Il design thinking è una disciplina sempre più matura nell’aiutare le aziende a trovare soluzioni creative ai problemi. Gli ultimi anni hanno visto una disciplina nascente guadagnare strada facendo una solidità ed un riconoscimento che oggi fanno del design thinking una delle pratiche più diffuse tra le metodologie utili a supportare i processi di innovazione in azienda.

A scanso di equivoci, come del resto accade per tutti i processi basati sul design, è necessario sottolineare come il design thinking non costituisca a priori una garanzia di successo. Si tratta di una disciplina dallo straordinario potenziale, che richiede pratica ed esperienza. Per facilitare l’adozione e l’implementazione in azienda dei percorsi di design thinking è infatti auspicabile il supporto di specifiche figure consulenziali, dotate del know-how derivante dal quotidiano rapporto con casi studio applicativi concreti.

Il design thinking si basa su una community creativa molto ampia capace di coinvolgere tantissime figure professionali, come designer, imprenditori, ingegneri, insegnanti, ricercatori e molte altre ancora. Il design thinking è fatto dalle persone per le persone, per trovare soluzioni capaci di risolvere con successo le loro esigenze.

La prospettiva umano-centrica del designer richiede una creatività capace di superare gli schemi abituali, in cui la fame di conoscenza e la follia tipica dell’innovatore, a cui faceva del resto riferimento Steve Jobs, devono puntualmente rapportarsi con la fattibilità tecnica ed economica del prodotto delle idee: visione e concretezza.

Il mindset del design thinker è il risultato complesso di qualità come empatia, ottimismo, creatività e ambiguità, unite alla volontà di essere sempre pronti a rimettere in discussione qualsiasi risultato ottenuto alla ricerca di soluzioni ulteriormente migliorative. Il mindset del design thinker è il risultato di una vita trascorsa ad osservare il funzionamento delle cose e il comportamento delle persone, per conoscere e comprendere profondamente le loro esigenze. Questo approccio risulta infatti essenziale per sviluppare idee e soluzioni basate sui concetti dello human-centered design, ancor prima di conoscere nello specifico le sue tecniche.

Prima di entrare nel dettaglio del design thinking e conoscere i suoi aspetti fondamentali, concludiamo la nostra premessa con la considerazione più importante. Grazie ad una preparazione adeguata, oggi chiunque può affrontare il mondo come la mentalità di un designer, a patto di essere disposti ad acquisire quella confidenza creativa che David Kelley, da molti riconosciuto come il padre del design thinking, identifica nel fatto che la vera essenza della creatività non risieda nel dare vita ad un design, ma nella volontà di comprendere come funziona il mondo: la naturale curiosità nei confronti di tutto ciò che ci circonda.

Cos’è il design thinking

Non esiste una definizione univoca di design thinking, così come non potrà mai esistere un’unica definizione di design, tanti e tali sono i punti di vista e gli approcci che afferiscono ad una materia così universale. Nel novero delle decine di definizioni che sono state negli anni assegnate al design thinking, una posizione particolarmente condivisibile, anche in virtù della sua concezione attuale è quella espressa da Tim Brown, presidente e CEO di IDEO, design company fondata nel 1978 da David Kelley e, da molti, accreditata quale principale promotore della disciplina per come la intendiamo oggi, non soltanto nel termine che la identifica. Secondo Brown:

Il design thinking è un approccio umano-centrico all’innovazione che attinge dagli strumenti del designer, integrando i bisogni delle persone, le possibilità della tecnologia e i requisiti per il successo aziendale”.

A differenza del problem solving tradizionale, che è solito riferirsi ad un problema noto a cui trovare una soluzione attraverso tecniche e metodi di design consolidati, il design thinking parte dall’osservazione, seguendo nello specifico i principi dello human-centered design. Laddove il problem solving tradizionale si dimostra eccessivamente lineare, non sempre così flessibile, innovativo o efficiente nel dare una risposta al problema, il design thinking si è fatto strada rivelandosi un’alternativa vincente grazie alla sua prospettiva umano-centrica.

L’obiettivo preliminare del design thinking si focalizza nella piena comprensione di tutti gli aspetti contestuali e culturali che fanno riferimento al potenziale problema, in particolar modo per quanto concerne le esigenze delle persone, a prescindere che si tratti del cliente finale di un servizio/prodotto o di un gruppo dipendenti aziendali alle prese con alcune criticità in merito a processi organizzativi interni all’azienda.

Il design thinking come lo intendiamo si orienta verso una pratica di creative problem solving estremamente generalizzabile ed ha da tempo superato lo scenario applicativo del design di prodotto da cui ha avuto origine. Dal design thinking sono derivate poi altre metodologie e framework che ne richiamano i principi, come per esempio il Design Sprint, metodologia spesso utilizzata per definire e validare un prototipo (di prodotto o di un nuovo servizio o una nuova idea da portare sul mercato o presentare ad un determinato pubblico) in tempi molto rapidi.

Per rispondere concretamente alle esigenze delle persone nel contesto di una società complessa come quella attuale, il design non può limitarsi all’apporto specialistico delle sue discipline e delle loro applicazioni tecnologiche. Rispetto al problem solving tradizionale, il design thinking mira, infatti, a coinvolgere tutti gli stakeholder, valorizzando il loro coinvolgimento per quanto oggetto delle loro competenze cross disciplinari.

Dall’essere materia per designer duri e puri, il design thinking si è nel tempo esteso ai contributi di molte altre figure, avente in comune un approccio al problema di natura creativa. Questo spiega in primo luogo perché oggi il design thinking è così utilizzato anche in ambiti apparentemente insospettabili, almeno dal punto di vista del design classicamente inteso.

Questo concetto è ancora una volta focalizzato in maniera puntuale da Tim Brown, quando, nell’introduzione del suo Change by Design, illustra la sua definizione originale:

Il design thinking ha avuto luogo grazie alle competenze che i designer hanno acquisito nel corso di molti decenni nella loro ricerca di soddisfare le esigenze umane con le risorse tecniche a loro disposizione, agendo entro i vincoli pratici del business. Integrando ciò che è ritenuto desiderabile dal punto di vista dell’uomo con ciò che è tecnologicamente ed economicamente fattibile, i designer sono stati in grado di creare i prodotti di cui godiamo oggi. Il design thinking fa il passo successivo, che consiste nel mettere questi strumenti a disposizione di persone che potrebbero non aver mai pensato a se stessi come designer e applicarli ad una gamma molto più ampia di problemi”.

Le tecniche e le strategie del design thinking sono ormai impiegate a tutti i livelli aziendali, coinvolgendo anche più divisioni simultaneamente per creare dei team di lavoro cross-funzionali, in grado di utilizzare le differenti competenze di cui dispongono e metterle al servizio del raggiungimento degli obiettivi di business.

La storia del design thinking

Il design thinking come lo intendiamo ora gode di una storia piuttosto recente, che su una timeline ideale potremmo collocare a partire dagli anni Duemila. Tuttavia, i principi e i concetti su cui si basa risalgono a tempi ben più remoti, quando di fatto si svolgevano le sue prime teorizzazioni ed applicazioni, senza considerare ciò che sarebbe accaduto nel contesto di una disciplina propriamente riconosciuta come avviene nei giorni che stiamo vivendo, e soprattutto nel futuro che ci aspetta.

Negli anni Sessanta diversi ricercatori hanno iniziato di “rendere scientifici” gli aspetti funzionali del design, cercando di inquadrarli in processi metodologici replicabili su larga scala. I primi cenni di questo sentore ci riconducono a Designerly ways of knowing: design discipline versus design science, paper scientifico ad opera di Nigel Cross, docente di design presso The Open University, UK.

Cross ha ripreso la critica radicale di Buckminster Fuller, che auspicava una rivoluzione del design basata su scienza, tecnologia e razionalismo per affrontare i problemi umani ed ambientali che non possono essere risolti dalla politica e dall’economia.

Tale dibattito proseguì almeno per tutti gli anni Sessanta, soprattutto nei paesi di matrice anglosassone, e diede un impulso fondamentale nel cercare un connubio tra il design e le scienze razionali, ai fini di rendere il design un presupposto scientifico nell’affrontare una gamma di problemi ancora più ampia rispetto a quella per cui la disciplina era nata.

Nel 1969, Herbert Simon, premio Nobel per l’Economia, nel suo The Sciences of the Artificial ha fatto per la prima volta un espresso riferimento al design come un modo di pensare, portando avanti almeno per un decennio quelli che sarebbero diventati i principi fondamentali del design thinking per come lo intendiamo adesso.

Impossibile riassumere in poche righe il contributo che Herbert Simon, studioso nettamente avanti rispetto ai tempi in cui è vissuto, nelle oltre mille pubblicazioni in carriera ha saputo dare alle scienze cognitive e alle teorie della simulazione, con implicazioni tecnologiche che spaziano dall’informatica all’Intelligenza Artificiale.

In questo contesto ci interessa soffermarci come, già negli anni Settanta, Simon parlasse di prototipazione rapida e test eseguiti attraverso l’osservazione, concetti che oggi sono ampiamente diffusi in moltissimi processi progettuali e gestionali oltre che, come vedremo, in due delle fasi fondamentali del design thinking. In particolare, Simon insisteva che per capire come i sistemi andassero costruiti, sarebbe necessario comprenderli a fondo, osservando il loro comportamento. Alla teoria andava necessariamente abbinata la pratica derivante da una profonda conoscenza del problema.

Grazie a Herbert Simon, nel corso degli anni Settanta, molti studiosi e ricercatori hanno iniziato ad occuparsi di design thinking, anche se all’epoca non era ancora identificato con questa terminologia. È il caso, tra gli altri, di Allen Newell, Cliff Shaw e Robert H. McKim, autore del fondamentale Experiences in Visual Thinking (1973), testo che affronta le potenzialità del design thinking visuale nel comprendere i fenomeni e risolvere i problemi.

Negli anni Ottanta è stato ancora Nigel Cross a porre l’accento su un aspetto molto curioso. Nel paper Designerly Ways of Knowing, Cross ha tentato un paragone tra I processi di problem solving basati sul design e le soluzioni non basate sul design a cui siamo soliti ricorrere ogni giorno per risolvere i problemi nel quotidiano, da cui la conclusione che:

Una caratteristica centrale del design è la sua dipendenza dal generare abbastanza rapidamente una soluzione soddisfacente, piuttosto che da un’analisi prolungata del problema. Nel termine inelegante impiegato da Herbert Simon, sarebbe un processo di “soddisfazione piuttosto che di ottimizzazione: produrre una qualsiasi delle soluzioni soddisfacenti anziché tentare di generare una unica soluzione, ipoteticamente ottimale. Questa strategia è stata osservata in altri studi sul comportamento del design, anche da architetti, urbanisti e ingegneri”.

Iniziava dunque a farsi largo un approccio finalizzato alla ricerca di un metodo in grado di risolvere i problemi caso per caso, in tempi brevi, anziché affrontare lunghe procedure basate sulle teorie dei sistemi, come quelli che, in ambito industriale, avrebbero ad esempio trovato spazio nel system engineering.

Tra la fine degli anni Ottanta e buona parte degli anni Novanta, tali tematiche sono state approfondite soprattutto nelle discipline legate al design di prodotto, all’architettura e alla pianificazione urbana, applicando in buona sostanza i medesimi concetti tecnici e creativi su differenti scale di intervento.

Una delle figure più influenti nell’ambito del design thinking è stata senza dubbio rappresentata da David Kelley, fondatore della già citata design company IDEO (1978). Nel corso degli anni Novanta, Kelley e il suo team, anche attraverso collaborazioni storiche come quella sviluppata con Apple, hanno svolto un lavoro fondamentale per rendere il design thinking una disciplina mainstream, creando in maniera instancabile un terreno fertile per la sua “germogliazione” attuale.

Nel 2004 lo stesso Kelley ha fondato il Hasso Plattner Institute of Design presso la Stanford University, più comunemente nota come d.school, ben presto diventata un’autentica fucina di conoscenza per quanto concerne la ricerca, l’insegnamento e l’implementazione del design thinking in tutti i processi di creative problem solving. Dalla d.school sono usciti molti tra i principali innovatori degli ultimi vent’anni e i loro successi, oltre a costituire la definitiva consacrazione del design thinking, segnano una costante fonte di ispirazione per design thinker ormai attivi in qualsiasi ambito del sapere, nei contesti aziendali, governativi, educazionali e socio-culturali.

Oltre alla Stanford d.school, altre celebri scuole di design thinking sono il MIT D-Lab, la School of Design and Creative Technologies at the University of Texas at Austin, il Northwestern’s Segal Design Institute, il Designmatters at Art Center College of Design e il Berkeley Haas Innovation Lab.

Le 5 fasi del design thinking

Tra I vari meriti che vanno riconosciuti alla Stanford d.school vi è il continuo impegno nel cercare di sviluppare dei framework in grado di facilitare l’adozione e l’implementazione del design thinking nella più ampia gamma di situazioni possibili. In questo contesto sono nate le proverbiali cinque fasi del design thinking, un processo iterativo non lineare, applicabile in maniera ricorsiva, con la possibilità di ritornare in qualsiasi momento su un punto affrontato in precedenza con lo scopo di affinare in maniera progressiva la sua rispondenza rispetto agli obiettivi prefissati.

Le cinque fasi del design thinking sono state in seguito oggetto di varie personalizzazioni, ma nella versione originale della Stanford d.school equivalgono a Empatize, Define, Ideate, Prototype e Test. Vediamole nel dettaglio.

Le 5 fasi del processo di Design Thinking [fonte: Stanford d.school]
Le 5 fasi del processo di Design Thinking [fonte: Stanford d.school]

Empatizzare (Empatize)

Il primo momento è costituito dalla comprensione del problema, ai fini di identificarlo nel modo migliore. Nel design questa fase corrisponde molto spesso con la user research, in cui l’empatia diventa la qualità fondamentale nel contesto di un processo umano-centrico. Rispetto all’approccio tradizionale, il design thinker deve, almeno in primo luogo, lasciare da parte il proprio punto di vista per focalizzarsi sulle esigenze delle persone a cui si riferisce. Soltanto con questo approccio diventa possibile sviluppare, nel corso dell’intero processo, una soluzione effettivamente umano-centrica al problema, capace di mettere le persone al centro dell’esperienza ben oltre gli aspetti retorici di questo celebre mantra.

Definire (Define)

Dopo aver vagliato le prime impressioni, le informazioni ottenute in via empatica vanno acquisite e analizzate ai fini di ottenere una più matura comprensione del problema. In altri termini, queste informazioni devono essere tradotte nella definizione concreta dei problemi da affrontare. In questa fase vengono adottate varie tecniche, tra cui la definizione di personas utili a definire la componente umano-centrica delle esigenze a cui ci si riferisce.

Si tratta di un momento essenziale del processo di design thinking, in quanto da un problema ben definito è possibile ottenere più di una soluzione efficace, mentre si rivela estremamente critico affrontare la risoluzione di un problema i cui contorni appaiono incerti o, nella peggiore delle ipotesi, del tutto non pertinenti con la situazione reale. Quando, in sede di premessa, affermavamo che il design thinking è un processo che richiede molta pratica ed esperienza, pensavamo in primo luogo a questo aspetto.

Ideare (Ideate)

Una volta che il problema è stato definito con certezza, arriva il momento di pensare alle possibili soluzioni. Il plurale è d’obbligo, in quanto la natura progettuale del design thinking rifugge da un rigido rapporto di causa-effetto, per valutare varie possibilità, valutandone in seguito tutti i pro e i contro, oltre che l’effettiva fattibilità dal punto di vista tecnologico ed economico.

Ideare, nell’ambito del design thinking, equivale a pensare “outside the box”, alla ricerca di alternative basate sul human-centered design. Tale approccio è tanto più capace di generare valore e innovazione quanto più il percorso di conoscenza svolto nelle prime due fasi è stato in grado di descrivere accuratamente il problema da risolvere. Tra le tecniche più utilizzate per ideare soluzioni vi è il brainstorming, che coinvolge in maniera cross disciplinare una notevole varietà di stakeholder, agevolati dall’azione di un facilitatore.

Prototipare (Prototype)

Dalle idee alla pratica. La prototipazione delle principali idee sviluppate consente di vedere o toccare con mano le soluzioni ipotizzate per risolvere il problema. A seconda dell’ambito in cui si agisce, il prototipo può esprimersi in varie tecniche, che spaziano da un semplice wall di post-it, quando si lavora sull’organizzazione dei processi, fino a simulazioni fisiche o virtuali molto accurate, capaci di avvalersi del contributo di varie tecnologie emergenti, tra cui l’Intelligenza Artificiale e la Realtà Virtuale, quando si entra nel merito di prodotti ed esperienze interattive.

La fase di prototipazione esprime ciò che intendiamo sostenendo che il design thinking sia un processo iterativo non lineare. È molto frequente che i feedback ottenuti da una soluzione all’opera, anche soltanto nelle sue fasi primordiali, consenta di valutare alcune criticità nella definizione del problema svolta in precedenza e di tornare sui nostri passi per sciogliere gli eventi nodi irrisolti.

Testare (Test)

Una volta realizzati i prototipi, si passa alla prova sul campo, che chiude sostanzialmente il loop operativo del design thinking, fermo restando l’opportunità di agire in maniera ricorsiva sulle altre quattro fasi in qualsiasi momento del processo per migliorare progressivamente il risultato. Il test viene effettuato proprio in quest’ottica, per entrare ancora più nel dettaglio di qualsiasi possibile ridefinizione o perfezionamento del processo di design della soluzione.

I test dovrebbero coinvolgere tutti gli stakeholder interessati ai fini di valutare in maniera dettagliata come la soluzione sviluppata sappia rispondere nello specifico alle esigenze degli utenti per cui è stata concepita. Alcuni modelli del design thinking prevedono infatti espressamente che il test venga eseguito in diretto rapporto con gli utenti finali. Tuttavia, tale eventualità non rappresenta una condizione sempre indispensabile e può essere ovviata facendo ricorso a varie tecniche.

In che modo il design thinking aiuta le aziende

Nella sua concezione moderna, il design thinking costituisce una disciplina a prova di business, che si addice molto bene nel trovare le soluzioni nei confronti di vari problemi aziendali. Il design thinking può essere infatti utilizzato per facilitare la ricerca di una soluzione ad esigenze più o meno complesse.

Le tecniche basate sull’empatia consentono infatti di comprendere al meglio le esigenze dei clienti, sfruttando la base di conoscenza dei dati digitali ottenuti attraverso le loro interazioni con i canali aziendali. Le tecniche di brainstorming possono favorire la collaborazione creativa tra i vari stakeholder coinvolti in un nuovo progetto o nella revisione di una soluzione già nota, quando inizia a mostrare i classici segni del tempo. Le tecniche di prototipazione rapida e i test si addicono invece alla riduzione del time to market e all’ottimizzazione dei costi durante le fasi di sviluppo, a prescindere che l’oggetto in questione sia un prodotto, un servizio o una soluzione interna.

Ancora una volta, a risultare assolutamente decisivo, è l’approccio umano-centrico del design thinking, che porta ad un ribaltamento dei modelli di business tradizionali, basati essenzialmente sul business, a cui risultavano funzionali le persone e le tecnologie.

Il design thinking consente di mettere le persone e le loro esigenze al centro dell’esperienza, rendendo il business e le tecnologie funzionali al loro raggiungimento. L’individuazione di soluzioni efficaci basate su questo approccio si traduce automaticamente in una ragione di successo per le aziende, attraverso la soddisfazione dei clienti finali e degli attori che hanno contribuito a raggiungere questo risultato.

I modelli di design thinking utilizzati nelle aziende

Il design thinking è oggi implementato da un numero crescente di aziende in quasi tutti i settori, utilizzando vari modelli funzionalmente alla soluzione di problemi anche molto differenti tra loro. Una preziosa ricerca svolta nel 2019 dall’Osservatorio Design Thinking del Politecnico di Milano ha infatti individuato quattro modelli, sulla base di un campione di oltre sessanta aziende italiane che da tempo utilizzano con regolarità il design thinking sia per la soluzione di esigenze interne che per sostenere lo sviluppo di servizi e prodotti per alimentare la loro offerta.

I risultati della ricerca hanno evidenziato i seguenti modelli di riferimento: creative problem solving, sprint execution, creative confidence e innovation of meaning. Vediamoli nel dettaglio, sulla base delle definizioni offerte dall’Osservatorio Design Thinking.

Creative problem solving

Il Creative Problem Solving è l’approccio di Design Thinking più diffuso nelle aziende italiane ed equivale ad una metodologia che consente alle aziende di comprendere i bisogni degli utenti, per immaginare in maniera creativa una varietà di soluzioni utili a rispondere alle esigenze del mercato secondo una prospettiva umano-centrica.

Tale aspetto costituisce il fondamento nella ricerca di soluzioni innovative capaci di rispondere con successo alle effettive esigenze che il mercato attuale, sempre più dinamico e sfuggevole nelle sue logiche evolutive, prospetta sui tavoli decisionali delle aziende.

Il creative problem solving è un modello di design thinking molto utilizzato dai consulenti per individuare nuove soluzioni, nuovi prodotti a partire dalla profonda comprensione dei bisogni degli utenti. La sua derivazione deriva dai modelli anglosassoni e si fonda su metodi come l’alternanza di fasi divergenti e convergenti, concepiti per valorizzare gli aspetti creativi sia nella comprensione del problema che nello sviluppo delle soluzioni ipotizzate dai designer.

Sprint execution

Il modello sprint execution risponde ad un obiettivo molto ben definito: realizzare nel minor tempo possibile un prodotto / servizio da lanciare sul mercato, capace di rispondere in maniera puntuale alle esigenze degli utenti.

Rispetto al creative problem solving, lo sprint execution pone una notevole enfasi nelle fasi di prototipazione e testing del prodotto, durante il quale risulta fondamentale il rapporto diretto con l’utente finale. Tra i modelli valutati dall’Osservatorio Design Thinking, si tratta infatti dell’unica circostanza in cui la user contribution costituisce una fase essenziale del processo. Lo sprint execution rappresenta senza alcun dubbio il modello di design thinking più diffuso nell’ambito dello sviluppo di applicazioni digitali.

Creative confidence

Il modello creative confidence risponde ad un approccio di design thinking molto utilizzato per stimolare l’imprenditorialità all’interno delle imprese, coinvolgendo in maniera diretta le persone per favorire lo sviluppo di un mindset collettivo basato sulla ricerca di soluzioni con un approccio creativo.

Per molti versi il creative confidence costituisce un caso particolare del creative problem solving, focalizzato nella ricerca di una confidenza con i processi creativi e innovativi utili a supportare la trasformazione digitale delle aziende. Se le tecnologie sono pronte a fare la loro parte, spesso si incontrano barriere di adozione a causa dell’assenza di una cultura diffusa nei confronti dell’innovazione.

Il design thinking sa offrire strumenti e metodologie di lavoro molto collaudate per favorire la generazione di un mindset basato su concetti empatici, ivi compresa la tolleranza al fallimento e lo sviluppo della capacità di gestire con naturalezza le situazioni incerte tipiche degli scenari in evoluzione.

Il creative confidence è pertanto un modello di design thinking molto indicato quando si avverte nello specifico l’esigenza di favorire il change management all’interno di un’azienda, generando i presupposti per affrontare con approccio creativo gli aspetti legati all’innovazione.

Innovation of meaning

Si tratta di un particolare approccio del design thinking, orientato a ridefinire la visione aziendale e i valori dell’offerta, per capire come generare significativi vantaggi sia per l’organizzazione che per gli utenti finali, attraverso l’innovazione dei servizi e dei prodotti.

L’innovation of meaning aiuta le aziende a guardare all’interno di loro stesse. Rispetto al creative problem solving e allo sprint executive, tale modello risulta infatti maggiormente orientato a definire visioni strategiche, ancor prima di cercare soluzioni specifiche.

Per tali ragioni attualmente l’innovation of meaning costituisce la metodologia meno diffusa tra quelle analizzate dall’Osservatorio Design Thinking, ma le sue caratteristiche la rendono oggetto di un crescente interesse soprattutto per quei contesti aziendali chiamati a ripensare piuttosto profondamente al loro posizionamento in termini di brand e offerta.

Le applicazioni del creative problem solving in azienda

Le aziende utilizzano da tempo il creative problem solving per soddisfare esigenze legate alla progettazione di prodotti e servizi. In tempi più recenti, hanno iniziato a scoprire il design thinking anche in funzione di altre esigenze che non sono direttamente connesse all’offerta aziendale, come la formazione del personale e la diffusione di una cultura del cambiamento basata sull’innovazione creativa dei processi.

Il creative problem solving, attraverso le fasi di empatia e definizione consente di osservare il mercato e intercettare in anticipo nuovi bisogni, focalizzandosi sulle esigenze dei clienti acquisiti e potenziali. Tale processo può essere agevolato in maniera decisiva dall’impiego delle tecnologie emergenti. Si pensi alla capacità di acquisire i dati di relazione con gli utenti attraverso le comunicazioni stabilite con i canali aziendali, ed analizzarli grazie al supporto di tecniche di Intelligenza Artificiale, da cui ottenere un prezioso supporto decisionale.

Il creative problem solving risulta un valido alleato anche quando si profila l’esigenza di risolvere dei colli di bottiglia a livello organizzativo. In molti casi le aziende si trascinano latenti inefficienze nei processi senza riuscire a focalizzare nello specifico la radice del problema. Grazie all’impiego di tecniche collaudate, i design thinker possono facilitare l’analisi e la diagnosi di eventuali criticità, facilitando le aziende a guardarsi al loro interno, coinvolgendo gli attori più significativi. Una volta definito con successo il problema, la ricerca di possibili soluzioni può costituire contestualmente un’ottima opportunità per innovare i processi aziendali con un approccio consapevole.

Il creative problem solving offre inoltre modelli molto efficaci nel costruire occasioni di team building, facilitando la comunicazione interna attraverso l’impiego di tecniche concrete, sviluppate nelle grandi realtà enterprise e progressivamente diffuse anche nel contesto delle PMI.

Quelli citati costituiscono soltanto alcuni tra gli esempi che vedono il design thinking utile alle aziende ogni giorno. È infatti essenziale sottolineare come il creative problem solving, proprio grazie al suo approccio basato sul design umano-centrico, sia una disciplina fortemente orientata ai risultati, attraverso lo sviluppo di soluzioni concrete a problemi reali.

Coerentemente con i presupposti basilari della disciplina, i facilitatori di design thinking devono infatti saper valutare nel dettaglio ogni contesto e prospettare all’azienda una progettualità mirata a garantire risultati concreti nel minor tempo possibile, facendo tesoro della propria esperienza nel gestire ogni giorno situazioni che vedono le aziende alle prese con la ricerca creativa di soluzioni ai loro problemi legati all’innovazione. Oggi, sempre più spesso, accanto al design thinking nelle aziende iniziano a vedersi anche iniziative strutturate di futures thinking per approfondimenti rimandiamo all’articolo di approfondimento “Cos’è il futures thinking e come applicarne i principi” – ndr].

Scritto da:

Nicoletta Boldrini

Futures & Foresight Director | Direttrice Responsabile Tech4Future Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin