Lavorando sull’algoritmo di deep learning noto come Rete Neurale Convoluzionale, i ricercatori della Texas Tech University ne hanno sviluppato una tipologia particolare e inedita, in grado di distinguere, sulla base dei dati prodotti dalla Risonanza Magnetica Funzionale, le immagini di persone sane, di persone con deterioramento cognitivo lieve e di persone con morbo di Alzheimer conclamato, segnando un passo importante verso la diagnosi precoce di questa patologia neurodegenerativa dai danni irreversibili.

Da alcuni anni, il morbo di Alzheimer si combatte a colpi di algoritmi sviluppati grazie alle tecnologie che fanno capo all’ambito di studi dell’intelligenza artificiale. Ma andiamo per gradi.

Il morbo di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che colpisce una percentuale significativa della popolazione anziana mondiale (solo in Italia, circa 600 mila individui, pari al 5% della popolazione anziana), provocando danni irreversibili al cervello e compromettendo gravemente la qualità della vita dei pazienti.

Ad oggi, non esiste una cura. È la diagnosi precoce a giocare un ruolo cruciale. I fallimenti dei farmaci – “in questo settore circa il 99% delle molecole allo studio non arriva poi sullo scaffale”, fa notare Gioacchino Tedeschi, direttore della Clinica Neurologica e Neurofisiopatologia all’Università della Campania Luigi Vanvitelli di Napoli e presidente della Società Italiana di Neurologia – sono dovuti soprattutto al fatto che l’Alzheimer è una malattia subdola, difficile da diagnosticare finché non si manifesta clinicamente.

Ma, a quel punto, è troppo tardi per le terapie. Sui pazienti precoci, invece, i farmaci possono avere ancora una reale efficacia, consentendo di gestire i sintomi e di rallentare la progressione della patologia.

Il ruolo della Risonanza Magnetica Funzionale nella diagnosi del morbo di Alzheimer

La Risonanza Magnetica Funzionale (RMF) o, in inglese, fMRI – functional Magnetic Resonance Imaging, è un tipo particolare di risonanza magnetica e tra le tecniche di imaging più suggestive per studiare la complessa attività cerebrale.

Nello specifico, registra come variano i livelli del flusso sanguigno e dell’ossigenazione cerebrale in risposta a diversi stimoli sensoriali o effettuando una serie di compiti motori (ad esempio, muovere le dita di una mano) e cognitivi (contare o comporre frasi).

Nel caso del morbo di Alzheimer, rappresenta, insieme ai test neuropsicologici, agli esami del sangue a alla PET – Positron Emission Tomography, uno strumento in grado di rilevare la presenza della malattia e di seguirne la progressione. Eppure c’è un “ma”.

Pur riuscendo a fornire grandi quantità di informazioni preziose sulle dinamiche del cervello, l’fMRI non rappresenta ancora una tecnica comunemente utilizzata per la diagnosi precoce delle patologie neurologiche, compreso il morbo di Alzheimer. E per due motivi:

  • i cambiamenti minimi nei segnali rilevati sono difficili da estrarre dal rumore di fondo della macchina
  • la mole di dati raccolti è complessa da analizzare

In merito a tali criticità, entra in scena il Deep Learning – o “apprendimento profondo” – campo di ricerca del Machine Learning fondato su algoritmi in grado di imitare la struttura neuronale del cervello umano, creando reti neurali organizzate in diversi strati.

Più nel dettaglio, gli sviluppi in corso nelle tecniche di Deep Learning suggeriscono potenziali miglioramenti nell’ambito delle prestazioni della Risonanza Magnetica Funzionale per la diagnostica precoce del morbo di Alzheimer, con l’obiettivo di arrivare a scrutarne i primi segni dalle immagini prodotte dalla macchina. È, questo, un filone di studi inaugurato da alcuni anni e portato avanti da diversi gruppi di ricercatori nel mondo.

Già nel 2017, i ricercatori dell’Università di Bari, nel tentativo di arrivare a una diagnosi quanto più precoce possibile della malattia, hanno sviluppato un algoritmo AI addestrato a rilevare, attraverso le immagini prodotte dalla Risonanza Magnetica Funzionale, l’insorgenza dell’Alzheimer in un gruppo di soggetti affetti da quello che, in gergo clinico, è definito “lieve indebolimento cognitivo”, spesso il primo sintomo del morbo di Alzheimer.

E, sulla scia della ricerca italiana, nel 2018 un gruppo di ricercatori dell’Università della California ha ideato un nuovo algoritmo AI, in grado di riconoscere le immagini di cervelli affetti da Alzheimer fin dalle prime fasi della patologia. In questa direzione va anche il recente studio degli scienziati della Texas Tech University, nella città di Lubbock. Vediamo di che cosa si tratta.

Gli sviluppi in corso nelle tecniche di Deep Learning suggeriscono potenziali miglioramenti nell’ambito delle prestazioni della Risonanza Magnetica Funzionale per la diagnosi precoce del morbo di Alzheimer, con l’obiettivo di arrivare a scrutarne i primi segni dalle immagini prodotte dalla macchina.

Intelligenza artificiale, morbo di Alzheimer e diagnosi precoce: il lavoro dei ricercatori della Texas Tech University sulla Rete Neurale Convoluzionale

Il gruppo di studio della Texas Tech University ha lavorato, in particolare, sull’algoritmo di deep learning noto come Rete Neurale Convoluzionale, in inglese Convolutional Neural Network – CNN, sviluppandone una tipologia inedita, capace di differenziare i segnali fMRI di persone sane, di persone con deterioramento cognitivo lieve e di persone con Alzheimer conclamato.

Le CNN vengono utilizzate prevalentemente per la classificazione di immagini 2D. Il che, nel concreto, significa che i dati quadridimensionali (tre spaziali e uno temporale) prodotti dalla Risonanza Magnetica Funzionale rappresentano, per loro, una sfida.

Per superare questo problema, gli scienziati hanno sviluppato un’architettura di Rete Neurale Convoluzionale in grado di gestire in modo appropriato i dati fMRI, con passaggi di pre-elaborazione minimi:

  • i primi due livelli della rete neurale si concentrano sull’estrazione, dai dati di imaging, di caratteristiche esclusivamente sulla base di modifiche temporali, senza guardare alle proprietà strutturali 3D
  • i tre livelli successivi, invece, estraggono le caratteristiche spaziali su scale diverse dalle caratteristiche temporali precedentemente estratte. Ciò produce una serie di caratteristiche spazio-temporali che gli strati finali utilizzano per classificare i dati di input fMRI di un soggetto sano, di un soggetto con decadimento cognitivo lieve e di un soggetto con morbo di Alzheimer conclamato

Harshit Parmar, ricercatore in Ingegneria Elettronica e Informatica presso la Texas Tech University di Lubbock e tra gli autori dello studio, spiega:

L’aspetto più importante di questo lavoro risiede nel tipo di architettura CNN progettata. Il nuovo design è semplice ma efficace per la gestione di dati complessi di Risonanza Magnetica Funzionale, che possono essere inviati come input alla Rete Neurale Convoluzionale, senza alcuna manipolazione o modifica della struttura dei dati. E questo riduce le risorse di calcolo necessarie e consente all’algoritmo di lavorare più rapidamente

In questa fase, i ricercatori della Texas Tech University stanno addestrando e testando la “loro” Rete Neurale Convoluzionale con dati di Risonanza Magnetica Funzionale contenuti in un database pubblico e i risultati iniziali sono promettenti. Se tali risultati reggeranno anche per set di dati più grandi, le implicazioni cliniche di questa ricerca potrebbero essere molto significative. Conclude Parmar:

L’Alzheimer non ha ancora una cura. Ma, anche se il danno cerebrale non può essere invertito, la progressione della malattia può essere ridotta e controllata. E il metodo che abbiamo messo a punto è in grado di identificare con precisione il lieve deterioramento cognitivo dei pazienti, allarme precoce della prima comparsa del morbo di Alzheimer

Scritto da:

Paola Cozzi

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin