Il lavoro del futurista è anche quello di gestire l’ansia di quello che avverrà. Alberto Mattiello, business futurist, lo dice sorridendo durante la nostra intervista subito prima di ritornare a Miami dove abita, ma in realtà è molto serio:
«Secondo me il problema di chi fa il mio mestiere è anche gestire le ansie delle persone che non vogliono cambiare. Sono attratte ma hanno anche ansia di quello che potrebbe succedere se si cambia. Bisogna camminare su un filo sottile, invitando al cambiamento senza alzare il livello della tensione. Succede anche con gli studenti nei miei corsi: c’è sempre qualcuno che alla fine dice “Io non voglio cambiare”. D’altro canto, l’ansia va d’accordo con la nostalgia: tutti sono nostalgici dell’ultima tecnologia che hanno usato. Attenzione, non della penultima, solo dell’ultima».
Mattiello ha scelto una traiettoria lavorativa atipica nel mondo peraltro singolare dei futuristi. La potremmo definire il lavoro di una prima linea: anziché occuparsi di scenari di medio e lungo periodo, lui lavora sul breve. Analizza con un metodo fondamentalmente qualitativo e multidisciplinare l’evoluzione nel presente dei modelli di business, delle tecnologie ma anche degli altri aspetti economici e sociali della vita delle imprese, e collabora con loro alla costruzione di percorsi per introdurre i cambiamenti in azienda.
«Ci sono varie declinazioni della categoria dei futuristi – dice – cioè quelli che cercano di guardare quel che sta per succedere o che succederà. Io mi concentro sulle implicazioni di business del cambiamento dal punto di vista die modelli di business e delle modalità di gestione delle imprese. E lo faccio con un orizzonte di 3-5 anni. Sono lontano dall’orizzonte di un secolo dell’uomo che vive su Marte, o cose simili. Invece, guardo al contesto di oggi e cerco di leggere i cambiamenti per proiettarli in avanti e spiegare dove si deve andare a competere tra pochi anni. Quale nuova modalità assumere nei prossimi cinque anni. Chi sarà la figura chiave nel funzionamento del proprio business. Quali modelli di business non saranno più sostenibili».
La spiegazione per cui si è generato uno spazio per questo tipo di analisi, che è diversa dalla consulenza strategica tradizionale perché si basa su set di variabili e scenari più ampi, è data dal momento che stiamo vivendo. C’è una domanda per questo tipo di servizio perché il tasso di cambiamento da alcuni anni è crescente e di conseguenza anche l’incertezza. Ci sono vari modi per leggere le trasformazioni e le tendenze di alto livello che definiscono le direttrici. Ma scenari troppo grandi hanno il difetto che, cambiando una piccola variabile, ad esempio per l’arrivo di una innovazione inaspettata, possono cambiare repentinamente e in maniera drastica.
Secondo Mattiello, però, c’è un’altra insidia.
«Alcune trasformazioni non sono prevedibili nel senso che non possiamo con certezza definire le conseguenze venti anni dopo, ad esempio, di una nuova tecnologia al momento della sua nascita. Invece possiamo capire cosa succede quando, ad esempio, entra nel mercato una nuova tecnologia e prevedere le conseguenze nel breve in termini di trasformazione dei modelli di business. L’assunto è che oggi ci vuole un attimo perché un’impresa perda rilevanza sul mercato quando cambia il modo con il quale si lavora. Un esempio di cui stanno parlando tutti è ChatGPT, che crea implicazioni enormi su molti sistemi professionali diversi, alcuni forse meno ovvi. Ad esempio, una intelligenza artificiale conversazionale di questo tipo diventa un nuovo canale di marketing: le persone cominceranno a cercare attraverso ChatGPT le sintesi su quali siano i migliori prodotti per una vacanza, per esempio. Questo per le aziende vuol dire capire come fare ad addestrare dei sistemi di machine learning in modo tale da avere prodotti rilevanti. L’addestramento delle AI come una nuova forma di Seo, per capirci».
Mattiello, un futurista atipico
Il lavoro di Mattiello è iniziato nei primi anni Duemila, con una traiettoria che lo ha portato velocemente a lavorare sul futuro e sui modi per aiutare le aziende ad affrontarlo e gestirlo.

«Ho iniziato nel 2007, quando ho aperto uno studio per fare innovation design, cioè aiutare le aziende a inserire nuove tecnologie e nuovi materiali nei loro prodotti e servizi. Ma ho capito abbastanza rapidamente che se vuoi aiutare un’azienda a innovare non puoi farlo andando a vendergli delle soluzioni, ma devi creare un percorso e la convinzione necessaria per fare innovazione. Questo ha voluto dire per me creare anche un network con il mondo degli innovatori e poi iniziare a fare public speaking per raccontare il futuro del business. E ovviamente a scrivere libri».
Nel 2023 scrivere un libro sul futuro e il business ha ancora senso? Gli imprenditori e i manager si informano e creano una opinione ancora in questo modo?
«Di libri ne ho scritti sei e ho capito questo. Esiste una categoria di persone che legge libri e chi ne fa parte legge anche due libri alla settimana. Molti imprenditori leggono tantissimo. Ho visto aziende cambiare direzione sulla base di libri. Non sono poche persone: magari ascoltano i libri in macchina con Audible o leggono i riassunti, ma questa categoria c’è, ha in media più di 45 anni e cerca i libri perché sa che dentro trova una conoscenza distillata. Però ho anche capito che scrivere libri non è un business. L’editoria da questo punto di vista è un settore che fa tenerezza nei suoi tentativi di tornare a essere sostenibile. Tuttavia, dal punto di vista del marketing di un autore scrivere libri è fondamentale: l’oggetto libro piace e ho imparato a farli in modo adatto ai miei lettori. Ad esempio, metto tutto le cose importanti nelle prime 40 pagine e poi approfondisco nel resto del libro, anziché procedere con scenari anche molto complessi ma che diluiscono le cose in tutto il testo».
Il settore dei libri affascina anche per altri motivi. Ci sono stati vari cambiamenti nel settore editoriale dei libri per manager e imprenditori, e gli esempi maggiori vengono dagli Usa, dove veri e propri best-seller di 400 o 500 pagine portano storie ricche e complesse, pieni di casi ed esempi, narrazioni complesse e che ripetono ritmicamente i concetti-chiave.
«Gli americani spesso sbrodolano – dice Mattiello, divertito – però ripetere all’infinito lo stesso concetto ha senso: aiuta le persone a capirlo e a digerirlo. I libri manageriali più venduti sono fatti così, anche se la teoria che ci sta dietro potrebbe essere riassunta in quattro pagine. Ma c’è un valore a strutturali in quel modo. Non bisogna dimenticare poi che nel mercato italiano questo è un business dove non si guadagna: i libri vendono comunque cifre piccole in assoluto e il valore sta altrove. È negli eventi».
Pensare in pubblico
Pensare in pubblico, forse potremmo riassumere così il metodo di lavoro che Mattiello ha costruito in questi anni. Un modo circolare di cercare le innovazioni, viverle, letteralmente indossarle, parlarne, ascoltare il feedback nelle conferenze e con gli studenti nei corsi che tiene in Italia e negli Usa, maturarle e metterle in libri che poi presenta e con i quali apre altre conversazioni con imprenditori, manager, studenti, innovatori.
«Per me l’attività centrale sono gli eventi, per due motivi. Il primo è che c’è un pubblico, e questo vuol dire che se dico cose interessanti la gente lo capisce velocemente e io lo vedo. Se prendo tutti i miei interventi degli ultimi dieci anni, non ci sono gradini, ma concetti che nascono e che cambiano, crescono man mano che li racconto. Alcuni muoiono perché non hanno più senso, altri si trasformano via via che me li devo chiarire per aggiornarli e spiegarli a chi mi ascolta».
Mattiello divide la sua attività professionale tra gli Usa, dove vive con la sua famiglia, e l’Italia, dove sono la maggior parte dei suoi clienti e delle sue attività. Ma gli Usa, Miami in particolare, non è una scelta dettata da motivi solo personali.
«Il mio lavoro è paragonabile a quello di una sorta di traduttore che lavora sui tempi e i modi dei verbi: dal futuro al presente, dal congiuntivo e dal condizionale all’indicativo. Gli Usa sono fondamentali, perché sono uno dei motori più importanti dell’innovazione a livello globale. Vivo in una delle prime cinque città, a tre ore di aereo da tutte gli eventi più importanti. Il mio lavoro è vedere tutto, testarlo, incontrare le persone, partecipare agli eventi. Questo non potevo farlo dall’Italia, perché leggere le cose non basta. Negli Usa posso ad esempio incrociare prodotti, tecnologie e modelli di business che muoiono subito, non lasciano traccia ma sporcano lo stesso il mondo. E, declinando questi micro e macro cambiamenti, cerco di definire dei quadri di cambiamento che poi posso riportare alle singole aziende, alle loro attività e settori».
Il ritorno delle tecnologie in azienda
Un cambiamento che secondo Mattiello sta avvenendo è una trasformazione del modo con il quale le tecnologie entrano in relazione con le aziende e le persone. Anzi, con chi in questo momento sta iniziando a guidare la trasformazione.
«È un’idea sulla quale ho cominciato a lavorare dopo il CES di Las Vegas, l’evento a cui hanno partecipato anche alcune (poche) aziende italiane. La trasformazione che secondo me sta avvenendo adesso è una specie di sorpasso: dieci anni fa avevamo una doppia vita, da consumatori con moltissime tecnologie super-avanzate a disposizione a casa e poi in ufficio un ambiente vecchio, conservatore, congelato. Questa è stata una specie di anomalia storica perché in tutto il Novecento le ultime innovazioni e tecnologie si trovavano al lavoro, non a casa. Adesso sta avvenendo un sorpasso, un ritorno all’innovazione del posto di lavoro. Nei prossimi anni avremo una vita lavorativa molto più tecnologica, gli investimenti più forti nei metaversi, ad esempio, sono pensati per le grandi aziende e gli imprenditori si sono fatti l’idea che per andare verso il futuro sia necessario accelerare l’adozione dell’innovazione in azienda e ne stanno rivedendo profondamente i meccanismi. Un segnale, da questo punto di vista, è dato dalla trasformazione del mondo delle startup, che è diventato più intellegibile e strutturato, con una accelerazione dei capitali di ventura che investono di più perché hanno visto che le startup vengono poi metabolizzate più velocemente dal mercato e dalle aziende: nell’ultimo anno le fusioni e acquisizioni sono aumentate del 58%. Le aziende sono diventate più brave a innovare anche perché hanno capito come si porta l’innovazione dentro e come si fa a gestirla».
I futuristi del futuro remoto osservano delle tendenze profonde e hanno strumenti di analisi differenti, sia rivolti al cambiamento che ai modi per far cambiare le persone nelle aziende e nelle imprese. Gli scenari a venti, trent’anni diventano esercizi complessi in cui il pericolo è quello di scivolare nella narrazione d’intrattenimento. Ma qual è la sfida per chi vuole mettere a fuoco il futuro prossimo?
Mattiello ride:
«Il troppo entusiasmo. Cioè, attenzione a non diventare una banderuola. Secondo me guardare il futuro si fa in due modi. Uno è quello analitico, basato sull’analisi dei dati per capire come cambia il mondo: dalla popolazione mondiale ai livelli di CO2. L’altro, che seguo, è quello di guardare i dati ma anche di provare le tecnologie, provare le cose, parlare con le persone. Sembra una battuta rubata a Nanni Moretti, ma è solo girando e incrociando le persone che è possibile trovare punti di vista diversi dal proprio e riuscire a intuire la portata di un cambiamento. Per questo applico un metodo: parto dall’innovazione e torno indietro».
In che senso?
«Il valore di partire dall’innovazione e andare indietro è che permette di capire perché quell’innovazione è arrivata lì. Tipicamente c’è sempre un bisogno che genera un processo di ricerca e degli investimenti, che poi generano l’innovazione. Il valore sta nel fatto che se si capisce qual è il nucleo iniziale che ha creato quel processo, si arriva a definire un bisogno che ha più valore dell’innovazione in sé. Questo perché poi ognuno può dare una risposta parzialmente o anche completamente diversa a quel bisogno. Fatto questo, bisogna anche capire come l’innovazione impatti il mondo, cioè quali cambiamenti provochi quando viene declinata nei vari settori magari molto diversi tra loro».
Il lavoro che cambia, da Frankenstein a Moneyball
La cronaca di queste settimane aiuta. Tornando infatti all’esempio di ChatGPT, di cui oggi non c’è giornale o televisione che non ne parli, quello a cui assistiamo è il tentativo della società di metabolizzare una nuova tecnologia; e farlo nel momento in cui questa diventa accessibile per tutti tramite il cloud, settore per settore: gli studenti che preparano i temi, i giornalisti gli articoli, gli imprenditori le lettere di marketing, i poeti le poesie e via dicendo. Una miriade di tentativi che continuano a testare infiniti possibili usi ulteriori dell’innovazione, sino a che quelli che avranno le caratteristiche “giuste” per restare, cambiando un po’ il modo di funzionamento della tecnologia e cambiando un po’ il modo in cui funzionano la società e l’economia.
«Un esercizio che ho fatto con ChatGPT – dice Mattiello – è stato immaginare un altro momento in cui una tecnologia ha cambiato il mondo dal basso per avere un quadro della dimensione del fenomeno. Mi è venuta in mente la calcolatrice tascabile e l’impatto che ha avuto quando è entrata negli uffici, nelle scuole, nelle tasche di persone che studiavano e lavoravano. Oggi con ChatGPT abbiamo trovato una calcolatrice per i creativi e tutte le altre categorie. La proiezione di questa idea, poi, diventa un esercizio stile Black Mirror, la serie televisiva: immaginare utopie e distopie sulla base della dimensione del fenomeno, e poi pian piano vedere quali impatti hanno per le aziende e le persone».
La grande discontinuità che concorre alla formazione del futuro prossimo, però, è un’altra. La pandemia. Che ha generato una serie di cambiamenti che abbiamo difficoltà a identificare e contestualizzare in modo univoco.
«La pandemia – dice Mattiello – ha generato qualcosa che metto sotto l’etichetta “Great Reshuffle”, di cui fanno parte anche l’accelerazione tecnologica e il cambio di paradigma nel mondo del lavoro. Le etichette non sono definizioni scientifiche, mi servono per creare una prima approssimazione di quel che sta succedendo e immaginare i cambiamenti del prossimo futuro. L’idea sulla quale sto lavorando è quella del cambiamento dell’approccio delle aziende ai loro lavoratori. È un cambiamento profondo, da un modello Frankenstein a uno Moneyball».
In cosa consiste?
«Il modello attuale è quello Frankenstein. Le aziende hanno moltissimi vincoli nelle persone che cercano: di età, competenze, dove abitano, come si comporteranno in ufficio, che titoli di studio e che esperienza hanno. Si fa fatica a trovare le persone “giuste” semplicemente perché bisogna mettere assieme tantissime cose diverse per creare il dipendente ideale. Una specie di Frankenstein, appunto. Invece, è possibile un approccio diverso abilitato dalla tecnologia, dalla nascita dello smart working su larga scala, dal desiderio di molte persone di lavorare solo su temi che gli interessano. È un approccio Moneyball, come il film del 2011 con Brad Pitt basato sul libro dell’allenatore di baseball Michael Lewis. L’allenatore usava un approccio matematico: non cercava campioni ma giocatori bravi a fare una sola e ben determinata cosa sulla base delle statistiche di gioco. La vera bravura di Lewis stava poi nella capacità di orchestrare la squadra così ottenuta. La stessa cosa adesso è possibile nel mondo del lavoro: anziché dei costosi Frankenstein, si può invece creare un team Moneyball di persone brave a fare ciascuno una cosa, e degli orchestratori capaci di andare a prendere quel che serve anche se chi lo fa vive in cima a una montagna o fa vedere solo l’avatar di un gatto quando si collega».
È un cambiamento profondo, conclude Mattiello:
«L’abilitatore di questo futuro Moneyball è lo smart working. Questa innovazione porta con sé anche una ridefinizione delle caratteristiche delle persone con le quali si lavora e può rispondere a un’esigenza nuova. Questa esigenza deriva dalla complessità attuale, che costringe l’azienda a fare le capriole per risolvere una serie di problemi nuovi che si presentano per la prima volta in maniera così veloce che spesso non ci sono i processi e la capacità per cercare e assumere le persone giuste per fare determinate cose necessarie al cambio di contesto. L’approccio Moneyball aiuta a risolvere questo problema e va incontro anche ai singoli dipendenti che possono continuare a fare le cose ad alto valore che gli piacciono e in cui sono bravi senza dover adattarsi a tutto quel che il lavoro in ufficio comporta. Però questo approccio Moneyball richiede un cambio di mentalità piuttosto ampio e lo sviluppo di figure nuove, come gli orchestratori, in grado di gestire questi gruppi di lavoro diffusi e verticali. Ma è qualcosa che secondo me nei prossimi cinque anni ha senso che prenda corpo».