L’utilizzo della realtà virtuale in ambito terapeutico vede un numero crescente di applicazioni, tra cui quelle che mirano a migliorare la qualità della vita delle persone colpite da varie forme di demenza e delle persone chiamate ad assisterle lungo il loro difficile percorso. In attesa di una cura, si aprono numerosi scenari di speranza.
TAKEAWAY
- In attesa di farmaci in grado di arrestare il processo degenerativo, vi sono vari studi e applicazioni che, pur in assenza di prove certe, prospettano come la VR possa generare effetti positivi sulle persone con moderate disabilità cognitive e demenza.
- Grazie al supporto della realtà virtuale, negli ultimi anni sono stati sviluppati progetti importanti per cogliere i sintomi precoci della demenza, e migliorare la qualità della vita dei pazienti, oltre a una serie di sperimentazioni cliniche, come quella condotta al prof. Jim Ang dell’Università di Kent.
- Un’ulteriore fronte di ricerca è rappresentata da progetti come Into D’mentia e A walk through dementia, finalizzati a fare conoscere ad assistenti e familiari cosa provano i soggetti colpiti da demenza, in modo da generare un solido senso di empatia, agevolando il loro complesso lavoro di supporto.
Il deficit cognitivo – detto anche “deterioramento cognitivo” o “declino cognitivo” – è il sintomo primo della forma generica di demenza, in cui le capacità di attenzione, concentrazione, memoria, orientamento e ragionamento sono compromesse in modo irreversibile, con gravi ripercussioni sul paziente e sulla sua famiglia.
L’utilizzo della realtà virtuale in ambito terapeutico vede un numero crescente di applicazioni, tra cui quelle che mirano a migliorare la qualità della vita delle persone colpite da varie forme di demenza e delle persone chiamate ad assisterle.
Esperienze immersive e deficit cognitivo: la grande speranza in attesa di una cura efficace
In attesa che la ricerca riesca ad individuare dei farmaci in grado di arrestare il processo degenerativo, vi sono vari studi e applicazioni, pubblicati da BMC Psychiatry che prospetterebbero, pur in assenza di prove certe, come la realtà virtuale possa generare effetti positivi sulle persone con moderato deficit cognitivo e demenza.
In particolare, vengono rilevati “small to medium effects” nei miglioramenti relativi a funzioni come la cognizione e la forma fisica, con l’indicazione che il proseguimento degli studi potranno generare una banca dati sufficiente per redigere delle linee guida per i trattamenti in realtà virtuale per i pazienti affetti da declino cognitivo.
Nel 2020 la popolazione mondiale affetta da demenza è stata quantificata sui 47 milioni, che secondo alcune previsioni potrebbero diventare ben 75 milioni entro il 2030. Si tratta di numeri importanti anche per quanto concerne la cura e l’assistenza di queste persone. Già nel 2015, il World Alzheimer Report stimava un impatto economico complessivo nell’ordine di circa mille miliardi di dollari.
Tra gli studi più celebri di recente pubblicati, figura quello diretto dal prof. Jim Ang, della University of Kent: Proceedings of the SIGCHI Conference on Human Factors in Computing Systems.
Si tratta di un piccolo studio, molto interessante per la sua metodologia, condotto su soli 8 pazienti di età variabile tra i 41 e gli 88 anni, affetti principalmente da Alzheimer. Tutti i soggetti sono stati sottoposti ad una serie di sessioni in VR basate sulla visita di cinque ambienti virtuali: una cattedrale, una foresta, una spiaggia sabbiosa, una spiaggia rocciosa e un paesaggio di campagna, valutando con attenzione ogni feedback.
Tutti i pazienti hanno riscontrato uno stimolo nel ricordo di esperienze passate, fornendo dati utili anche ai loro assistenti per conoscere le esperienze precedenti la malattia e cercare un maggior livello di interazione sociale.
In particolare, dopo le sessioni in VR, si sono rilevati episodi significativi basati sulla memoria. Nel contesto di un’esercitazione d’arte, un paziente avrebbe infatti disegnato con sorprendente accuratezza uno dei cinque scenari. Altri pazienti avrebbero manifestato la preferenza per un ambiente in particolare, ripetendo la visita virtuale nella stessa scena. Tutti elementi che testimonierebbero una generale influenza positiva della realtà virtuale sullo stato mentale di queste persone.
Gli studi di Jim Ang si collocano in una fase iniziale e necessitano di ulteriori riscontri per poter validare questi risultati, ma gli inizi sono stati decisamente promettenti, come lo stesso ricercatore ha ammesso nei comunicati stampa legati agli avanzamenti:
“La realtà virtuale può sicuramente avere effetti positivi per i pazienti con deficit cognitivo e demenza, le loro famiglie e i loro assistenti. È in grado di generare un evidente miglioramento della qualità della vita, con molti risvolti favorevoli. Con una ulteriore ricerca sarà possibile valutare più nel dettaglio quali sono gli elementi che producono questi benefici, in modo da sviluppare applicazioni in realtà virtuale ancora più efficienti”
Tra i miglioramenti della qualità della vita riscontrati dal prof. Jim Ang vi sarebbe soprattuto una funzione “anti depressiva”, che risulterebbe evidente grazie alla diminuzione dei suoi sintomi più ricorrenti: ulteriore declino cognitivo, ansia, scarsa motivazione, isolamento sociale e reazioni aggressive nei confronti delle altre persone.
Tra le migliorie su cui Ang spera di poter contare in futuro vi è la personalizzazione per il target analizzato: “La tecnologia potrebbe essere progettata per essere ancora più accessibile e user friendly per la popolazione anziana, in modo da poter soddisfare anche le loro specifiche esigenze”, sostenendo che non sarebbe affatto vero che gli anziani siano poco inclini a utilizzare la tecnologia, ribadendo inoltre, in maniera decisamente esplicita, come l’obiettivo del suo lavoro non si indirizzi verso lo studio degli effetti della VR sulla memoria: “Ciò che ci interessa davvero – conclude Ang – è il benessere e il divertimento di queste persone”.
In particolare sarebbe necessario trasferire l’esperienza della “vita di sempre” all’interno dell’ospedale, un obiettivo possibile grazie alle possibilità simulative della realtà virtuale, capace di ricreare scenari e situazioni familiari anche per i pazienti costretti al ricovero presso residenze dedicate ai non autosufficienti.
Per quanto concerne l’esposizione, Ang ha rilevato come sia necessario procedere con estrema cautela, iniziando con sessioni in VR dalla durata di pochi minuti, in quanto è molto complesso valutare gli effetti collaterali soprattutto sui pazienti più gravi, per via della difficoltà nella comunicazione. Nonostante la limitata esposizione, gli effetti positivi sarebbero comunque già particolarmente evidenti.
Ci sono inoltre alcune app, come LookBack, ImmersiCare o Rendever che consentono di provare anche domesticamente questo genere di esperienze con i propri famigliari, ma secondo Ang gli studi in merito non sarebbero ancora sufficientemente approfonditi al punto da consentire la loro prescrizione medica, mentre non ci sarebbero a suo avviso problemi a consigliare un trattamento per periodi molto limitati.
Una sensazione di generale prudenza è manifestata anche da altri studiosi attivi nella ricerca sugli stessi temi, come la dottoressa Lora Appel, che ha rivelato a Healthline come: “Il potenziale della VR è davvero enorme e ci sono grandi speranze all’interno della comunità medica, ma siamo veramente agli inizi, è presto per tirare qualsiasi conclusione”.
In particolare, non ci sarebbero ancora pubblicazioni attendibili che comprendano valutazioni sistematiche, così come non vi è alcuna prova evidente che la VR sia in grado di generare effettivamente dei benefici sui pazienti, anche se le stesse applicazioni condotte dalla dottoressa Appel in ambito ospedaliero confermerebbero le impressioni rilevate dal prof. Ang in merito al miglioramento della qualità della vita.
Anticipare il deficit cognitivo con la navigazione in realtà virtuale
Tra le esperienze più significative messe a punto negli ultimi anni per la ricerca contro deficit cognitivo e demenza ritroviamo senza dubbio il gioco Sea Hero Quest VR.
Prodotto da Alzheimer’s Research UK e sviluppato da Glitchers, in collaborazione con Deutsche Telekom e alcuni atenei britannici, il videogioco consente di collezionare dati relativi al senso di orientamento dell’uomo impegnato nella navigazione per mare. L’ambito di ricerca riguarda un campione molto vasto e variegato, che va dall’individuo assolutamente sano ed asintomatico ai soggetti che manifestano alcuni sintomi della demenza, pur in fase assolutamente iniziale.
Il confronto dei dati di utilizzo, sotto forma di heatmap, consente di individuare le deviazioni ed i relativi deficit nell’orientamento tra i pazienti affetti da deficit cognitivo e demenza. Uno degli aspetti più sorprendenti della ricerca è stata la scoperta di come la realtà virtuale sia in grado di rivelare in netto anticipo le possibili manifestazioni future della malattia, anche tra soggetti del tutto asintomatici, che altrimenti non si sarebbero mai accorte di questa eventualità. Alcune “anomalie” nella navigazione potrebbero infatti far scattare un possibile segnale d’allarme.
Secondo il prof. Micheal Hornberger, che ha diretto alcune fasi della ricerca: “La realtà virtuale consente di accorgersi di variazioni anche molto lievi rispetto al quadro di normalità, ben prima che le persone inizino a manifestare la demenza. Ad esempio, tendono a guardarsi attorno molto più spesso quando non sono più sicuri del proprio orientamento”.
Progetti come Sea Hero Quest VR sono la base da cui partire per un’indagine sempre più approfondita negli anni a venire. Secondo Hornberger infatti:
“La realtà virtuale potrà essere facilmente utilizzata per la diagnosi e la riabilitazione. Il suo utilizzo è talmente intuitivo che ci consentirà di valutare i potenziali pazienti sempre meglio, identificando i problemi che incontrano nella loro vita quotidiana. Allo stesso modo ci darà molto di testare come i trattamenti farmacologici stiano influendo sui pazienti stessi. Quando avremo a disposizione dei farmaci almeno in grado di arrestare la malattia, la realtà virtuale avrà un ruolo fondamentale nella riabilitazione, per re-imparare alcune facoltà, a partire dall’orientamento”
Considerando sia la versione normale su mobile che la versione in VR, Sea Hero Quest ha collezionato una mole di dati molto significativa, diventando di fatto il primo vero benchmark di rilievo sull’orientamento umano. Dal suo lancio, avvenuto nel 2016, circa 4 milioni di persone in 200 paesi del mondo hanno provato l’esperienza, contribuendo per ciò che si stima essere l’equivalente di 15.000 anni di pura ricerca in laboratorio.
The Way Back: una serie in VR contro l’Alzheimer
Uno dei momenti più difficili da superare per le famiglie che convivono con l’Alzheimer è senza dubbio il deficit cognitivo grave, con perdita del linguaggio, associata alla difficoltà di riconoscere persino i propri cari, nelle fasi più avanzate della malattia.
Per cercare di prevenire questo stato, la realtà virtuale può sfoderare l’arma del ricordo, attraverso un racconto che rievoca gli anni migliori della vita di un anziano colpito da Alzheimer.
Proprio questo aspetto ha spinto il produttore inglese Dan Cole a finanziare una serie in VR: The Way Back che ha, quale obiettivo, fare rivivere i momenti più iconici della storia britannica, come l’incoronazione di Elisabetta II, tuttora al trono, avvenuta il 2 giugno 1953 o il mitico mondiale di calcio del 1966, vinto in casa dall’Inghilterra capitanata da Bobby Moore.
La finale contro la Germania venne decisa dal famoso gol “fantasma” di Geoff Hurst, autore nell’occasione di una storica tripletta, impresa tuttora ineguagliata nella massima competizione mondiale.
Oggi ottantenne, il leggendario attaccante del West Ham ha accettato con entusiasmo di partecipare alle riprese di The Way Back ed essere testimonial di un’iniziativa che ritrae moltissimi momenti di repertorio, con i tifosi nei pub ed altri straordinari ricordi in puro mood british anni ‘60: “Le immagini di questo film – sostiene Hurst – sono eccezionali, aiuteranno sicuramente molte persone a rivivere quei momenti”.
È piuttosto noto come i pazienti con Alzheimer abbiano problemi sulla memoria breve, mentre tendono a ricordare, o comunque a riconoscere situazioni accadute quando si trovavano nel pieno delle loro facoltà mentali.
Secondo Dan Cole, che ha vissuto direttamente la situazione con suo padre: “Per esperienza personale, sappiamo come nell’Alzheimer una delle cose più dure sia la difficoltà nel conversare, che peggiora con l’avanzare della malattia. Quando ti rivedi nei vecchi video o ascolti la musica del passato si può riaccendere quella scintilla. Il nostro obiettivo è quello di creare qualcosa che aiuti a stimolare le conversazioni tra i malati e i loro cari. Il nostro progetto è stato possibile grazie alla straordinaria generosità di tantissime persone, che ringrazio di cuore”.
Un viaggio attraverso i disturbi della demenza
Il secondo ambito fondamentale di produzione della realtà virtuale nel contesto delle applicazioni contro la demenza è quello dedicato alla comprensione della malattia. Si tratta di iniziative finalizzate a far conoscere cosa prova in prima persone chi soffre di una malattia neurodegenerativa, per sviluppare un grado di empatia sufficiente a garantire un’assistenza adeguata.
Capire cosa vede e cosa prova una persona che ha difficoltà a comprenderci aiuta al tempo stesso anche i familiari, che oltre alle difficoltà operative nel supportare la persona non autosufficiente, vivono una condizione di ulteriore stress emotivo. È quanto sostiene anche Maree McCabe, CEO di Dementia Australia, in un articolo pubblicato su Healthline, precisando una volta di più come: “La ricerca nella VR per le persone con demenza è ancora agli stadi iniziali, molto lavoro deve ancora essere fatto”.
A Walk Through Dementia è invece una serie di video 360, promosso anche in questo caso da Alzheimer’s Research UK, in collaborazione con Google, ViSYON e University College London, che dimostra i sintomi del deficit cognitivo e della demenza in tre “situazioni tipo”: per strada, al supermercato e ovviamente a casa, dove anche le cose più semplici, come mettere il latte nel tè o ricordarsi di aver già ampiamente zuccherato la stessa bevanda diventano purtroppo operazioni molto difficili da tenere a mente.
In un comunicato ufficiale, la dottoressa Laura Phipps, responsabile della comunicazione di Alzheimer’s Research UK ha dichiarato che: “Il nostro obiettivo era dimostrare che la demenza non è soltanto perdita di memoria. Le tre esperienze ci fanno chiaramente comprendere un’ampia serie di sintomi, come problemi visivi, confusione, smarrimento, difficoltà a riconoscere le persone e quegli spazi che in teoria dovrebbero essere decisamente familiari”.
A livello narrativo, la produzione non punta troppo sull’enfasi emozionale per generare empatia, mirando ad un approccio il più realistico possibile, risultato di un lungo processo di analisi sui comportamenti dei pazienti colpiti da Alzheimer, grazie alla loro collaborazione diretta: “Non è sempre possibile – prosegue Laura Phipps – sapere esattamente cosa provano, in quanto ogni persona manifesta sintomi differenti. Per alcune situazioni, come il senso di panico quando ci si sente smarriti, abbiamo cercato soprattutto di trasmettere quel tipo di sensazione, piuttosto che focalizzarci su ciò che esattamente una persona vede in quel momento”.
Comprendere in profondità la malattia
Una delle prime esperienze e tuttora tra le più significative per la comprensione della patologia in questione è senza dubbio Into D’mentia, ad opera del design team olandese ijsfontein.
A differenza dei casi sin qui citati, si tratta di un allestimento fisico, contenuto all’interno di un container ai fini di essere trasportato in varie location. La particolarità del lavoro consiste nell’aver ricreato dal vero una visione del mondo tipica della percezione di una persona affetta da deficit cognitivo e demenza, in modo da far capire alle persone comuni alcuni tra i principali problemi riscontrati in ambito domestico.
Entrando nella cucina, ad esempio, i visitatori si ritrovano immersi in una serie di situazioni paradossali, come il fatto di avere una radio ad alto volume e non riuscire ad abbassarlo perché non ci sono i controlli per poterlo fare.
Allo stesso modo, tantissime cose che daremmo per scontato non funzionano nella maniera più assoluta, al punto da generare ansia e frustrazione a visitatori assolutamente consapevoli di trovarsi all’interno di una finzione voluta.
Dopo questa provante esperienza, coloro che hanno partecipato si sono detti molto più disposti a rendersi conto del tremendo livello di stress cui sono continuamente sottoposte le persone soggette a deficit cognitivo e demenza e a comprendere pienamente le loro reazioni.
Il team multidisciplinare di ijsfontein ha scritto e rappresentato la storia di Into D’mentia sulla base di un’approfondita serie di interviste a pazienti ed assistenti, con la costante consulenza e supervisione di un team di medici e ricercatori in ambito ospedaliero.