La prima cosa che non facciamo è fare previsioni. Non potrebbe iniziare meglio un incontro con un futurista di professione che lavora per quello che è uno dei più autorevoli Think Tank indipendenti del pianeta, cioè il Copenhagen Institute for Futures Studies (CIFS), nato nel 1969, senza fini di lucro e completamente apolitico, che informa governi, multinazionali, enti pubblici e intergovernativi di tutto il mondo su come si sta modellando il futuro attraverso il lavoro di una rete di membri, consulenze strategiche, seminari, workshop, presentazioni e pubblicazioni.
«Il futuro è troppo complesso e troppo multifattoriale, con tutte le aree che si collegano tra di loro creando un sistema molto complesso composto da società, sistemi politici, geopolitica, tecnologia, finanza e via dicendo. Solo gli ultimi due anni ci hanno fatto capire, con la pandemia prima e la guerra in Ucraina, che prevedere il futuro è un esercizio futile», ci dice Timothy Shoup, Senior Advisor e Futurista del Copenhagen Institute, durante una videocall tra Milano e Copenaghen.
Ma allora cosa fa un futurista per un Think Tank?
«Quel che facciamo è strategia, pianificazione a lungo termine, mettendo in campo l’incertezza e i rischi che sono oltre l’orizzonte».
Razionalità per analizzare problemi e obiettivi
In realtà, durante la conversazione, appare chiaro che l’elemento di base, il requisito necessario per alzare gli occhi e guardare un po’ più in là, è la razionalità. L’analisi dei problemi ma prima ancora l’analisi degli obiettivi.
«La prima cosa che facciamo con i nostri clienti è capire qual è l’obiettivo del progetto e cosa dovrebbe raggiungere. Qual è il problema che si vuole risolvere, definendolo in modo chiaro. Una chiarezza che molto spesso manca nelle organizzazioni. Per questo è necessario un ampio lavoro di esplorazione», dice Shoup.
I workshop, le discussioni costruttive, i modi che servono per aprire un dialogo e creare una piattaforma di comprensione reciproca sono alla base della comunicazione.
Il problema a questo punto diventa più chiaro e così anche le possibili risposte:
«Capire cosa dovrebbe o non dovrebbe fare una organizzazione per gestire i potenziali scenari del futuro, andando a vedere oltre i cinque anni. L’arco di tempo più ampio dipende dal tipo di organizzazione, dal suo settore, dagli scopi del progetto».
Focus sui rischi, tra interdipendenza e complessità
In questo c’è comunque una traccia che emerge con sempre maggiore chiarezza conversando con Shoup: l’interdipendenza e la complessità. Il mondo è un posto complesso. E non ci sono problemi unici, peculiari. Neanche il riscaldamento globale, il cambiamento climatico. Anzi, in maniera apparentemente sorprendente Shoup lo spiega subito: l’elefante nella stanza delle conversazioni con i clienti non è il cambiamento climatico, bensì il fatto che venga considerato il fattore più pericoloso.
«Non è così: certamente il cambiamento climatico è un problema serio e ne abbiamo parlato tanto. Ma non sono convinto che sia la cosa più importante e pericolosa dei prossimi 50-100 anni».
Chiedere quale potrebbe essere è forse la domanda più scontata, ma la risposta è un esercizio di razionalità:
«Nei prossimi decenni lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, la biologia sintetica, il quantum computing e le nanotecnologie potrebbero avere un impatto sulla specie umana maggiore che non il riscaldamento ambientale. Che, ripeto, è un grande problema ma non il solo problema».
Non c’è nessuna posizione critica verso chi solleva il problema del cambiamento climatico, il punto è un altro:
«Molte conversazioni si fermano su questo tema, abbiamo un approccio troppo limitato al problema del rischio esistenziale, della previsione delle catastrofi. Una catastrofe globale che può portare a un rischio esistenziale per la specie umana, cioè alla sua estinzione, nel lungo periodo è un altro. Il clima non è l’unico fattore di rischio e certamente non necessariamente il più grande. Per Elon Musk l’AI (Artificial Intelligence) è più pericolosa delle armi nucleari, che a loro volta sono più perniciose del cambiamento climatico. Il problema è concentrare i ragionamenti sulla previsione del rischio solo sul cambiamento climatico tralasciando tutto il resto».
Il Metodo Copenhagen
Il mondo è un ambiente complesso e il futuro lo riflette: è multifattoriale e richiede un approccio che gestisca questa complessità. Per questo l’approccio dell’organizzazione per la quale lavora Shoup è definito Metodo Copenhagen: un approccio di collaborazione e cocreazione con i clienti che affronta in modo relativo i problemi, perché ogni organizzazione è diversa e di conseguenza sono diversi i problemi che cerca di risolvere. L’approccio di tipo quali-quantitativo tiene conto dei numeri ma va oltre a quello che può essere quantificato con grandezze numeriche, analisi di dati e proiezioni di serie nel futuro.
«Non c’è un framework rigido, la capacità di creare degli scenari negli studi sul futuro è tanto arte quanto scienza».
La complessità però è sicuramente un problema, perché non viene quasi mai percepita come tale. Le organizzazioni tendono a vedere quel che accade nel loro ambito:
«I nostri clienti hanno difficoltà soprattutto a vedere quali sono gli elementi di grande cambiamento che possono arrivare da aree al di fuori del loro settore. Tecnologie o altri cambiamenti che possono avere un impatto sul business model di una organizzazione e che li costringono all’improvviso a ripensare da capo cosa fanno e come. È un discorso che riguarda la strategia, l’innovazione e il rischio».
L’accelerazione della tecnologia
E ovviamente la tecnologia. Questo sì, è un tema che attraversa trasversalmente tutti i settori. Perché il software si sta mangiando il mondo. Da quando, più di dieci anni fa, l’imprenditore e innovatore Marc Andreessen (uno dei soci fondatori della società di venture capital Andreessen-Horowitz) ha chiarito che nessuna attività sarebbe più stata la stessa di prima a causa della tecnologia, l’idea ancora non è diventata obsoleta.
«La globalizzazione digitale, la connettività e la capacità delle aziende di poter raggiungere da qualsiasi parte del mondo qualsiasi altra parte è un vero fattore di cambiamento radicale. In parte tecnologia e soprattutto mindset e cultura di una organizzazione».
Il problema nel fare previsioni sul cambiamento è che è diventato sempre più difficile capire quali sono le differenze di un contesto complesso: il software è una categoria molto ampia che comprende sia dei potenziali campioni con un effetto “Winner takes all” che singole tecnologie.
«Pensiamo all’intelligenza artificiale, anzi al Machine Learning e agli Advanced Neural Networks. Ad esempio, GPT-3 sta democratizzando il mondo della produzione del software che, in tre-cinque anni sarà molto diverso da oggi. È difficile fare previsioni, ma dopo GPT-3 ci sarà la versione quattro e poi la cinque con capacità crescenti. E queste capacità aumenteranno l’effetto principale che è quello di democratizzare la produzione di tutti i tipi di contenuti, dai video al software stesso. Ma è difficile dire cosa succederà se non per una cosa».
Cambiamento di prospettiva
Quella singola cosa, spiega Shoup, è il cambiamento di prospettiva al quale stiamo assistendo più o meno consapevolmente. Cioè la conseguenza della democratizzazione: i grandi cambiamenti potranno essere fatti da gruppi molto piccoli, piccolissimi, al limite da singoli individui. Questo pone a cascata una serie di domande fondamentali, tra le quali: quale sarà il ruolo delle grandi organizzazioni? E quale il ruolo del lavoro delle persone all’interno di queste organizzazioni?
Ma non c’è solo questo. Affrontando un altro punto di vista sul mondo attuale e futuro, c’è la differenza tra la percezione del futuro da parte dei singoli e delle aziende. I singoli, man mano che il ricambio generazionale sta andando avanti, sono sempre più giovani e basati su un approccio alla vita che Shoup chiama “Aspettative liquide”.
«Le persone sempre più spesso guardano al mondo a breve termine per quanto riguarda i rapporti più transazionali. E portano queste aspettative quasi istantanee da un contesto all’altro. Così, se con la app di Uber ti aspetti di avere una macchina in tre minuti, poi ti aspetti lo stesso servizio anche dall’app della banca per un mutuo o da quella di vendita per una consegna a domicilio. La gratificazione istantanea cambia i modelli di business delle aziende. Ma al tempo stesso i consumatori vogliono sempre più fare meglio al mondo oltre che stare bene: “better me and better world”. Cioè, sempre meno pazienza per l’immediato ma grandi temi sul lungo periodo: la povertà, le ineguaglianze, il cambiamento climatico, i sistemi politici».
Questa è una tra le maggiori tendenze dal punto di vista dei singoli. Ma ci sono anche le aziende e in generale le organizzazioni. Che hanno un approccio completamente diverso:
«Man mano che, da un lato, il mondo cambia in maniera sempre più veloce, non solo per via del software ma anche la supply chain e l’integrazione del commercio nel mondo e l’impatto dei big del tech, dall’altro lato ci sono executive con decenni di esperienza che sempre più spesso capiscono di non capire. Dirigenti con decenni di esperienza che non hanno più il polso della situazione per capire cosa sta per succedere. Dipendenti di venti anni con quaranta mesi di esperienza hanno più il senso dei cambiamenti nel panorama competitivo di Ceo con trent’anni di esperienza».
Niente cigni neri, parliamo di wild card
C’è un’espressione, al riguardo dei cambiamenti improvvisi e inaspettati perché giudicati improbabili, che Shoup non ama, ed è il Cigno Nero di Nassim Nicholas Taleb.
«È un’espressione abusata e oltretutto in modo sbagliato perché poco compresa. Parliamo invece di Wild Card».
Le Wild Card sono uno degli argomenti più controversi nel campo delle previsioni, poiché non c’è consenso su cosa siano né su come identificarle e incorporarle negli scenari. Tuttavia, se usate in maniera oculata, permettono di dare profondità e potenza alle previsioni.
«Wild Cards come la pandemia e la guerra in Ucraina hanno fatto capire alle organizzazioni che servono dei piani di contingenza perché il tema dell’organizzazione e della riorganizzazione è centrale. Il lavoro da casa ha colto completamente di sorpresa praticamente tutte le aziende e adesso ha cambiato il modo con il quale pensano gli spazi di lavoro ma anche il mercato immobiliare e il rapporto con clienti e partner. Una cosa simile è accaduta nel settore della Salute e benessere questa volta per via dei big del tech. Con le soluzioni per il monitoraggio, la misura e i consigli per il benessere che Apple e Google stanno proponendo hanno messo in fuori gioco aziende che operavano già da tempo in quest’ambito».
Era stato dopotutto proprio Steve Jobs ad osservare che, per vendere computer o telefoni a un’azienda con decine di migliaia di dipendenti devi convincere della bontà del tuo prodotto una persona sola, cioè il responsabile acquisti. Invece, per vendere a milioni di persone devi trovare il modo di convincerli tutti quanti, uno per uno.
«Steve Jobs aveva ragione non solo nel settore della vendita dei personal computer ma in tantissimi altri ambiti, e da quella idea possiamo estrapolare una previsione abbastanza chiara di come stiano cambiando tantissimi mercati».
Ci sono però anche fattori di complessità più difficili da comprendere perché il rumore e l’attenzione mediatica che li circonda è maggiore di quello che probabilmente è il vero valore. Per vedere sotto questa coltre di rumore occorre un po’ di sano pessimismo. Ad esempio, nel caso delle criptovalute o del metaverso.
«Ho colleghi al CIFS che sono più ottimisti, o almeno lo erano, riguardo alle criptovalute. Secondo me si tratta di una idea che in teoria è molto buona ma che la natura umana e la mancanza di una regolamentazione hanno reso molto debole. Il vero potenziale verrà fuori nel lungo termine, ma siamo ancora lontani».
Un po’ di pessimismo è quel che serve, emerge dalla posizione di Shoup, per mettere le cose in prospettiva. Anche per un ambito, quello del metaverso, nel quale è raro trovare chi abbia il coraggio di dissentire.
«Eppure, secondo me anche per il metaverso vale un ragionamento simile: i visori integrati per la realtà virtuale vengono presentati come strumenti che cambiano tutto ma in realtà non lo sono ancora. E inoltre non capisco le idee alla base di questi mondi virtuali digitali. L’idea cioè di una scarsità in ambito digitale, che per definizione è il contrario della scarsità. Ovverosia, non capisco il bisogno di acquistare una location virtuale o dei beni digitali come gli NFT. Penso che le future generazioni spenderanno certamente sempre più tempo nei metaversi e che lo faranno non solo per giocare, ma anche per lavorare, collaborare, risolvere problemi, ricevere un’educazione. Ma lo vedo come un potenziale futuro, non qualcosa di ineluttabile che sta già accadendo».