Se le tecnologie digitali rappresentano un’arma importante per il conseguimento degli obiettivi climatici del pianeta, è altrettanto vero che la loro impronta di carbonio è, essa stessa, un problema che grava su ambiente e clima.
TAKEAWAY
- L’impronta di carbonio del digitale rappresenta l’altra faccia della digitalizzazione, quella di cui tutti noi siamo ancora poco consapevoli o scegliamo di esserlo.
- Secondo un recente studio, le stime degli anni passati sulle emissioni del comparto digital non tengono conto dell’aumento degli investimenti in intelligenza artificiale, big data, IoT e blockchain, che rischiano di guidare un’ulteriore crescita dell’impronta di carbonio del settore.
- In particolare, l’intelligenza artificiale è responsabile di tale innalzamento soprattutto nell’ambito dell’addestramento di sistemi particolarmente complessi, per i quali si rendono necessari elevate risorse computazionali ed elevati quantitativi di energia.
Impronta di carbonio del digitale (la cosiddetta “carbon footprint”): perché se ne parla e quale sarà, nel tempo, il suo impatto sull’ambiente e sul clima globale? La premessa, come ha affermato, nei giorni scorsi, Daniel Mes – membro dello staff di Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione europea, nonché Commissario europeo per il clima e il Green Deal e a capo della squadra negoziale dell’UE in seno ai lavori della COP26 – è che «Il digitale è una grande arma per aiutarci a raggiungere i nostri obiettivi climatici. Non potrà esserci nessuna neutralità climatica senza il digitale».
La digitalizzazione, oggi, offre molteplici tecnologie e strumenti per la misurazione e il monitoraggio delle emissioni di gas e l’efficientamento energetico. In particolare, le tecniche che fanno capo all’ambito di studi dell’intelligenza artificiale – e, più nello specifico, gli algoritmi di machine learning – hanno un ruolo di rilievo nel calcolo dell’impronta di carbonio, nell’analisi predittiva dei consumi e delle relative emissioni, oltre che nella simulazione di scenari in ottica di decarbonizzazione [per approfondimenti sull’AI, consigliamo la lettura della nostra guida all’intelligenza artificiale che spiega cos’è, a cosa serve e quali sono gli esempi applicativi – ndr].
Se – solo per citare un esempio ficcante – prediamo in considerazione l’obiettivo 13 dell’Agenda 2030, che prevede «l’adozione di misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici e le loro conseguenze», troveremo, tra i progetti della Commissione Europea, l’iniziativa denominata Destination Earth, il cui scopo è mettere a punto un modello digitale della Terra per simulare – col fine di monitorarli – l’attività dei fenomeni naturali e l’impatto delle emissioni di CO2.
Più nel dettaglio, al centro di questo progetto (partito proprio durante questo 2021 e destinato a essere implementato in modo graduale nei prossimi sette-dieci anni) vi è lo sviluppo di una piattaforma di modellazione e simulazione basata su cloud, responsabile di fornire l’accesso ai dati e all’infrastruttura informatica avanzata. E, per mezzo di tecniche di digital twin, integrerà repliche digitali di vari aspetti del sistema terrestre, tra cui, ad esempio, le previsioni meteo e i cambiamenti climatici, la circolazione oceanica globale e la biogeochimica degli oceani.
Eppure non è tutto oro. È stato stimato che le tecnologie e i dispositivi digitali sono, anch’essi, responsabili di emissioni di carbonio durante tutto il loro ciclo di vita, a partire dall’estrazione di minerali e metalli necessari alla produzione dell’hardware, fino all’energia che li alimenta.
L’impronta di carbonio del digitale, l’altra faccia della digitalizzazione
In base ai dati resi noti nel 2018 da uno studio della McMaster University, in Canada – Assessing ICT global emissions footprint: Trends to 2040 & recommendations – nel 2040 l’incidenza dell’industria ICT sulle emissioni globali di gas serra sarà pari al 14%.
E uno studio più recente – pubblicato a settembre 2021 a cura dei ricercatori della Lancaster University, dal titolo The real climate and transformative impact of ICT: A critique of estimates, trends, and regulations – avverte che «il mondo del digitale potrebbe essere responsabile di una quota maggiore di emissioni di gas serra di quanto si pensi. E queste emissioni continueranno ad aumentare in modo significativo se non si interviene».
Il punto di vista del team di studio inglese è piuttosto critico nei confronti di alcuni stime divulgate negli anni precedenti in merito all’impronta di carbonio del digitale, che vogliono la quota ICT di emissioni globali attorno all’1,8-2,8%.
Un dato parziale, secondo loro, in quanto non tiene conto dell’intero ciclo di vita e della catena di fornitura dei prodotti e delle infrastrutture ICT, né dell’aumento degli investimenti – accelerato dal processo di trasformazione digitale – in intelligenza artificiale, big data, Internet of Things e blockchain, che – sostengono i ricercatori – rischiano di guidare, da qui ai prossimi anni, un’ulteriore crescita dell’impronta di carbonio del digitale.
Oggi, il calcolo delle emissioni di gas serra del mondo digitale potrebbe aggirarsi attorno al 2,1-3,9%(superiori, dunque, a quelle dell’industria aeronautica, che rappresentano circa il 2% delle emissioni globali), anche se – rimarca il team di studio – esistono ancora diverse imprecisioni, data la complessità e l’eterogeneità del settore.
Il costo energetico dell’intelligenza artificiale: l’esempio dell’addestramento di sistemi di elaborazione del linguaggio naturale
A innalzare l’impronta di carbonio del digitale concorrerà – insieme ad altre tecnologie emergenti –l’intelligenza artificiale, soprattutto nell’ambito dell’addestramento di sistemi particolarmente complessi, per i quali si rendono necessari elevate risorse computazionali ed elevati quantitativi di energia.
Lo conferma uno studio dell’University of Massachusetts Amherst sul costo energetico implicato nel processo di addestramento di sistemi di elaborazione del linguaggio naturale (in inglese Natural Language Processing – NLP), segmento dell’intelligenza artificiale focalizzato sul riconoscimento e l’elaborazione del linguaggio umano e basato su sistemi di deep learning, messi a punto per simulare il modo in cui l’uomo comprende il contenuto di una conversazione.
Quello che è emerso dalla ricerca è che, oggi, l’intero processo di addestramento di un sistema NLP arriva a emettere più di 284.000 chilogrammi di anidride carbonica, che risulta pari alle emissioni di CO2 di un’auto durante il suo ciclo di vita. E questo è dovuto – spiega il gruppo di lavoro – all’evoluzione delle tecniche e dell’hardware adoperati per l’allenamento delle reti neurali profonde, che si sono tradotte, negli ultimi anni, in performance di qualità più elevata di molte operazioni del Natural Language Processing.
Ecco perché, attualmente, un sistema NLP, per definirsi “avanzato” e “innovativo”, ha bisogno di maggiori risorse computazionali rispetto al passato, correlate a maggiori risorse energetiche e, dunque, a costi più elevati in termini economici e di impatto ambientale.
Da qui, la raccomandazione dei ricercatori nel promuovere – nel mondo accademico e nei reparti R&D delle aziende – il controllo di tali consumi e costi, in modo da poterli analizzare e da poter intervenire, ad esempio, privilegiando solo quelle ricerche tese allo sviluppo di algoritmi AI efficienti dal punto di vista computazionale (che richiedono tempi più rapidi per l’addestramento) unitamente a una parte hardware che richiede un minor quantitativo di energia.
Impronta di carbonio del digitale: cosa fare per ridurla
Quello che è certo è che – come già accade per innumerevoli settori – occorre, da qui in avanti, un monitoraggio puntuale, una quantificazione dell’impronta di carbonio del digitale e studi in grado di analizzarne tutti i dati, relativi sia alla parte software che hardware.
E poi si rende necessaria – data l’urgenza mondiale delle problematiche legate al clima e alla sostenibilità ambientale – una presa di coscienza, da parte di tutti coloro che operano nel digitale, della propria impronta di carbonio.
Fatto, questo, finora trascurato. A eccezione del segmento (particolarmente energivoro) dei data center che, in Europa, è oggetto di un’iniziativa di autoregolamentazione sviluppata in collaborazione con la Commissione Europea (il Climate Neutral Data Center Pact), alla quale, ad oggi, hanno aderito venticinque aziende e diciassette Associazioni del settore, impegnate nel trasformare i data center in luoghi carbon neutral entro il 2030.
Va in questa direzione il progetto PARIS-DE (Design Principles and Responsible Innovation for a Sustainable Digital Economy), messo in piedi dal team di studio della Lancaster University in collaborazione con i ricercatori degli Atenei di Oxford, Sussex e Kings College London, che ha come obiettivo quello di definire una metodologia e criteri nell’ottica di compliance by design, atti a «garantire che le tecnologie digitali siano progettate per essere conformi agli obiettivi a basse emissioni di carbonio delineati dall’accordo di Parigi sul clima e dal G20».
Nel dettaglio, si tratterà della creazione di un laboratorio di progettazione virtuale, che si avvarrà di tecnologie e di dispositivi volti a valutare le emissioni delle innovazioni e delle scoperte in ambito ICT e i loro impatti su ambiente e clima.