribuzione planetaria. Come mettere ordine? Con un motore di ricerca come quello di Google: pensavano a quello di cui le persone avrebbero avuto bisogno e lo hanno fatto, sono tornati indietro dal futuro verso lo stato attuale, costruendo all’indietro un percorso per arrivarci».

Un’altra figura che ha vissuto un periodo di futuro e ha costruito un percorso, molto più lungo e articolato, per tornare al presente, è stato Steve Jobs con una visione degli apparecchi prima di personal computing e poi post-PC che è partita dal Mac, poi dall’iPod, poi dall’iPhone, dal’iPad, fino ad arrivare alla smart Tv. Ma che, secondo Harish Shah, è andata all’indietro: dalla smart Tv immaginata molto tempo prima per arrivare ai prodotti di ieri e di oggi necessari ad arrivare a quella visione al termine della convergenza di tendenze economiche, sociali e tecnologiche. Una cosa simile avviene con i grandi leader dei big del tech.

«I Google Glass non sono partiti non perché non siano la tendenza verso la quale stiamo andando, ma perché c’è stata resistenza da parte delle persone verso quella manifestazione specifica di interfacce e di usi possibili. Le persone hanno fondamentalmente paura di molte cose, questo capita spesso, e le rifiutano. Ma il vettore non si ferma: rallenta, prende un’altra strada, arriva cinque anni dopo, ma la direzione è quella. Il vetro sulla faccia arriverà e metterà in secondo piano lo smartphone: questo è il futuro che vediamo».

Studiare il futuro, non predirlo

Ma il futuro si può prevedere? O semplicemente si vede? La differenza lessicale è fondamentale, perché dirime una questione antica: cosa si può fare o no, chi è serio oppure no. Il futuro non si può prevedere, quello lo fanno (si fa per dire) i maghi.

«Se le dicessi che posso predire il futuro lei dovrebbe chiudere subito la chiamata e cancellare il mio numero», dice Shah. «Il mio lavoro non è predire il futuro perché non sono un mago. Il mio lavoro è studiare il futuro. Cerco delle prove, come si fa nelle indagini forensi, per capire cosa è successo, cosa è quasi successo, quali cose stanno cambiando, quali comportamenti. Ci può essere una persona giovanissima su Youtube o un professore prossimo alla pensione di una università di cui non abbiamo mai sentito parlare. Ci sono tante potenziali traiettorie, tanti rami, tante direzioni diverse. Per questo elaboriamo una serie di scenari. Il futurista non deve dire le cose che sono chiare, ma deve andare a scavare e analizzare le altre cose, gli scenari plausibili che emergono in modo inaspettato mettendo assieme tante cose differenti».

Spill-over, Covid, conflitto tra Russia e Ucraina, guerra commerciale tra Usa e Cina, ma anche gli altri conflitti che ci sono nel mondo anche se non vengono sanzionati come tali, e altri comportamenti sociali negativi. Potremmo creare una utopia ma dagli anni Novanta in avanti il mondo si è sempre più trasformato in un luogo negativo, dice Harish Shah, e negli ultimi quindici anni questa tendenza ha accelerato.

«Se guardo solo alla tecnologia, stiamo andando verso un mondo utopico, ma questo poi non sta succedendo: anziché guadagnare dal fatto che stiamo risolvendo tutti i più grandi problemi dell’umanità, stiamo invece avendo problemi molto più gravi e complessi in altri ambiti che potrebbero avere anche un effetto negativo molto grande, addirittura riportarci indietro come società e come specie. Queste sono cose che a me fanno un po’ paura».

Scritto da:

Antonio Dini

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