Robot umanoidi, nanotecnologie e computazione: perché sono strumenti importanti per la ricerca scientifica? In che modo la guidano e la supportano? Lo scopriamo in compagnia di Giorgio Metta, direttore scientifico dell'Istituto Italiano di Tecnologia, “papà” del robot umanoide iCub e professore di robotica cognitiva presso l’Università di Playmouth, nel Regno Unito.

Robot umanoidi, nanotecnologie e computazione stanno segnando in modo importante la metodologia della ricerca scientifica, fungendo da strumenti capaci di guidarla e di potenziarla.

Strumenti in cui ingegneria, neuroscienze, genomica, chimica, fisica, matematica e informatica diventano discipline trasversali, applicate ad ambiti diversi, dalla medicina alla sostenibilità ambientale, dalla farmaceutica alla produzione di energia.

Nicholas Negroponte, informatico statunitense e co-fondatore del MIT Media Lab, laboratorio di ricerca presso il Massachusetts Institute of Technology, tempo fa, riferendosi a quella che sarebbe stata l’attività degli scienziati del futuro, usò lo slogan BANG, acronimo di Bits, Atoms, Neurons, Genes, vale a dire quelli che lui considerava i quattro mattoncini di base, sui quali fare ‘esplodere’ la ricerca. Ho trovato questo pensiero interessante. I bit, gli atomi, i neuroni e i geni rappresentano effettivamente gli ambiti verso i quali converge oggi la ricerca scientifica e verso i quali noi stiamo andando” afferma Giorgio Metta, scienziato, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, nonché “papà” del robot umanoide iCub e professore di robotica cognitiva presso l’Università di Playmouth, nel Regno Unito. Insieme a lui, conosciamo da vicino questi “mattoncini” e le attività che su di essi poggiano.

Giorgio Metta, direttore scientifico
dell’Istituto Italiano di Tecnologia

“Costruire e studiare robot umanoidi è un’attività profondamente umana, umanistica direi”: professore, a quale verità rimanda questa sua affermazione?

Dal punto di vista scientifico, proprio perché conosciamo l’uomo, siamo in grado di costruire robot. E quando costruiamo robot, in realtà, cerchiamo di conoscere più a fondo l’essere umano. Osservare l’interazione fra l’uomo e la macchina, poi, ha sempre questo duplice scopo: da una parte, poter costruire, in futuro, robot che funzionino sempre meglio, dall’altra parte, poter avere indicazioni preziose su come funziona il nostro sistema percettivo, su come il cervello interpreta uno stimolo. C’è sempre questo doppio percorso. Per cui studiare i robot, in qualche modo, significa studiare l’uomo.

In che modo l’interattività dei robot umanoidi è di aiuto nello studio dei processi cognitivi? E, oltre all’interazione uomo-macchina, quale altra tipologia di attività guida la ricerca in questo ambito?

Il fatto di essere un sistema completamente interattivo, è tra le caratteristiche salienti del robot umanoide, il cui comportamento cambia in base al comportamento della persona che gli dà gli input. Su tale aspetto si fonda la differenza cardine rispetto agli esperimenti classici che, ad esempio, utilizzano immagini video per generare stimoli nei soggetti. Il robot umanoide, invece, come dispositivo, è di per sé un generatore di stimoli. Stimoli che, se sottoposti a un essere umano, consentono di osservare, studiare, come risponde il cervello. Esiste, poi, un’altra attività – più deduttiva – che consiste nell’implementare nei robot alcune funzionalità prettamente umane e nell’osservarle. Ad esempio, in passato, in Istituto abbiamo studiato come la morfologia della retina è in grado di influenzare l’elaborazione dei segnali visivi. La retina dell’occhio umano non presenta una distribuzione dei fotorecettori come, invece, accade per i pixel di una telecamera. I fotorecettori si diradano mentre ci muoviamo dal centro dell’occhio verso la periferia. Ecco, questa peculiarità della retina, non particolarmente sfruttata nello studio della visione artificiale, per noi, invece, è importante e ha ispirato alcune nostre ricerche, grazie alle quali, riproducendo questi processi sui robot umanoidi, siamo arrivati ad approfondire alcuni meccanismi propri dell’occhio umano.

Robotica umanoide e patologie del neurosviluppo: quale filo lega queste due sfere?

Attraverso la robotica umanoide è possibile, ad esempio, interagire con bambini affetti da autismo. A tale proposito, in Istituto abbiamo avviato un programma, all’interno del quale utilizziamo robot umanoidi per insegnare alcuni comportamenti ai bambini autistici. Alla base di tale programma, alcune intuizioni – corroborate dai fatti – secondo le quali, nelle patologie dello spettro autistico, i bambini sono più portati a interagire con una macchina, perché si tratta di un generatore di stimoli soft, meno challenging per loro. Attraverso i robot, insegniamo loro comportamenti molto semplici, come condividere l’attenzione su un certo oggetto o imparare che, quando lo sguardo del robot cambia direzione, è perché vuole indicare qualcosa. Comportamenti che, invece, mancano nei bambini che soffrono di disturbi del neurosviluppo e che, se vengono appresi, contribuiscono allo sviluppo di una maggiore socialità. Ecco, questo è un esempio di come la robotica umanoide è grado di aiutare nel concreto l’uomo, di migliorare la qualità della sua vita.

Restiamo in campo medico, guardando a come la scienza dei materiali e, più nello specifico, le nanotecnologie, stanno spingendo verso scenari di ricerca inediti…

Quella della scienza dei materiali è una disciplina che avrà, nel tempo, l’impatto maggiore su diversi ambiti di ricerca. Siamo, ormai, in grado di manipolare i materiali, modificandone la composizione oppure la disposizione atomica o molecolare tramite l’uso delle nanotecnologie, con la possibilità di realizzare quello che ci interessa. E in questo filone si colloca la nostra ricerca in tema di protesi retinica, con due studi, in particolare. Il primo riguarda una protesi retinica che si installa tramite chirurgia ma che, rispetto alla protesi classica, è fatta di materiali biocompatibili e si alimenta da sola, senza, quindi, necessità di fili, né di altri dispositivi esterni: una volta impiantata, manda direttamente gli impulsi ai neuroni della retina e li stimola. Di recente, invece, abbiamo scoperto delle nanoparticelle fatte di un polimero a base di carbonio che assorbe la luce, le quali, iniettate nella retina stessa, si associano ai neuroni, facilitandone l’attivazione. Si tratta di una retina artificiale liquida, al momento in fase di sperimentazione, che potrebbe portare a non avere più bisogno della chirurgia. Spostandoci, invece, all’ambito farmaceutico, stiamo lavorando allo sviluppo di nanoparticelle per il trasporto dei farmaci all’interno dell’organismo. L’idea è quella di strutturare il materiale in modo che, da una parte, agganci la molecola del farmaco, e dall’altra, dopo essere stato iniettato, si muova nel corpo e, arrivando nel punto esatto, si apra, si disaccoppi dal farmaco e lo rilasci solo dove serve. Questo tipo di ricerca migliorerebbe i dosaggi e la gestione dei farmaci. È un lavoro lungo ma, in questa prima fase sperimentale, stiamo ottenendo risultati interessanti.

Sostenibilità ambientale ed Energia: qual è, oggi, l’apporto delle nanotecnologie a questi settori?

Si tratta di settori di ricerca che, in questi ultimi anni, hanno visto una crescita importante e che, ora, in fase post-Covid, stanno registrando un’ulteriore spinta. Per quanto riguarda il primo, l’Istituto Italiano di Tecnologia sta lavorando alla sostituzione della plastica con materiali completamente bio-degradabili. In particolare, usiamo polimeri di origine vegetale, che poi mischiamo in maniera tale da ottenere plastiche con diverse gradi di durezza, utilizzabili come packaging alimentare o come contenitori destinati a usi diversi. Per quanto concerne, invece, il settore Energia, stiamo portando avanti un’attività di ricerca nata qualche anno fa, che punta allo sviluppo di materiali più economici del silicio per le celle dei pannelli fotovoltaici. Stiamo studiando materiai particolari: si chiamano perovskiti e sono cristalli con proprietà fotoelettriche che, oltre al costo inferiore rispetto al silicio, hanno raggiunto un livello di qualità pari, risultando, dunque, competitivi sul mercato.

Qual è il ruolo dei metodi computazionali nella ricerca scientifica?

Si tratta, oggi, di un ruolo preminente. La potenza di calcolo si lega alla capacità stessa di fare ricerca. E per vari motivi. Ad esempio, in genomica, a un costo piuttosto basso, siamo ormai perfettamente in grado di sequenziare DNA ed RNA – RiboNucleic Acid. Il problema, dunque, non è più ottenere questo tipo di informazioni. La questione è un’altra. Ogni sequenza di DNA contiene circa tre miliardi di basi. Che cosa significa? Che ho una mole immensa di informazioni da interpretare e che servono le capacità di calcolo giuste per estrarre l’informazione utile, quella che ci serve davvero.

È possibile fare un esempio concreto dell’importanza della computazione nella genomica?

Nell’ambito di un esperimento che abbiamo condotto, sono state analizzate quaranta famiglie con bambini affetti da problemi del neurosviluppo. Il nostro obiettivo era quello di individuare, nei genitori, mutazioni significative del DNA che potessero essere responsabili della malattia. Ma confrontare i DNA di quaranta bambini con quelli dei genitori, restituisce 150mila varianti. E quasi tutte “naturali”, nel senso che non portano a patologie. Quasi tutte, però. Tra queste 150mila, bisogna trovare quella che causa il problema. È come cercare un ago in un pagliaio. E qui entrano in scena i sistemi di calcolo, che analizzano per noi la mole di dati. In questo caso specifico, sono state isolate 50 varianti, tra cui è stata, poi, rilevata una mutazione probabilmente responsabile di una forma di epilessia. Ecco, quando i dati da analizzare sono tanti, il costo computazionale diventa elevato. E questo significa che dobbiamo avere algoritmi efficienti e calcolatori molto potenti.

Professore, per concludere: tra robot umanoidi, nanotecnologie e grandi potenze di calcolo, quali sono, oggi, quelle porte che la ricerca scientifica non è ancora in grado di aprire?

Rimane ancora irrisolto il problema di come funziona il cervello. È una questione aperta per tutti gli scienziati. E che ci impegnerà per un tempo indefinito.


Il professor Metta è stato nostro ospite il 18 gennaio 2021 nel corso dell’evento “Scienza e tecnologie emergenti: aspetti etici, responsabilità dell’uomo e il passaggio dall’innovation alla sua governance“. E’ possibile rivedere l’evento sul nostro canale Youtube

Scritto da:

Paola Cozzi

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin