Dal mito di Pigmalione alle più recenti opere dell’industria dell’entertainment, la volontà di creare un uomo artificiale capace di pensare e agire come un uomo in carne ed ossa è sempre stata una costante dell’immaginario di fantascienza. I digital humans hanno rinnovato questa tendenza, anticipando le potenzialità e le problematiche spesso legate a tecnologie abilitanti ancora piuttosto acerbe.
L’idea di riprodurre l’uomo attraverso entità artificiali è insita nella cultura antropologica sin dai tempi antichi. È succeduta attraverso varie culture, in vari periodi storici, fino a giungere ai nostri giorni nello sfaccettato immaginario della fantascienza.
Scevra della sua componente tecnologica ed etimologica, la concettualizzazione di un’intelligenza artificiale era già in qualche modo presente nella mitologia greca e nel corso dei secoli successivi la volontà di voler creare umani sintetici ha molto spesso caratterizzato un modo per scoprire e mettere in evidenza i limiti della scienza e della tecnologia, stimolando la ricerca di nuove soluzioni per cercare di ricreare noi stessi. Si tratta di un desiderio spinto dalla volontà di raggiungere un obiettivo tuttora raggiungibile soltanto grazie all’immaginazione.
Una delle prime manifestazioni dell’umano sintetico viene riconosciuta nel mito di Pigmalione, un abile scultore, capace di creare una figura femminile tanto bella da innamorarsi perdutamente di essa, al punto che la dea Afrodite decise di trasformarla in una vera donna: Galatea. Non si trattava di un androide come lo concepiamo ora, ma il mito esprimeva la volontà di creare un umano sintetico non distinguibile rispetto alla controparte reale.
Nel corso dei secoli, è nata una vera e propria cultura della fantascienza, atta ad esplorare narrativamente una serie di invenzioni ai fini di immaginarne le potenzialità. Oggi i prodotti sci-fi sono diventati un vero fenomeno commerciale attraverso la letteratura, le arti figurative, il cinema e i videogame. La loro capacità di anticipare la visione del futuro è stata molto spesso fonte di ispirazione per lo stesso sviluppo tecnologico.
Nelle storie di fantascienza, gli umani digitali sono spesso contestualizzati come androidi o robot umanoidi realizzati per assistere l’uomo o sostituirlo nei compiti più gravosi, esattamente come avviene, nella controparte reale, grazie a tecnologie come la robotica. Molto spesso si tratta di figure non distinguibili dall’uomo, se non per il fatto di non provare dolore e di agire dei modelli di comportamento in qualche modo predeterminati. In altri casi, ci si spinge più là con l’immaginazione, prospettando un umano sintetico capace di provare emozioni simili a quelle degli esseri umani, a cominciare dall’avvertire quel sentimento di diversità che gli autori esprimono per introdurre nel racconto una serie di efficaci metafore e riflessioni di carattere etico.
Takeaway
Digital Humans nell’immaginario sci-fi: cinque opere da non perdere
Per avere una percezione concreta di come l’immaginario della fantascienza sia capace di anticipare la tecnologia nella capacità di ricreare l’uomo, prendiamo in rassegna sette opere iconiche della cultura sci-fi, che contestualizzano i digital human al centro del loro racconto.
Do android dream of electric sheep? (letteratura, 1968)
La prima opera selezionata non poteva che appartenere ad uno degli autori più influenti della letteratura di fantascienza: Philip K. Dick, i cui racconti hanno a loro volta ispirato le sceneggiature non originali di molti film e serie tv a tema sci-fi. L’immaginazione di Dick, nel lontano 1968, era capace di dare forma alle pagine di Do Androids Dream of Electric Sheep? , che ci narrano le vicende di Dick Deckard, un cacciatore di taglie incaricato di rintracciare e disattivare una serie di androidi replicanti, rei di essere fuggiti da una colonia. Lo scenario di futuro è contestualizzato in una avveniristica Los Angeles, dove i digital humans sono androidi utili a servire l’uomo in varie mansioni, che spaziano dal lavoro, alla collaborazione domestica, fino alla pratica sessuale.
Blade Runner (cinema, 1982)
I più attenti avranno certamente notato come il romanzo di Dick abbia direttamente ispirato un altro capolavoro sci-fi: il film Blade Runner. Tanto nel libro, quanto nel lungometraggio diretto da Ridley Scott, i digital humans sono androidi praticamente indistinguibili dagli esseri umani, al punto che Rick Deckard, intepretato da Harrison Ford, affronta cinicamente il proprio lavoro fino ad interrogarsi circa la vera natura dell’umanità, mentre lo spettatore arriva a dubitare sul fatto che lo stesso Deckard sia un umano o un replicante. La vicenda viene approfondita nel sequel Blade Runner 2049, prodotto nel 2017, con la regia di Denis Villeneuve e Ryan Gosling nel ruolo di protagonista.
Altered Carbon (letteratura, 2002)
In tempi a noi più prossimi rispetto al capolavoro di Philip K. Dick, va indubbiamente segnalato Altered Carbon, libro pubblicato nel 2002. La visione dello scrittore Richard Morgan immagina gli umani sfruttare la possibilità di trasferire la loro coscienza nei digital humans, in questo caso corpi sintetici che l’autore stesso definisce “sleeves”, schiavi che consentono all’intelligenza umana di vivere in eterno.
La vicenda principale vede la coscienza di un ex militare, Takeshi Kovacs, rinascere nell’evolutissimo corpo di uno sleeve dopo diversi secoli di sospensione forzata. Dotato di doti investigative e di combattimento fuori dal comune, Kovacs si ritrova ben presto ad essere il principale antagonista dell’ambigua organizzazione capitanata da un affarista privo di particolari scrupoli. Altered Carbon ha subito negli anni due riadattamenti ed ha ispirato un’apprezzata serie pubblicata su Netflix, di cui sono state finora prodotte due stagioni.
Ghost in the shell (anime, 1995)
Il tema del trasferimento della coscienza umana è comune ad altre opere di fantascienza, anche attraverso punti di vista differenti rispetto alle produzioni occidentali. Nella cultura giapponese spicca certamente l’anime Ghost in the Shell (1995), un autentico punto di riferimento sci-fi per quanto concerne la cibernetica. I protagonisti, il maggiore Kusanagi e Batou, appartengono ad una unità speciale della polizia in grado di trasferire le loro coscienze all’interno di corpi artificiali altamente potenziati. Ghost in the Shell descrive letteralmente l’anima umana (ghost) all’interno di una corazza (shell). Sulla scia dell’originale, nel 2017 è stato prodotto anche un omonimo lungometraggio, diretto da Rupert Sanders, che vede nel ruolo di protagonista Scarlett Johansson.
Her (cinema, 2013)
Tra le varie espressioni dei digital humans figurano le intelligenze artificiali, come nel caso di Her, il capolavoro di Spike Jonze, che vede quale protagonista un ispiratissimo Joaquin Phoenix, un uomo di mezza età che acquista un sistema operativo con interfaccia conversazionale femminile (voce originale di Scarlett Johansson), finendo per innamorarsene perdutamente.
Nella sceneggiatura originale dello stesso Jonze, il rapporto tra l’uomo e la macchina viene portato a livelli estremi, laddove l’intelligenza artificiale, grazie alle proprie capacità di apprendimento automatico, migliora sensibilmente la propria efficacia nel tempo, riuscendo ad emulare in maniera estremamente convincente i sentimenti di una persona vera, finendo per prevalere rispetto al suo proprietario.
Il film mette a nudo alcuni temi che sono già di stretta attualità, soprattutto grazie all’evoluzione delle tecnologie cognitive, in particolare quelle basate sul natural language process (NLP). Uno degli aspetti che colpisce maggiormente l’attenzione del pubblico è il fatto che il digital human riesca ad elaborare una quantità impressionante di dati in tempo reale, agendo in un contesto molto borderline, in cui arriva a definire una posizione conflittuale rispetto all’uomo per il quale, almeno in origine, è stata programmata per servire. Volendo offrire uno spunto provocatorio, si tratta di una condizione con cui le leggi della robotica di Isaac Asimov non sarebbero troppo d’accordo.
Ex-Machina (cinema, 2014)
Uscito a breve distanza rispetto a Her, Ex-Machina contribuì a rinnovare il dibattito sui digital humans, in particolare sugli androidi creati dall’uomo per soddisfare i suoi bisogni. La sorprendente opera esordiale di Alex Garland vede lo sviluppatore Caleb Smith (Domhnall Gleeson) dare vita ad Ava (Alicia Vikander), un’evolutissima intelligenza artificiale generale nel corpo di un robot umanoide che ben presto si evolve al punto di diventare molto di più rispetto a ciò per cui era stato originariamente concepito.
Oltre a conversare in maniera impeccabile, Ava arriva a manipolare con successo le emozioni del suo inventore, per soddisfare il desiderio di fuggire alla propria condizione originale e vedere il mondo esterno. Anche in questo caso, ci ritroviamo in una posizione assolutamente conflittuale rispetto alle leggi della robotica di Asimov.
Detroit: become human (videogiochi, 2018)
Ambientato nell’immaginaria Detroit del 2038, l’opera interattiva di Quantic Dream vede gli androidi della Cyberlife sostituire in varie mansioni gli umani che sono chiamati a servire. Tale condizione esprime da un lato il progresso tecnologico di una tecnologia emergente come la robotica, dall’altro si dimostra causa diretta del malcontento di quella vasta fascia della popolazione che ha di conseguenza perso il proprio lavoro.
Il videogioco consente di controllare uno dei tre androidi protagonisti per vivere storie differenti che evolvono seguendo una serie di bivi narrativi, capaci di condurre la vicenda verso finali alternativi, a seconda delle scelte che vengono effettuate e delle azioni che si intendono intraprendere.
Nella visione della Cyberlife, gli androidi sono programmati per eseguire gli ordini degli umani e non sono in grado di provare alcuna emozione o stanchezza fisica. Tuttavia, alcune macchine, classificate come “devianti”, imparano a manifestare sentimenti umani come paura e amore, agendo per iniziativa propria e sviluppando un profondo senso di ribellione.
I digital humans di Detroit: become human, per stessa ammissione della Cyberlife, non sono senzienti, ma l’evoluzione dell’intelligenza artificiale che li anima consente loro di agire in maniera praticamente indistinguibile rispetto all’uomo, prospettando una condizione che noi stessi potremmo essere chiamati a vivere nei prossimi anni, quando l’evoluzione della robotica e delle sue tecnologie accessorie consentiranno di raggiungere i risultati ipotizzati dall’autore David Cage, con tutti i pro e i contro del caso.
Dalla fantascienza alla realtà: i digital humans oggi
Dopo una full immersion nella fantascienza, viene naturale chiedersi a che punto siano i digital humans nel mondo reale. Sul fronte dell’intelligenza artificiale, prodotti come ChatGPT dimostrano che le interfacce conversazionali, per quanto acerbe nella loro effettiva implementazione, siano sempre più vicine ad offrire soluzioni credibili e funzionali nell’affiancare e sostituire l’uomo in molti contesti applicativi.
Digital humans e syntethic humans, nelle loro definizioni originali non si riferiscono direttamente alla controparte fisica (cosa ben diversa, dunque, dai digital twins), ma entità come androidi e robot umanoidi, quando mirano a ricreare l’umano, si avvalgono della maggior parte delle loro tecnologie abilitanti. Questo fattore porta a considerare anche la robotica e le tecnologie HMI (human machine interface), laddove la ricerca e le applicazioni, se ci si pone quale obiettivo la creazione di una macchina indistinguibile dall’uomo, hanno indubbiamente ancora molta strada da fare, soprattutto sul fronte hardware.
Il crescente interesse verso l’uomo sintetico ha spinto Gartner ad inserire i digital humans nell’ultima edizione del celebre hype cycle delle tecnologie emergenti (anno 2022), definendoli quali: “rappresentazioni interattive e AI- driven che hanno alcune delle caratteristiche, personalità, conoscenza e mindset del vero essere umano”. Gartner ha collocato i digital humans nel contesto delle tecnologie capaci di creare esperienze immersive nei mondi virtuali, affiancandoli, tra gli altri, a metaverso, Web3, NFT e identità decentralizzate.