La guerra è una dei metodi più efficienti per innovare. Se scorriamo gli ultimi secoli una buona parte delle innovazioni hanno visto la loro genesi grazie a scoperte in ambito militare: dinamite, internet, acciaio, ruota, morso dei cavalli etc. La crisi ucraina conferma quanto appena detto.
Il conflitto ha dimostrato il valore di sistemi di arma che, prima d’allora, erano stati dispiegati in conflitti a minor intensità come l’Afghanistan e l’Iraq, dove il confronto era tra un esercito regolare e ben strutturato (Usa) contro unità di fanteria leggera (Isis, Talebani, Al Qaeda) oppure un esercito menomato da anni di carenze (regolari iracheni). In Ucraina gli armamenti dei fornitori della Nato han avuto un’effettiva prova del fuoco con conseguenti aggiustamenti per futuri progetti (leggi guerre).
I Javelin della Raytheon e il sistema di difesa aerea dei missili Patriot han dimostrato la loro efficacia al pari dei HiMARS (High Mobility Artillery Rocket System). Egualmente è stato terreno di test per startups che hanno mostrato come le loro tecnologie di frontiera potevano essere utili per intercettare i droni iraniani Shahed, tracciare i movimenti delle truppe russe, analizzare le trasmissioni radio. La combinazione di tecnologie di grandi appaltatori e approccio low-tech di startup civili hanno permesso all’Ucraina di (quasi) reggere sino ad oggi l’invasione russa.
La crisi Ucraina è la miglior opportunità per gli appaltatori militari e civili occidentali di testare strategie e sistemi d’arma, in un modo economico, senza spargimento di sangue di elettori/cittadini occidentali.
Ovviamente il fenomeno delle startup civili che si “militarizzano” è piuttosto recente. Nelle ultime decadi il modello industriale capitalista occidentale ha fortemente spinto su approcci dove la valorizzazione delle commesse militari, diciamo lo sfruttamento, diviene il motore primario che spinge i fornitori della difesa a operare. Detta in altre parole a molti fornitori della difesa torna più utile partecipare a processi di innovazione eterni, con appalti ricchi di “aggiunte” che fanno lievitare i prezzi, piuttosto che innovazioni magari più economiche; il caso Bradley e il recente F35 sono esempli indicativi. Del resto, se consideriamo il solo Pentagono, quando c’è in ballo un budget (2023) di quasi 900$ miliardi, i fornitori han tutto l’interesse ad estrarre più soldi possibili, data l’abbondanza.
La carenza di innovazione, specialmente nel mondo del digitale, è tale che il Pentagono ha subappaltato la gestione del suo Cloud a differenti aziende privata come Amazon-Aws (storico fornitore di tutta la difesa e le agenzie di sicurezze occidentali), Microsoft e Google. Stante che i due principali acquisitori di tecnologie civili e militari, e relative innovazioni, sono il Pentagono e la Nato è importante comprendere come negli ultimi anni, in particolare nell’ultima decade in cui siamo entrati, questi due grandi compratori si stanno attivando per includere sempre più spesso soluzioni innovative civili a prezzi da saldo.
Pentagono e la valle dei siliciani
Se parliamo di innovazione americana doppiamo parlare del signor Ash Carter un anonimo signore di cui nessuno sa nulla, fuori dal giro del Pentagono. Nel 2001 (anno cruciale per l’aumento delle spese del Pentagono post 911) Carter pubblica un libro che spiega, detto in soldoni, che al Pentagono si devono dare una svegliata e riallacciare i rapporti con Silicon Valley. Lavora al Pentagono come direttore acquisti; di li comprende rapidamente che il sistema di acquisti della difesa Usa è un incubo burocratico. Nel 2015, Carter, come segretario della difesa, fa un viaggetto in Silicon Valley, in quella visita annuncia la creazione del Defense Innovation Unit per unire i siliciani digitali di Silicon Valley e il vetusto, ma decisamente ricco, Pentagono. Dal 2016 la neonata Defense Innovation Unit inizia a smazzare contratti per progetti innovativi in ogni settore: veicoli stampati in 3D per i Marines & friends, tecnologie per addestramento virtuale simulato per i piloti della Air Force, tecnologie orbitali satellitari, sviluppo di nuove certificazioni per configurazioni di nuovi aerei da guerra, tecnologie per rifornimento in zone di guerra per la Air Force, tanto per citare alcuni casi. La Defense Innovation Unit ha inoltre lancia la the Kessel Run Software Development Organization (non vi sto a dire Kessel da dove nasce…) e definisce nuove regole per la certificazione e approvazione di droni civili per uso militare. Tra i primi vincitori di questa ventata di innovazione ricordiamo gli unicorni della difesa come Shield AI e Anduril Industries che han portato a casa contratti pesanti dalla Defense Innovation Unit (DIU). Dal 2016 al 2022 la DIU sgancia contratti per oltre 1,2$ miliardi ad aziende civili le cui tecnologie possono risolvere problemi militari. Nello stesso periodo circa 5$ miliardi sono stanziati per prodotti sviluppati da aziende che hanno creato prototipi funzionanti nei test fatti con la DIU. Da ottobre 2021 a settembre 2022 10 aziende che han ricevuto contratti di prototipazione da parte della DIU sono state transate a contratti con valore superiore ai 10$ milioni.
Anche l’aviazione, ispirata dai successi della DIU, ha creato un’unità di innovazione chiamata AFWERX, guidata da Will Roper. La AFWERX insieme ad altre aggregazioni simili, come la Army Applications Laboratory e la Defense Advanced Research Projects Agency hanno imparato a usare dei fondi speciali chiamati Small Business Innovation Research Grants. L’utilizzo di questi “piccoli fondi”, insieme ad altri fondi di minor entità, ha permesso di snellire le procedure per lo stanziamento di soldi e acquisizione di prototipi nei confronti di startup che, diversamente con l’elefantiaca burocrazia militare, non avrebbero mai messo naso nel Pentagono con le loro innovazioni e le loro ricerche.
Per il 2024 il nuovo Department of Defense Appropriations Act ha rapporto allegato che raccomanda che alla DIU sia data autorità di acquisto per investimenti che superino il miliardo di dollari. Nel documento 2024 National Defense Authorization Act esiste una specifica sezione (925), in cui si danno maggiori poteri alla DIU su tutto il settore delle innovazioni non tradizionali. Detta in modo semplice: “startup venite a noi che abbiamo soldi da spendere!”
Molti i fondi e gli investimenti per l’innovazione militare
Anche nella Nato, organismo di difesa (l’alleanza ha compiuto numerose missioni di pace volte alla difesa del suo territorio: Libia, Afghanistan, Iraq etc..) sono a corto di innovazione e ci han messo una pezza, anzi due. Da ormai un anno è attivo un’Innovation Fund di 1€ miliardo. Stante le dichiarazioni Stoltenberg il fondo multi-nazione investirà in startup e altre entità che operano in tecnologie deep-tech: robotica, quantistica, genetica etc.. questo progetto è parallelo a DIANA, l’altro fondo di innovazione della NATO che vede una crescente integrazione di tecnologie dual use in ambito bellico.
Il NATOIF (Innovation Fund) investirà direttamente in startup early stage. Il gruppo di paesi principali investitori include U.K., Germania Svezia e gli altri membri con portafoglio variabile a seconda delle contribuzioni nazionali. I Venture Capital (VC) interessati in tecnologia della difesa, che vanno dalle IA alle scienze quantistiche sino a Biotech e robotica, sono cresciute molto in questi anni. In particolare la crisi ucraina e la corsa tecnologica in atto tra Cina e Usa hanno dimostrato che un avanzamento delle tecnologie belliche sono necessarie per la pace. Solo l’anno scorso sono stati investiti nel settore dai VC (in Eu e Usa) poco meno di 34$ miliardi con Anduril, e Skydio tra i campioni per investimenti.
Dual Use il futuro della guerra al risparmio
Il tema investimenti dovrebbe essere considerato alla luce del concetto di Dual Use. Detto in modo semplice un prodotto DU è una cosa che può avere applicazioni sia civili che militari. Per far un esempio i camion dell’Iveco che servono a portare merci sono state adattate dagli iraniani per portare missili (a insaputa dell’Iveco che non avrà letto le specifiche della commessa, si intende). Ovviamente, come la crisi ucraina ha dimostrato, uno dei settori vincenti per le nuove tecnologie DU saranno i droni e tutta la filiera software hardware che questa piattaforma porta con sé. I droni specificamente militari, in particolare quelli di Usa e Cina, sono droni strategici (come il global Hawks e l’equivalente cinese appena presentato ai media) costosi, per operazioni specifiche, la cui flessibilità, in termini di impiego, è piuttosto limitata.
Sempre più andando avanti nei decenni i droni saranno lo strumento principe della guerra: sempre più piccoli, utili come ricognitori, bombardieri tattici, supporto di fuoco e kamikaze. La tecnologia dei droni civili militarizzata è un esperimento di successo sviluppato prima di tutti dall’Isis che adattava droni alla buona da mandare contro i soldati americani in Iraq e Siria. Gli americani han imparato la lezione ma è solo grazie alla disponibilità a basso costo dei droni cinesi Dji che la guerra economica è decollata. Tanto è il successo di questi droni civili per uso militare che, una volta accortasi (tempismo perfetto, si direbbe) la Cina ha deciso a inizio agosto di ridurre l’esportazione di questi droni in Ucraina. Le applicazioni militari dei droni civili, una volta magnificate da nuovi software sviluppati da startup civili, fornitori della difesa, porteranno la guerra ad un altro livello. Ovviamente i droni sono solo il primo passo, le startup che Nato e Pentagono stanno inglobando nel sistema bellico, hanno all’attivo studi in vari settori dalla biotecnologia ai sistemi di calcolo quantistico, solo il tempo ci dirà quali bellezze creative gli startupper (gente con una profonda etica, e per nulla interessati al guadagno facile alla Zuckerberg) potranno creare per il bene dell’Occidente, e dell’umanità in generale.