Il creative confidence è un’interpretazione molto diffusa del design thinking, con un obiettivo ben preciso: stimolare un approccio imprenditoriale innovativo all’interno delle organizzazioni.

Rispetto al tradizionale problem solving, riferibile ad un problema noto a cui è dato trovare una soluzione, il design thinking ha rivoluzionato il modo in cui si generano e si prototipano le idee innovative nel contesto di business, grazie alla sua capacità di saper guardare oltre gli schemi consolidati della progettazione.

L’approccio aperto di una disciplina come il design thinking risulta nativamente predisposto a varie interpretazioni, come il creative confidence, che come il nome stesso suggerisce è sostanzialmente orientato a stimolare una confidenza verso l’imprenditorialità all’interno delle organizzazioni.

In questo frangente, il problem solving tradizionale si rivela troppo lineare nella sua metodologia per dare spazio a quella visione di ampio respiro e priva di vincoli che si pone alla ricerca dell’innovazione, vista da una prospettiva umano-centrica, ancor prima di focalizzarsi sulla soluzione al problema.

Vediamo in cosa consiste il metodo creative confidence e come consente di applicare i criteri e le tecniche del design thinking per stimolare l’imprenditorialità in un contesto di impresa.

Il metodo creative confidence

Il creative confidence utilizza le medesime tecniche del design thinking con un approccio votato a valorizzarne l’innata capacità di generare quella confidenza con i processi creativi che si pongono alla base di qualsiasi esperienza innovativa.

Anziché focalizzarsi in primo luogo sulla ricerca di una soluzione, il creative confidence mira a trasmettere agli stakeholder il senso dell’innovazione stessa, affinché il loro pensiero e le loro azioni siano realmente indirizzate verso proposte in grado di creare un significativo punto di svolta rispetto al passato, affrontando le sfide del futuro con una prospettiva di successo.

Innovare presuppone l’adozione di un pensiero capace di discostarsi dagli schemi consolidati, che si configurano spesso come una comfort zone a cui istintivamente tutti tendiamo, quasi volessimo difenderci dall’idea cambiamento, adottando soltanto delle varianti a ciò che è già noto, che infonde una sensazione di naturale sicurezza. Tale approccio, oltre ad apparire limitato nella sua portata innovativa, tende ad innalzare, spesso inconsciamente, una serie di barriere culturali spesso molto complesse da sormontare.

Per tale motivo, il design thinking, nella sua accezione più generalista, e il creative confidence, più nel dettaglio, tendono ad assumere una prospettiva umano-centrica, cercando di sviluppare un sentimento di empatia con chi viene posto di fronte ad una esigenza di cambiamento.

Per convincere le persone a prendere strade differenti rispetto a quelle consuete, appare necessario comprendere e superare la resistenza ad assumersi dei rischi, la paura di fallire e la difficoltà di effettuare una scelta netta in tutte le situazioni ambigue e incerte che si presentano durante il ciclo creativo.

I principi teorici del creative confidence

Uno dei riferimenti fondamentali per coloro che intendono avvicinarsi alla pratica del creative confidence è costituito dall’omonimo testo di David e Tom Kelley, un racconto esperienziale in cui gli autori, decani della disciplina e tuttora tra i massimi esperti in materia di design thinking, descrivono il loro lavoro in collaborazione con i più importanti brand al mondo.

Si tratta delle collaborazioni sviluppate da IDEO, la design agency fondata proprio da David Keller, grazie alle quali realtà come Apple hanno saputo cambiare per sempre la storia del business con idee davvero innovative, al punto da non essere prese sufficientemente sul serio da parte dei suoi competitor, molti dei quali hanno pagato a caro prezzo il fatto di aver sottovalutato il loro possibile impatto sul futuro.

David Keller è inoltre il fondatore della Stanford d.school, ritenuta in maniera pressoché unanime la vera culla del design thinking. L’approccio di Keller si basa proprio sul fatto che chiunque, a modo suo, sarebbe da considerarsi un creativo, non soltanto gli addetti ai lavori nelle discipline del design.

Sulla base di questo presupposto, diventa semplice comprendere perché nei lavori che articolano le cinque fasi del design thinking (empatize, define, ideate, prototype, test) siano coinvolte figure eterogenee, che vanno dai C-Level ai clienti finali, oltre ai progettisti di professione, a cui va l’onere di concretizzare le idee validate in seguito al processo di brainstorming.

Per trasmettere in maniera inequivocabile lo spirito anche anima il creative confidence riportiamo due punti chiave della mission della Stanford d.school, che connotano il design in chiave fortemente etica, riconoscendogli una responsabilità molto elevata.

«Crediamo che il design possa aiutarci a creare il mondo che desideriamo. Il design può renderci creatori per cambiare il modo in cui vediamo noi stessi e gli altri. Il design è pieno di ottimismo, speranza e gioia, che derivano da un cambiamento che rende le cose reali. Crediamo che la diversità porti a un design migliore e apra una gamma più ampia di possibilità creative».

«La natura del design offre alle persone l’opportunità e il privilegio di plasmare il mondo in cui abitano. Questo è potere. In un mondo giusto, questo potere è condiviso, dando priorità alle voci e alle idee delle persone più interessate dagli effetti previsti ed imprevisti dei nuovi progetti. Miriamo a confrontarci attivamente e sfidare la mentalità secondo cui il design può essere utilizzato solo da pochi privilegiati»

Il ruolo del design thinking nelle aziende

Il design thinking appare una disciplina sempre più matura nell’aiutare le imprese a trovare soluzioni ai loro problemi grazie ad un approccio creativo e umano-centrico. Negli ultimi anni, grazie al contributo e all’influenza di interpretazioni come il design sprint, il creative problem solving e il creative confidence, il design thinking ha acquisito un carattere di credibilità che lo rende ormai tra le metodologie più diffuse quando si tratta di generare innovazione in un contesto aziendale.

Il design thinking coinvolge una serie di stakeholder molto eterogenea, che comprende figure professionali, come designer, imprenditori, ingegneri, insegnanti, ricercatori e molte altre. Il design thinking nasce infatti dall’idea di un creare qualcosa di fatto dalle persone per le persone, per trovare soluzioni capaci di risolvere con successo le loro esigenze a partire da una comprensione empatica dei bisogni stessi. Si tratta esattamente ciò che le aziende cercano quando si tratta di ascoltare il loro pubblico e proporre nuove idee, capaci di intercettare la domanda prima ancora che questa si generi in forma autonoma sul mercato.

Secondo i dati dell’Osservatorio Design Thinking for Business del Politecnico di Milano, nella realtà di impresa, il creative confidence sarebbe utilizzato in prevalenza dai consulenti strategici (54%), dagli studi di design (35%) e dagli sviluppatori di soluzioni tecnologiche (27%).

Pur meno diffuso rispetto a soluzioni radicate come il design sprint e il creative problem solving, il modello creative confidence risulta in ogni caso capace di assumere un peso non indifferente sui risultati finanziari delle aziende che scelgono di implementarlo alla base dei propri processi di innovazione.

In base a quanto riportato dall’Osservatorio Design Thinking for Business del Politecnico di Milano, il creative confidence inciderebbe sul 35% del fatturato annuale delle imprese, una quota percentuale il cui 54,3% si concentra nell’ambito People (30,6% organizzazione e processi e 23,7% cultura aziendale), il 26,3% nell’ambito Solution (di cui il 16,2% nei servizi) e il 19,4% nell’ambito Direction (di cui 12,7% nel business model).

Scritto da:

Nicoletta Boldrini

Futures & Foresight Director | Direttrice Responsabile Tech4Future Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin