Due ricerche, pubblicate proprio all’inizio di questo anno, aprono nuove prospettive per la risoluzione di uno dei problemi più critici nel settore tessile: la separazione dei componenti plastici dai tessuti misti

Nel settore tessile, e in quello della moda in particolare, i temi della sostenibilità e della circolarità rappresentano una vera e propria spina nel fianco.

Stiamo parlando di un settore con un impatto ambientale significativo, principalmente a causa della sovrapproduzione e del sovraconsumo.

I numeri parlano chiaro. Secondo i dati raccolti dall’UNEP (United Nation Environment Programme), Global Fashion Agenda ed Ellen McArthur Foundation, ogni anno, nel mondo. si producono qualcosa come 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, 20 milioni dei quali in Cina e 17 negli Stati Uniti.

Se 92 milioni di tonnellate non fosse una cifra sufficiente a dare l’idea del problema, potremmo aggiungere che vestiti e tessili costituiscono almeno il 7% del totale dei rifiuti presenti nelle discariche globali.

Nonostante ciò, ogni anno vengono prodotti in tutto il mondo tra gli 80 e i 100 miliardi di nuovi capi di abbigliamento. Capi che col tempo andranno ad alimentare l’imponente montagna di rifiuti tessili, in un circolo tutt’altro che virtuoso.

Il punto è che l’87% dei materiali e delle fibre utilizzati per produrre abbigliamento è destinato a finire in inceneritori o discariche, che solo il 20% dei tessuti scartati viene raccolto per il riutilizzo o il riciclo e che solo l’1% dei vestiti viene riciclato in nuovi indumenti, mentre la maggior parte dei tessuti riciclati finiscono per essere “downcycled” in prodotti di valore inferiore. Ma non basta.

Sempre secondo le analisi, ben più della metà di tutti i materiali tessili è sintetico, costituito cioè da fibre plastiche come nylon, acrilico e poliestere, contribuendo significativamente all’inquinamento da microplastiche.

Per altroed è questo un aspetto sul quale raramente ci si sofferma, ogni lavaggio di un capo sintetico rilascia microfibre di plastica nell’acqua. Parliamo di centinaia di migliaia di tonnellate di microplastiche che finiscono ogni anno negli oceani: quasi il 60% dei rifiuti presenti negli ambienti marini è composto da fibre di abbigliamento non biodegradabili.


Il settore tessile e della moda è responsabile della produzione annuale di circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, con un notevole impatto ambientale dovuto principalmente alla sovrapproduzione e al sovraconsumo. Questo problema è aggravato dall’uso crescente di materiali sintetici, contribuendo significativamente all’inquinamento da microplastiche.
Nonostante l’interesse crescente per la sostenibilità tra i consumatori, vi sono numerosi ostacoli che impediscono l’adozione di modelli circolari nel settore tessile, inclusi processi di raccolta e riciclo costosi e complessi, difficoltà nel separare i materiali misti e la mancanza di tecnologie efficaci per il riciclo su larga scala.
La ricerca condotta da un team dell’Università di Aarhus, in Danimarca, ha sviluppato una tecnologia capace di separare i tessuti misti, superando uno degli ostacoli maggiori al riciclo efficace dei tessuti. Questa innovazione, cui si affiancano anche gli studi sulle proteine capaci di degradare i polimeri nei tessuti condotti dal MIT, rappresenta un passo avanti significativo verso soluzioni più sostenibili per ridurre l’inquinamento da microplastiche e promuovere la circolarità nell’industria della moda.

Perché è difficile praticare la circolarità nel settore tessile

A proposito di sostenibilità del settore tessile, secondo The Sustainable Fashion Forum, sono ancora molti gli ostacoli da superare, nonostante un crescente interesse per i temi della sostenibilità da parte dei consumatori, che dovrebbe spingere le aziende a impegnarsi in iniziative ecologiche e a perseguire modelli circolari, che mirano a eliminare i rifiuti progettando capi con materiali riciclati, riducendo l’uso delle risorse naturali ed evitando che i prodotti vengano indirizzati alle discariche.

La raccolta di capi per il riciclo è ostacolata da processi laboriosi e costosi, dalla difficoltà di separare materiali misti e dalla mancanza di etichette sui tessuti a fine vita.

Le opzioni di riciclo si dividono in meccaniche e chimiche, entrambe con vantaggi e svantaggi, ma l’innovazione tecnologica necessaria per riciclare i vestiti in nuovi capi su larga scala rimane un obiettivo costoso e non ancora raggiunto.

Sostenibilità del settore tessile: un aiuto importante dalla chimica

In tema di sostenibilità del settore tessile, buone notizie arrivano però dalla Danimarca, dove un gruppo di ricercatori sembra aver trovato la chiave che potrebbe cambiare lo scenario in modo radicale.

Un team di ricerca guidato dal Professor Steffan Kvist Kristensen presso l’Interdisciplinary Nanoscience Center dell’Università di Aarhus, in Danimarca, ha sviluppato una tecnologia innovativa che sembrerebbe superare proprio l’ostacolo rappresentato dalla difficoltà di separare i tessuti misti.

La ricerca, pubblicata su Green Chemistry e ripresa anche dal World Economic Forum proprio per il carico di promesse che porta con sé, si è posta l’obiettivo di arrivare alla separazione delle fibre tessili, dunque compiendo un passo avanti nel riciclo efficiente di questa tipologia di materiali.

Parliamo di una tecnologia brevettata: di questa tecnologia, l’Università di Aarhus è comproprietaria del brevetto (il numero WO2023194469), che copre il processo per la scomposizione dell’elastan, sviluppato nell’ambito di un progetto di ricerca per la scomposizione del poliuretano, che è il materiale principale con cui si realizza la schiuma per materassi e divani. Spiega Stefan Kristensen:

«Abbiamo sviluppato un metodo per rimuovere completamente l’elastan dal nylon. Non siamo invece ancora completamente riusciti con il cotone, poiché alcune fibre di cotone si rompono nel processo. Tuttavia, crediamo che, con alcuni aggiustamenti minori, possiamo risolvere anche questo problema»

Cosa è l’elastan

L’elastan, noto anche come Lycra o spandex a seconda dei Paesi, è un tessuto sintetico rinomato per la sua particolare elasticità.

Inventato negli anni ’50, le radici dell’elastan risalgono al 1937 in Germania quando, nei laboratori Otto Bayer, fu sviluppato per la prima volta il poliuretano, il polimero da cui l’elastan fu poi derivato.

In quegli anni e, in particolare, durante la Seconda guerra mondiale, il poliuretano fu utilizzato per una varietà di applicazioni, inclusi rivestimenti per aerei e come sostituto della gomma. Tuttavia, fu solo dopo la fine del conflitto che la DuPont Corporation riconobbe il potenziale del poliuretano per produrre tessuti estremamente elastici, portando alla creazione dell’elastan.

Negli anni, questo materiale ha conosciuto sempre più ampia diffusione e oggi è ampiamente utilizzato in una vasta gamma di indumenti, dagli indumenti intimi conformabili fino all’abbigliamento sportivo e ai costumi da bagno, grazie alla sua capacità di fornire elasticità e alla sua capacità di adattarsi alla forma del corpo.

L’elastan è un componente chiave anche in calze, indumenti da lavoro e persino nelle tute per il motion capture utilizzate nell’industria cinematografica: gli attori indossano le tute davanti a uno schermo verde e le caratteristiche di aderenza dell’elastan permettono di scolpire le apparenze 3D sulle immagini catturate.

Il rovescio della medaglia, rispetto a tutti questi aspetti positivi, riguarda proprio l’impatto ambientale e il carbon footprint dell’elastan. Poiché i componenti principali di questo tessuto sono formulati in laboratorio, l’acquisizione delle materie prime per l’elastan non è considerata un processo degradante per l’ambiente. Tuttavia, il processo di produzione di questo tessuto è ad alta intensità energetica e comporta l’uso di una serie di sostanze chimiche tossiche che, se non vengono smaltite correttamente, possono danneggiare l’ambiente.

Soprattutto, e veniamo allo scopo della ricerca, gli indumenti realizzati con tessuto elastan non sono biodegradabili.

Sostenibilità del settore tessile: come separare l’elastan dal nylon

Per capire quali siano le criticità, bisogna partire dalle caratteristiche del materiale stesso.

L’elastan è un materiale elastico, composto da lunghe catene di molecole attorno alle quali vengono intrecciate altre fibre tessili, come il nylon o il cotone. Una volta tessuto insieme ad altre fibre, la separazione diventa difficile.

Il team di ricerca dell’Università di Aarhus spiega come le catene molecolari dell’elastan siano tenute insieme da una piccola molecola chiamata “diamina

«Il metodo che abbiamo messo a punto per separare l’elastan dalle altre fibre – spiega Steffan Kvist Kristensen – richiede il riscaldamento dei tessuti a 225 gradi Celsius e l’aggiunta di alcol e di una base di idrossido di potassio. L’idrossido di potassio è uno dei principali componenti dei normali detergenti per scarichi. Abbiamo scoperto che aggiungerlo accelera il processo e, di fatto, aumenta la velocità della reazione chimica».

Questo processo rompe i legami chimici dell’elastan, causando la disgregazione delle sue lunghe catene molecolari e permettendo così la separazione dei materiali.

Tutto il processo, spiega ancora Kristensen, si svolge in una sorta di grande pentola a pressione, in cui i tessuti vengono inseriti insieme all’alcol e all’idrossido di potassio, e poi riscaldati.

Dopo circa quattro ore di “cottura”, i materiali vengono separati, facilitando notevolmente il riciclo dei tessuti che, altrimenti, sarebbero difficili da smaltire in modo ecocompatibile, evitando l’uso di sostanze chimiche aggressive.

Nel presentare i risultati ottenuti dal gruppo di lavoro, Kristensen sottolinea anche come, finora, questa tecnologia sia stata testata su piccola scala, utilizzando cioè un quantitativo minimo di tessuto per volta: nella sostanza, un paio di calze.

Si tratta in ogni caso di una tecnologia replicabile su scala industriale. Non è un caso che il team danese strizzi l’occhio alla vicina Germania che, con la sua solida tradizione di aziende chimiche, potrebbe implementarla su più larga scala, aprendo dunque la strada al riciclo di grandi quantità di fibre da capi contenenti elastan, favorendo così una maggiore sostenibilità del settore tessile.

Un aiuto dalle proteine

Analogo è l’ambito di ricerca sul quale si sta concentrando un team del Massachusetts Institute of Technology (MIT) guidato da Furst Lab.

Il Laboratorio Furst utilizza strumenti di ingegneria elettrochimica, biologica e dei materiali per esplorare il trasferimento di elettroni nelle interfacce abiotiche-biotiche. I risultati di questa ricerca vengono poi applicati nello sviluppo di tecnologie a basso costo e facili da usare per la salute umana, la bonifica ambientale e la sostenibilità, basate sulla comprensione dei processi redox biologici.

Sul tema specifico della sostenibilità del settore tessile, contro l’inquinamento da microplastiche originato dai tessuti sintetici, il team di Ariel Furst si è concentrato sull’identificazione di proteine capaci di degradare i polimeri presenti nei tessuti.

In questo caso, il processo sfrutta proteine selezionate, letteralmente per “smantellare” i tessuti. Queste proteine sono in grado di attaccarsi ai polimeri non di cotone e degradarli prima che rilascino microplastiche nell’ambiente.

Secondo i risultati della ricerca in laboratorio, mediante l’utilizzo di queste proteine gli indumenti possono essere decomposti in sole due settimane.

Si tratta di una metodologia che apre la porta anche al riutilizzo di altri materiali, come pesticidi e prodotti chimici per il trattamento dell’acqua, utilizzando concetti simili basati sull’impiego di microrganismi inerti capaci di degradare sostanze chimiche nocive.

Nel processo definito da Furst, un ruolo importante spetta anche all’intelligenza artificialedeterminante per modellare e ottimizzare questo processo di riciclo. Attraverso l’uso di modelli AI complessi, è possibile organizzare in maniera efficiente i flussi di rifiuti e abbinarli alle soluzioni di riciclo più adatte.

Glimpses of Futures

Cerchiamo ora di analizzare – in una prospettiva futura e secondo i criteri rappresentati dalla matrice STEPS – l’importanza di questo tipo di studi in tema di sostenibilità del settore tessile.

S – SOCIAL: l’impatto sociale della sostenibilità nel settore fashion sta diventando sempre più evidente, spinto da una crescente consapevolezza dei consumatori riguardo le conseguenze ambientali e sociali delle loro scelte di acquisto. C’è un ruolo importante dei consumatori in questa crescente domanda di moda sostenibile che si traduce in una richiesta di pratiche etiche lungo tutta la catena di approvvigionamento, incluse condizioni di lavoro sicure e pratiche di commercio equo. Gli operatori del comparto cominciano a comprendere l’importanza di un impegno diffuso verso tematiche di responsabilità sociale, trasparenza e sostenibilità. Iniziative come l’upcycling e l’economia circolare non solo riducono gli sprechi tessili, ma contribuiscono positivamente alla società e all’ambiente.

T – TECHNOLOGICAL: in questo servizio abbiamo acceso un riflettore su come chimica e biotecnologie possano aiutare nella risoluzione di uno dei problemi più gravi nel settore tessile e della moda: lo smaltimento di tessuti misti. In realtà, sempre nell’ambito dello smaltimento e gestione dei rifiuti, un importante aiuto potrebbe venire anche dalla robotica. Sono in sviluppo robot capaci di riconoscere e selezionare i rifiuti in base al materiale di cui sono composti. Questi robot, equipaggiati con telecamere avanzate e sistemi di computer vision, utilizzano l’intelligenza artificiale per analizzare le proprietà visive dei rifiuti, come colore, forma e pattern superficiali. Queste informazioni sono poi elaborate da un programma che identifica il tipo di rifiuto e coordina un braccio robotico per separare i materiali.

E – ECONOMIC: le ricerche di cui abbiamo parlato in questo articolo sottendono a un importante passaggio da una economia lineare a una economia circolare nel settore della moda. Non si tratta solo di una svolta ambientale, ma anche di una opportunità economica significativa. Nell’economia lineare, le aziende del comparto utilizzano materie prime, inclusi materiali sintetici, per la realizzazione di prodotti che terminano il loro ciclo di vita una volta dismessi dai consumatori. Questo modello comporta gravi ripercussioni ambientali, come l’esaurimento delle risorse e l’inquinamento. La transizione verso un modello circolare, come ipotizzato già due anni fa da McKinsey, e promosso dall’Ellen MacArthur Foundation, incoraggia l’uso di materiali sostenibili, riutilizzabili e a minore impatto di CO2. Questa trasformazione non solo mitiga l’impatto ambientale, ma apre le porte a un’opportunità economica da 560 miliardi di dollari, con il potenziale di crescere fino a 700 miliardi di dollari entro il 2030.

P – POLITICAL: mentre il mondo della ricerca si sta muovendo per risolvere problemi tecnici, i legislatori, sia in Europa, sia negli Stati Uniti sono al lavoro per definire regolamenti che estendono la responsabilità dei marchi di moda per coprire gli impatti lungo l’intero ciclo di vita e la catena di approvvigionamento dei loro prodotti. In particolare, attraverso l’EU EPR for Textiles, ovvero la responsabilità estesa del produttore, si punta a migliorare il riciclo dei vestiti e la gestione dei rifiuti, garantire che i marchi paghino i costi del danno ambientale e della gestione dei rifiuti risultanti dalle loro attività. Questo approccio dovrebbe anche assicurare pratiche eque e giuste in tutta l’industria, specialmente nei confronti dei partner nei paesi a basso reddito, che subiscono gli effetti negativi delle cattive condizioni di produzione e dell’inquinamento ambientale.

S – SUSTAINABILITY: il report Unfit, Unfair, Unfashionable, sottolinea come, dal 2000 a oggi, il consumo di abbigliamento, calzature e accessori sia raddoppiato, mentre i prezzi sono diminuiti costantemente, rendendo la moda più accessibile ma anche più usa e getta. Questo fenomeno ha portato come conseguenza a una diminuzione del tempo di utilizzo dei capi. L’aumento del volume di consumo, abbinato a una riduzione del tempo di uso, contribuisce significativamente all’impatto ambientale del settore. La sola Unione Europea, secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA), produce ogni anno 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, la maggior parte dei quali viene bruciata, esportata o finisce in discarica. L’abbigliamento e le calzature, da soli, rappresentano 5,2 milioni di tonnellate, pari a 12 kg di rifiuti per persona ogni anno. Solo il 22% di questi rifiuti viene raccolto separatamente per essere riutilizzato o riciclato. Quanto basta per rendere non solo interessanti ma anche auspicabili tutte le iniziative volta da un lato a modificare i modelli economici, dall’altro a trovare soluzioni tecnologiche mirate alla risoluzione dei problemi più critici legati ai materiali.

Scritto da:

Maria Teresa Della Mura

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin