Una retina artificiale che si inietta con un ago, senza bisogno di interventi chirurgici invasivi né di fili o di dispositivi wireless per l’alimentazione, fatta di nanoparticelle biocompatibili sensibili alla luce: esiste ed è in fase di sperimentazione, grazie al lavoro congiunto dei ricercatori del Center for Synaptic Neuroscience dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, del team del Center for Nano Science dell’IIT di Milano e della Clinica Oculistica dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, a Verona.

Tramite le nanotecnologie, è ormai possibile manipolare i materiali, modificandone la composizione oppure la disposizione atomica o molecolare (come nel caso della retina artificiale liquida).

E, da quando esistono le nanotecnologie, una delle applicazioni principe è in ambito medico: dalla diagnostica per immagini ad alcune terapie contro il cancro, fino allo sviluppo di nanoparticelle per il trasporto dei farmaci all’interno dell’organismo, spiega Guglielmo Lanzani – professore ordinario di Fisica Sperimentale presso il Politecnico di Milano e coordinatore del Center for Nano Science and Technology dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Milano – il quale, insieme ai ricercatori del Center for Synaptic Neuroscience dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, coordinato da Fabio Benfenati, e alla Clinica Oculistica dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, a Verona, diretta da Grazia Pertile, ha sviluppato una retina artificiale liquida che si inietta con un ago, senza bisogno di interventi chirurgici invasivi né di fili o di dispositivi wireless per l’alimentazione, fatta di nanoparticelle biocompatibili sensibili alla luce, oggi in fase di test clinici e disponibile fra cinque anni.

Vediamo di che cosa si tratta, in che modo potrà essere di aiuto a chi è affetto da gravi patologie oculari e, soprattutto, su quali scenari futuri si affaccia.

Guglielmo Lanzani, coordinatore del Center
for Nano Science and Technology 
dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Milano
 

Professore, qual è stato il punto di partenza per lo sviluppo della retina artificiale liquida?

In realtà, la retina artificiale liquida è l’evoluzione di un modello di protesi retinica che, come Istituto Italiano di Tecnologia, abbiamo sviluppato alcuni anni fa. Un modello di protesi che si installa sempre tramite intervento chirurgico ma che, rispetto alla protesi classica, è fatta di un materiale biocompatibile e si alimenta da sola, senza, necessità di fili, né di dispositivi wireless. È rivestita di un polimero in grado di condure la corrente elettrica e, una volta impiantata, manda direttamente gli impulsi ai neuroni della retina, stimolandoli. Lo step successivo è stato quello di semplificare questo schema, in modo da rendere più agile, rapido e meno invasivo l’intervento sul paziente. Quello che abbiamo fatto è stato miniaturizzare la protesi, utilizzando nanoparticelle sospese in acqua e, dunque, iniettabili. La nuova retina artificiale è formata da una soluzione acquosa in cui sono sospese nanoparticelle sensibili alla luce – fotoattive – grandi circa un centesimo del diametro di un capello.

Da che cosa sono composte le nanoparticelle utilizzate?

Sono fatte di un polimero a base di carbonio e idrogeno, in grado di assorbire la luce e di convertirla in un segnale elettrico che stimola le cellule della retina, i neuroni. Queste nanoparticelle, iniettate nella retina stessa, si associano ai neuroni, facilitandone l’attivazione. Le protesi retiniche oggi in commercio sono a base di silicio e metalli, materiali, per loro natura, ostili all’ambiente biologico. La retina artificiale liquida che abbiamo sviluppato utilizza, invece, materiali organici bioaffini, biomimetici, che si integrano perfettamente nell’ambiente biologico.

Come si comportano le nanoparticelle a contatto con la retina danneggiata del paziente?

Nei test clinici che stiamo effettuando, quello che osserviamo è che, una volta posizionate sotto la retina, le nanoparticelle si diffondono in questo spazio, lo riempiono in modo uniforme E, di fronte a uno stimolo luminoso, notiamo che sono in grado di stimolare tutti i punti della retina – quindi non solo il punto esatto in cui vengono iniettate – e di rispondere alla luce. Se le protesi tradizionali, non liquide, si limitano a coprire solo l’area in cui vengono inserite, la protesi liquida, dopo l’iniezione, si espande in modo uniforme su tutta la retina. Il che significa, per il paziente, la possibilità di godere di un campo visivo ampio e di una visione ad alta risoluzione.

Per quali patologie della vista è stata concepita la retina artificiale liquida e quali benefici si annunciano rispetto alle protesi tradizionali?

Sono due, in particolare, le patologie al centro di questa ricerca. La prima è la retinite pigmentosa, malattia genetica responsabile della perdita progressiva della vista. La seconda è la degenerazione maculare, patologia legata al naturale processo di invecchiamento, in cui la porzione centrale della retina si deteriora, portando, nelle forme più gravi, alla perdita completa della vista in entrambi gli occhi. Innanzitutto, ai pazienti affetti da tali patologie, grazie alla sua natura liquida, la protesi che abbiamo sviluppato assicura interventi chirurgici meno invasivi rispetto agli interventi necessari per installare le protesi in silicio, che stimolano la retina attraverso elettrodi metallici. L’intervento consiste in una piccola incisione nella parte più esterna dell’occhio, dove poter infilare l’ago per poi iniettare la soluzione liquida. I test clinici eseguiti finora dimostrano non solo una riacquistata sensibilità alla luce, ma anche la ritrovata capacità di distinguere i dettagli. Inoltre, abbiamo verificato che, illuminando l’occhio, il cervello riceve correttamente il segnale visivo. Infine, come ho detto all’inizio, la nostra protesi retinica non ha bisogno di alcuna alimentazione, al contrario di tutte le protesi non liquide.

Partendo da questo studio, è possibile prevedere, in futuro, applicazioni di nanoparticelle fotoattive per stimolare le cellule di altri organi?

Quello che abbiamo fatto nell’ambito di questa ricerca, è stato stimolare le cellule della retina non tramite elettrodi, ma attraverso nanoparticelle che assorbono la luce e la convertono in segnale elettrico. Direi che, a questo punto, abbiamo un metodo, uno strumento, vale a dire la possibilità di stimolare le cellule per mezzo della luce. E possiamo farlo – solo per citare un esempio – con le cellule cardiache, dando il corretto ritmo al cuore sfruttando l’impulso luminoso, anziché gli elettrodi. E, seguendo lo stesso metodo, potremmo stimolare determinate aree del cervello iniettandovi nanoparticelle sensibili alla luce. Oppure stimolare i muscoli laddove si è verificata una lesione del sistema nervoso centrale che porta alla paralisi. Insomma, la fotostimolazione, come strumento, come metodo, apre molteplici strade.

Tornando all’ambito oculistico, la fotostimolazione può essere applicata qualora vi sia un danno al nervo ottico?

La fotostimolazione delle cellule della retina, in questo caso, non può fare nulla, in quanto manca il collegamento col cervello, rappresentato dal nervo ottico. Quello che, invece, si può fare è stimolare la corteccia visiva, la parte del cervello da cui proviene l’immagine. A tale riguardo, è stato condotto un esperimento molto interessante, in cui si è riusciti a stimolare il cervello e a dare, al soggetto, uno “stimolo” di visione, bypassando il danno al nervo ottico. Ecco, anche se non si tratta di fantascienza, c’è comunque ancora molto da lavorare in questo campo. Che apre a un futuro interessante per la ricerca, con la possibilità di accedere, dall’esterno, alle funzionalità del cervello. Questa è, però, una visione di lontano futuro.

Immagine al microscopio elettronico di un neurone “decorato” dalle nanoparticelle
(Credit: Mattia Bramini e Fabio Benfenati)

Scritto da:

Paola Cozzi

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin