La fotosintesi artificiale potrebbe essere la vera rivoluzione a livello energetico. Per questo l’interesse globale è forte e la ricerca è ubiqua. Anche l’Italia dà un importante contributo. Ecco cosa è stato fatto e quali sono le ultime ricerche.

TAKEAWAY

  • La fotosintesi artificiale, per convertire la radiazione solare in energia, attira un forte interesse da parte della comunità scientifica mondiale.
  • Catalisi e fotocatalisi sono due processi essenziali legati alla fotosintesi artificiale. In entrambi i casi è attiva l’Italia, in particolare il gruppo italiano di ricerca Nanomolcat.
  • Le più recenti ricerche in tema di fotosintesi artificiale si segnalano negli USA e in Europa: nel primo è attivo un team di ricerca della Purdue University, nell’altro un progetto UE.

La fotosintesi artificiale da anni è la vera “pietra filosofale” attorno cui si è rivolto un forte interesse da parte della comunità scientifica mondiale, legato al mondo dell’energia e della chimica ma non solo, e che passa da catalisi e fotocatalisi. L’interesse è rappresentato dalla quantità di studi dedicati (in Cina si superano i 20mila solo nel 2019) e dal fiume di investimenti pubblici: il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti lo scorso anno ha annunciato uno stanziamento di 100 milioni di dollari.

Serve un impegno su scala mondiale perché, si ricorda su Royal Society, qualsiasi nuova tecnologia energetica ha bisogno di un’enorme capacità umana e industriale, nonché di un investimento di capitale di circa mille miliardi di dollari per portarla all’1% del mix energetico mondiale. Un tale sforzo può essere dispiegato solo a un livello veramente globale.

D’altronde, i vantaggi che questa forma di produzione e stoccaggio energetico sono enormi e ubiqui: a parte l’aspetto dell’immagazzinamento, la fotosintesi artificiale è anche più attraente dal punto di vista ambientale persino più delle stesse fonti rinnovabili come fotovoltaico ed eolico, perché potrebbe potenzialmente aiutare ad assorbire l’eccesso di CO2 dall’atmosfera, oltre a rilasciare l’ossigeno utile nell’ambiente: da qui l’interesse verso quella che è stata definita come una delle dieci migliori tecnologie emergenti dal World Economic Forum.

Catalisi e fotocatalisi: la ricerca italiana

A proposito di catalisi e fotocatalisi, è attivo sin dal 2008 il gruppo italiano di ricerca Nanomolcat (Nano & Molecular Catalysis Laboratory) coordinato dalla professoressa Marcella Bonchio, docente di chimica e prorettrice alla ricerca scientifica dell’Università degli Studi di Padova. In particolare si lavora al design dei catalizzatori a base di metalli che si ispirano agli enzimi naturali per effettuare trasformazioni complesse e bioispirate.

Il lavoro del team di ricerca è partito dalla catalisi. È un fenomeno per cui la velocità di una reazione chimica è modificata dalla presenza di piccole quantità di sostanze (i catalizzatori, appunto) che non si consumano durante la reazione. Entra in gioco in svariati processi chimici, e i catalizzatori in particolare sono importanti nella tecnologia applicata alle energie rinnovabili.

In tema di catalisi e fotocatalisi, si è avviato lo studio sul modello di catalizzatore più adatto a funzionare per questo processo. Per questo ci si è concentrati sulla reazione più adatta, l’ossidazione dell’acqua. Essa è l’atto finale dell’intero processo del water splitting, ovvero la reazione chimica in cui l’acqua viene scomposta in ossigeno e idrogeno.

In realtà si compone di due semi reazioni: una (ossidazione) che produce ossigeno e un’altra (riduzione) che produce idrogeno. Questa reazione può essere caratterizzata da un’elevata sostenibilità ambientale se si utilizza la luce (fotocatalisi) e che è alla base della già citata fotosintesi clorofilliana.

Si tratta di un processo che si realizza a temperatura ambiente e a pressione atmosferica, quindi in condizioni assolutamente naturali e sostenibili per quanto riguarda la richiesta energetica. Se poi si aggiunge che la fotocatalisi opera sulla molecola d’acqua, una delle più stabili conosciute, oltre che abbondante sulla Terra, si chiude il cerchio.

L’ossidazione dell’acqua è la reazione più complessa perché la richiesta energetica è molto elevata per rompere il legame ossigeno-idrogeno, liberando elettroni e protoni. Per riuscirci occorre disegnare un meccanismo di reazione attivo a bassa energia e introdurre un catalizzatore, un co-fattore che in natura è costituito da enzimi. Anzi, a livello biologico è stato messo a punto un unico catalizzatore metallico che impiega 4 atomi di manganese, circondato da un intorno di proteine e che provvede a due funzioni: il trasporto elettronico e il trasferimento protonico. A livello di laboratorio il lavoro è stato proprio progettare un catalizzatore funzionale come quello naturale

spiega la professoressa Bonchio. Al posto del manganese è stato scelto il rutenio, metallo raro già utilizzato negli elettrolizzatori per le sue caratteristiche e perché più stabile, oltre che durevole specie per un sistema artificiale. Per l’intorno, ossia per le condizioni ideali per trasportare elettroni e protoni, la scelta è caduta sui nanotubi di carbonio.

Ottimi conduttori, sono ideali per trasportare gli elettroni. In collaborazione col centro di ricerca dell’Università di Trieste, coordinato da Maurizio Prato, specializzati in nanotecnologie di carbonio, si arriva nel 2010 alla progettazione e realizzazione dei nanotubi di carbonio opportunamente pensati per permettere il trasporto di elettroni e protoni. Il secondo passaggio (2013) è l’aggiunta del grafene modificato per aumentare maggiori prestazioni.

Nel 2019 il team di ricerca ha lavorato all’inserimento della luce, passaggio possibile grazie a precursori di nanomateriali, perileni, idrocarburi policiclici aromatici grandi assorbitori di luce, capaci di assemblarsi come nanostrutture. Grazie al loro impiego sono state create particolari membrane bidimensionali che, integrando il centro catalitico, riescono a trasformare i quanti di luce e a immagazzinare l’energia solare producendo ossigeno. 

Fotovoltaico addio, arriva il pannello fotosintetico e l’idrogeno solare

Ora la frontiera della ricerca in materia di catalisi e fotocatalisi è arrivare a sfruttare al meglio le caratteristiche della fotosintesi. L’interesse è ubiquo e i progressi sensibili. È pensabile quindi prevedere quando si arriverà a sfruttare questa possibilità? “È assai difficile fare previsioni – risponde la docente, che è anche responsabile scientifico della sezione di Padova dell’Istituto CNR per la Tecnologia delle membrane – Dato l’impegno su più fronti, assistiamo ad accelerazioni tali che ci rende ottimisti e ci spinge a lavorare con più forza”.

L’obiettivo però è noto: si lavora a sostituire il pannello fotovoltaico con un pannello fotosintetico, ovvero contare su uno strumento integratore capace non solo di convertire la luce solare in energia elettrica ma di immagazzinarla.

Il fotovoltaico si ferma alla trasformazione luce-elettricità ma al buio questa conversione non avviene. La modalità fotosintetica funziona sempre in quanto l’energia è immagazzinata nei legami molecolari. Una volta realizzato lo splitting dell’acqua ottenendo ossigeno e idrogeno tutta l’energia fornita dalla luce e trasformata nel processo sintetico ritorna immagazzinata nei legami molecolari dei combustibili prodotti, ovvero idrogeno”.

Per questo si parla di idrogeno solare: la luce del sole immagazzinata nei legami molecolari dell’idrogeno, poi utilizzato per alimentare le fuel cell, utile per ogni impiego energetico e anche per il trasporto.

L’Italia vanta una tradizione fotochimica di prestigio mondiale, ma catalisi e fotocatalisi hanno bisogno di un lavoro integrato, che richiede competenze in materia di fotochimica, foto-fisica, scienza dei materiali e chimica sintetica.  

Fotosintesi artificiale e ricerca odierna: Purdue University, EPFL e il progetto HyMAP

La ricerca procede su catalisi e fotocatalisi, ma soprattutto sulla fotosintesi artificiale. Una delle più recenti in questo senso è quella svolta da un team della statunitense Purdue University, coordinata da Yulia Puskhar, biofisica e docente di fisica, che si concentra sulle proprietà di energy storage derivanti dalla fotosintesi.

Il team USA sta imitando il processo costruendo l’analogo artificiale della foglia che raccoglie la luce e scinde le molecole d’acqua per generare idrogeno. L’idrogeno può essere usato come combustibile da solo attraverso le celle a combustibile o essere aggiunto ad altri combustibili come il gas naturale, o costruito in celle a combustibile per alimentare una svariata moltitudine di macchine.

Gli scienziati del laboratorio di Pushkar stanno focalizzando la ricerca su proteine naturali del “fotosistema II”, il primo fotosistema coinvolto nelle reazioni fotosintetiche in alghe, piante e alcuni batteri. Inoltre sta lavorando su combinazioni di catalizzatori sintetici nel tentativo di comprendere quali funzionino meglio.

In Svizzera, una équipe di scienziati dell’EPFL sta lavorando anch’essa alla generazione dell’ossigeno da luce solare, dall’acqua e – peculiarità della ricerca – dai polimeri semiconduttori che permetterebbe “un’ossidazione dell’acqua guidata dal sole altamente efficiente”.

Rispetto ai sistemi precedentemente riportati, che impiegano materiali inorganici come gli ossidi di metallo o il silicio e non hanno soddisfatto i requisiti di prestazione e di costo per l’industrializzazione, i materiali polimerici messi a punto in questo lavoro hanno proprietà adattabili a livello molecolare e sono processabili in soluzione a bassa temperatura, permettendo la fabbricazione di dispositivi su larga scala a basso costo di produzione.

Il lavoro del team dell’EPFL è particolarmente interessante in quanto è riuscito a sintonizzre le proprietà dei polimeri per soddisfare i requisiti della reazione di ossidazione dell’acqua e assemblandoli in quella che viene chiamata “bulk heterojunction” (BHJ) che migliora ulteriormente l’efficienza della reazione catalitica guidata dal sole.

Ottimizzando anche la conduzione delle cariche elettroniche nel dispositivo utilizzando interfacce accuratamente ingegnerizzate, hanno realizzato la prima dimostrazione di un “foto-anodo” ossidante dell’acqua basato su una miscela di polimeri BHJ che mostra una performance di riferimento

L’interesse in tema di catalisi e fotocatalisi e, più nello specifico, di fotosintesi artificiale, è assai vigile in Unione Europea. Lo conferma, per esempio, quanto sta portando avanti HyMAP (Hybrid Materials for Artificial Photosynthesis), progetto UE finanziato dal Consiglio europeo della ricerca, istituito per sviluppare una nuova generazione di materiali e dispositivi ibridi organici-inorganici volti a eseguire le trasformazioni chimiche necessarie alla fotosintesi artificiale. Avviato e coordinato dall’istituto spagnolo IMDEA Energia, si è concentrato sulla fotoelettrocatalisi, su scale diverse, da nanotecnologie a reattori di impianti pilota, creando nuovi materiali ibridi fotoattivi.

Il principale obiettivo di HyMAP consiste nello sviluppo dei migliori sistemi multifunzionali per raccogliere la luce dall’intero spettro solare. A tal fine, il gruppo ha analizzato fotocatalizzatori ibridi, studiando diversi materiali e approcci. In particolare, i ricercatori hanno progettato un reattore solare in fase gassosa.

Tale impianto prototipale produce idrogeno solare dall’acqua e dalla biomassa, nonché da altri combustibili e sostanze chimiche, quali monossido di carbonio, metano e metanolo, avvalendosi dell’anidride carbonica come reagente

Fotosintesi artificiale, catalisi e fotocatalisi: l’impatto e le prospettive

Replicare la fotosintesi clorofilliana per produrre energia, ma anche per convertire CO2, luce solare e acqua in energia e ossigeno. Basta già questo per comprendere l’enorme impatto che può avere la fotosintesi artificiale non solo in campo energetico, ma anche ambientale, e che giustifica forti investimenti in tutto il mondo, per riuscire a trovare un modo efficace per creare un processo non solo efficace, ma replicabile alle adeguate economie di scala. Non c’è un solo metodo, ma diversi approcci: catalisi e fotocatalisi, impiego di batteri debitamente modificati, uso di nanomateriali… 

Dalla prima “foglia artificiale” di Daniel G. Nocera (un sistema bioelettrochimico scalabile e integrato in cui un particolare batterio è stato utilizzato per convertire in modo efficiente la CO2)  alle ricerche condotte da Craig Venter, scienziato che ha sequenziato primo genoma completo, a quella del team internazionale formato da chimici dell’Università di Cambridge e dell’Università di Tokyo – presentato su Nature Energy – finalizzato a raccogliere l’energia solare per convertire la CO2 in combustibili chimici proprio per ridurre i crescenti livelli atmosferici di CO2 e alleviare la dipendenza globale dai combustibili fossili, la ricerca procede.

Scritto da:

Andrea Ballocchi

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