Grazie all’ausilio di supercomputer e sistemi AI, è possibile una conoscenza approfondita dell’area del cervello colpita dal morbo di Alzhemeir, finora esplorata solo post mortem: se la quantità di materia grigia al suo interno tende a diminuire, è a causa della patologia e, scoprendolo in tempo, è possibile evitare che si consumi del tutto. A dirlo è uno studio portato avanti da alcuni Atenei della California e del Maryland, le cui macchine hanno fotografato decine di migliaia di cervelli umani, ottenendo dati molto preziosi.

TAKEAWAY

  • Le malattie neurodegenerative, tra cui il morbo di Alzheimer, possono rappresentare un importante terreno di azione per i sistemi automatizzati, finalizzati alla diagnosi precoce e al rallentamento del decorso della patologia.
  • Un team di ricercatori statunitensi ha utilizzato due supercomputer per intervenire nelle fasi iniziali, provando così ad arginare il deterioramento cognitivo.
  • Si è arrivati a conclusioni interessanti attraverso il cloud, la possibilità di archiviare dati online, focalizzandosi su quelli captati dalla corteccia transentorinale, la parte più colpita dal morbo.

Supercomputer e diagnosi Alzheimer è un binomio che fa riferimento a come gli algoritmi di intelligenza artificiale possono entrare in relazione con le malattie neurodegenerative.

Che cosa sono le malattie neurodegenerative? Iniziamo col dire che tali patologie provocano il deterioramento dei neuroni, portando a frequenti perdite di memoria, progressive difficoltà nei movimenti, alterazioni dell’umore e disturbi psicologici.

Le più note sono il morbo di Parkinson, che porta a una totale rigidità dei muscoli, e quello di Alzhemeir, che prende il nome dal primo medico a riconoscerlo, uno psichiatra tedesco.

La connessione tra supercomputer e diagnosi Alzheimer rientra nel continuo supporto che le tecniche che fanno capo all’ambito di studi dell’intelligenza artificiale offrono alla medicina, relativamente a patologie che colpiscono diverse fasce di età, dai bambini fino alle persone più anziane.

Per provare a rallentare la perdita di consapevolezza e di abilità nelle persone colpite da Alzheimer, ci sono voluti quasi dieci anni di indagini da parte di un team guidato da Daniel Tward, presso l’Università della California, a Los Angeles (UCLA).

Supercomputer e diagnosi Alzheimer: lo studio congiunto delle università statunitensi

Tward ha insegnato in precedenza alla Johns Hopkins University nel Maryland e lì, nel 2009 ha avuto inizio il programma in cui, di recente, sono stati inclusi i docenti dell’UCLA.

Una collaborazione incentrata principalmente sul binomio supercomputer e diagnosi Alzheimer. In che modo ha operato l’equipe? Innanzitutto attraverso l’imaging, un insieme di tecniche in grado di scandagliare organi e tessuti scattando fotografie accurate che successivamente sono elaborate dalle macchine. Queste ultime le confrontano tra loro in cerca di fattori comuni.

Il campo in cui si sono mossi è la medicina computazionale, relativa al “computare”, parola latina che sta per “calcolo” e che si usa soprattutto in riferimento a quello elettronico. In crescente espansione, tale branca prevede l’ausilio di modelli matematici, vale a dire rappresentazioni quantitative di fenomeni naturali che sono espressi sotto forma di funzioni. Tutto ciò avviene nella fase preclinica, in cui è dominante l’osservazione.

I sistemi AI hanno una spiccata capacità predittiva, che consente loro di fare delle previsioni sulla base delle informazioni raccolte, un passaggio che, svolto senza automatizzazione, richiederebbe anni. 

Il 16 marzo scorso, l’Università di San Diego, coinvolta anch’essa nel progetto, ha reso noto lo studio pubblicato sulla rivista specialistica Neuroimage. Nell’articolo si traccia un profilo dettagliato del paziente in modo da avere ben chiaro il problema nella sua interezza e agire di conseguenza. Ecco come.

Il contributo di imaging, cloud e neuroinformatica

Il materiale su cui hanno lavorato i ricercatori consiste in un catalogo fatto da decine di migliaia scansioni, per la precisione 47mila, che mostrano il sistema nervoso di altrettanti pazienti.

Strumento chiave è stato un peculiare metodo di raccolta delle immagini, detto Magnetic Resonance Imaging (MRI) dal momento che interviene appunto attraverso la risonanza magnetica, esame che dà la possibilità di scoprire eventuali danni all’organismo. Per avere un’adeguata percezione della portata della ricerca su supercomputer e diagnosi Alzheimer, bisogna introdurre un ulteriore concetto, quello di cloud, termine inglese che vuol dire “nuvola”.

Non stiamo parlando di un oggetto unico e a sé stante, ma di un intero mondo, fatto di server, cioè apparecchiature informatiche che immagazzinano file e documenti con l’obiettivo di renderli disponibili ai loro proprietari attraverso il web.

L’espressione “conservare in cloud” significa, per un utente, archiviare dei dati in spazi virtuali e poterli reperire in qualunque luogo, semplicemente connettendosi a internet. Come può tornarci utile tale panoramica? Lo vediamo subito.

Nel valutare il legame tra supercomputer e diagnosi Alzheimer, gli studiosi si sono appellati della neuroinformatica, disciplina che si occupa di gestire e organizzare i dati relativi al cervello. Gli scienziati si sono servirti del MRICloud, una piattaforma che funziona a partire proprio da una serie di database online.

Le risorse messe in campo per individuare il punto esatto del cervello in cui ha origine la patologia

Nella pubblicazione, MRICloud è definito come il canale maggiormente idoneo per quantificare e distinguere tutti i mutamenti di forma e spessore della corteccia cerebrale, la struttura più evoluta e complessa che esista in natura.

Poter rilevare variazioni sottilissime e spesso trascurate rappresenta un’opportunità da non sottovalutare e che anzi diventa rivoluzionaria per l’intero comparto, come ha ricordato il professor Tward:

Allo stato attuale non siamo ancora riusciti a misurare tali cambiamenti negli esseri umani, ma, utilizzando i supercomputer, abbiamo ora un grande bacino di elementi sui quali ragionare

Decisivo è stato l’intervento del San Diego Supercomputer Center (SDSC) che ha in dotazione attrezzature molto avanzate. Da ultimo, Comet, un potente elaboratore di dati scientifici che è entrato in fase operativa dallo scorso anno. Per avere esiti abbastanza rilevanti si è dovuto ricorrere a competenze multidisciplinari, come quelle del SDSC, che spazia dall’astrofisica alla scoperta di nuovi farmaci con centinaia di programmi ad hoc.

Un altro apporto in termini di tecnologia è arrivato, parallelamente, dal Texas Advanced Computing Center (TACC), unità analoga che sviluppa software per generare un miglioramento della qualità della vita in vari settori.

Una delle innovazioni prodotte dal TACC si chiama Stampede2 e ha contribuito al contatto tra supercomputer e diagnosi Alzheimer. Prestazioni ad alta intensità hanno permesso di capire dove si origina la patologia.

Supercomputer e diagnosi Alzheimer: la svolta è l’analisi della corteccia transentorinale

La svolta nelle sperimentazioni è stata l’individuazione di quanto succede dentro la corteccia cerebrale e, in particolare, in quella detta transentorinale, la parte che viene attaccata per prima dal morbo.

Il lavoro su supercomputer e diagnosi Alzheimer ha consentito una conoscenza approfondita di quest’area che finora era stata esplorata solo post mortem, durante l’autopsia. Se la quantità di materia grigia tende a diminuire è proprio a causa della patologia e, scoprendolo in tempo, è possibile evitare che si consumi del tutto.

Comet e Stampede 2 – ha detto Tward – macinano un enorme volume di segnali che permettono di trovare nuove strade per arginare lo sviluppo del morbo. Ridurre i tempi di calcolo dai mesi previsti inizialmente a pochi giorni ha reso fattibile la nostra idea”.

I risultati raggiunti sono stati il frutto di una fitta rete di rapporti, nata dalla mediazione dell’Extreme Science and Engineering Discovery Environment (XSEDE), un portale che coordina gli scambi di risorse digitali tra realtà accademiche.

Le applicazioni riguarderanno ovviamente l’ambito sanitario, con un considerevole beneficio sia per i pazienti che per il personale a loro dedicato. Un fine che, a livello istituzionale, ha visto l’approvazione dei National Institutes of Health, strutture statali che promuovono la divulgazione e il progresso su queste tematiche.

Scritto da:

Emanuele La Veglia

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin