Il business dell’innovazione è molto più di quanto i media ci raccontano, svelandoci di fatto soltanto la punta di un iceberg incredibilmente profondo, fatto di tecnologie, brevetti, acquisizioni e battaglie legali senza esclusioni di colpi.
TAKEAWAY
- Il business dell’innovazione è composto da dinamiche la cui comprensione non è sempre del tutto immediata, in quanto convergono fattori di natura tecnologica, finanziaria e legale.
- L’ecosistema delle start-up ci mostra un mondo incredibilmente affascinante, ma allo stesso tempo fragile e insidioso, in cui una buona idea non basta per avere successo.
- La storia di Magic Leap racconta ascesa e caduta di una delle start-up più controverse cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni nell’ambito delle tecnologie immersive. Nonostante tutto, la storia continua…
Dopo aver proposto un’analisi del rapporto tra aspettativa e realtà, allarghiamo la nostra riflessione agli aspetti che riguardano, più nello specifico, il business dell’innovazione, ossia il business delle tecnologie emergenti, riferito agli affari che ruotano intorno al mercato di tali tecnologie.
In questo servizio cercheremo, in maniera estremamente semplice, di comprendere alcune delle dinamiche che caratterizzano il business dell’innovazione. Lo faremo anche raccontando una storia capace di segnare per sempre l’immaginario delle start-up americane: la storia di Magic Leap.
Business delle tecnologie emergenti: non tutto è come sembra
L’innovazione tecnologica non segue necessariamente un percorso lineare, una linea logica orientata a sviluppare nuovi prodotti e soluzioni da introdurre sul mercato. Gli stessi big tech si comportano in modo estremamente differente entro certi scenari che in prima istanza apparirebbero molto simili.
Nel contesto di una tecnologia emergente come le XR (Extended Reality) un attore come Facebook sta giocando a carte scoperte, con una presenza nel mercato della realtà virtuale certamente non esente da rischi pionieristici, mentre Apple continua a rimandare la presentazione dei suoi misteriosi occhiali per la realtà aumentata, pur continuando ad implementare funzioni AR sugli iphone e sugli ipad. Strategie differenti, per obiettivi di business più simili di quel che potrebbe sembrare.
Da un lato abbiamo un marketplace vero e proprio come quello di Oculus VR, brand acquisito per avviare quel percorso verso il metaverso in cui Zuckerberg vede il Facebook del futuro.
L’obiettivo è certamente ambizioso e necessita di coinvolgere sin d’ora il più possibile gli utenti di una piattaforma social, per ottenere quei feedback di utilizzo indispensabili per progredire nello sviluppo di una tecnologia che al momento non è assolutamente pronta per l’adozione massiva.
Per rendere l’idea dell’impegno profuso, Facebook Reality Labs, attualmente impiega circa la metà della forza lavoro dell’azienda, per operare su qualcosa che al momento rende infinitamente meno rispetto al social network per antonomasia, piuttosto che a Whatsapp e Instagram, per citare le altre due acquisizioni più rilevanti della storia della holding che fa capo a Mark Zuckerberg.
Per contro, Apple ha deciso di non entrare sul mercato fino a quando non reputerà che la tecnologia sia sufficientemente pronta per garantire adeguati volumi di vendita sin dal day one, ma l’attendismo sul mercato non va confuso con l’immobilismo, dal momento che anche il colosso tecnologico di Cupertino sta nel frattempo investendo miliardi di dollari, sia per assicurarsi brevetti e IP delle start-up più interessanti, che per sostenere l’attività di ricerca interna.
In tema di business delle tecnologie emergenti, quelli citati sono soltanto due esempi tra le migliaia di fatti in ambito tech cui assistiamo ogni giorno, per dire che il mondo della tecnologia non è quello che ci raccontano i titoli dei media. Anzi, quella è giusto la punta dell’iceberg di una lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi le tecnologie migliori e qualsiasi situazione di vantaggio competitivo possibile nel confronto dei rivali.
Si assiste pertanto a situazioni apparentemente prive di una logica, in cui due marchi stipulano una partnership su un progetto e nel frattempo si scannano per una causa miliardaria in tribunale, dove molto spesso si discute di violazioni di brevetti.
Il ruolo delle start-up nel business delle tecnologie emergenti
Quando si tratta di far nascere un’iniziativa imprenditoriale, è inevitabile che il primo pensiero vada al mondo delle start-up, quel micidiale e diabolico ecosistema in cui vale tutto o quasi, ed è maledettamente difficile avere successo.
Un interessante studio di CB Insights riferito alla realtà americana, dove il fenomeno start-up è estremamente fiorente a livello di capitali, rivela come almeno la metà delle aziende non superi il primo round di finanziamenti e soltanto il 15% arrivi al famigerato C-round.
In materia di business delle tecnologie emergenti, le start-up rappresentano realtà imprenditoriali utili e indispensabili per dare forma a nuove idee, ma al di là delle modaiole quanto inutili classifiche sui giovani top innovator, piuttosto che alle interviste publiredazionali, perfette per spiegare ai propri genitori quale lavoro si stia facendo, avrebbe senso concentrarsi una volta di più sui fondamentali dell’economia d’impresa, quelli che, a conti fatti, garantiscono ad un’azienda di sopravvivere. È inoltre fondamentale formarsi sulla tutela della proprietà intellettuale (IP).
Troppo spesso le start-up con le idee più promettenti pensano soltanto al lato innovativo, a discapito degli aspetti gestionali e legali, che sono altrettanto se non più importanti per proteggere la tecnologia che si sta sviluppando in un mare di squali laddove nuotano esemplari che hanno come unica missione quella di fregare le IP altrui, e sanno farlo in maniera perfettamente legale, costringendo spesso al fallimento le vittime designate
Le professioni che si occupano di consulenza nell’ambito della tutela dei brevetti e della proprietà intellettuale costituiscono una realtà fondamentale, per la grande impresa quanto per la start-up nata da pochi giorni, il soggetto più vulnerabile nel mercato dell’innovazione tecnologica.
Le start-up costituiscono inoltre il terreno d’azione ideale per le speculazioni in tempi record, in particolare negli Stati Uniti, laddove i round di finanziamenti milionari effettuati dai venture capitalist sono all’ordine del giorno. Vediamo il perché.
L’incredibile storia di Magic Leap: il miraggio del metaverso
Un caso per certi versi estremo per riflettere sul rapporto tra business e innovazione – in tema di business delle tecnologie emergenti – è costituito dalla storia di Magic Leap, una start-up capace di sviluppare una IP di realtà aumentata per progettare dei visori in grado di abilitare le funzioni AR cloud, o spatial computing, che un giorno daranno luogo al famigerato metaverso.
L’utilizzo di un tempo verbale al futuro non è casuale, perché Magic Leap non è stata assolutamente in grado di mantenere questa promessa. Ma cosa ha reso così particolare Magic Leap rispetto a migliaia di altre start-up?
Sulla base di quelle che a tutti gli effetti non erano più che promesse, brevetti su brevetti e spettacolari trailer, Magic Leap ha capitalizzato quasi tre miliardi di dollari di finanziamenti, elargiti da parte di nomi come Google, JP Morgan, AT&T, Morgan Stanley, Alibaba e moltissimi altri, compresi i fondi pubblici di una realtà come l’Arabia Saudita.
Il concept di Magic Leap era e rimane a tutti gli effetti straordinario, così come la capacità di attirare i primi investitori ha causato un effetto domino in grado di garantire una pioggia di milioni. Si tratta di denaro investito peraltro in maniera concreta, per assumere un totale di circa 2.000 persone, tra cui molti ingegneri e sviluppatori strappati direttamente alla concorrenza dei big tech, dunque non propriamente a buon mercato.
Secondo la visione di Rony Abovitz, fondatore e CEO di Magic Leap, grazie ai suoi occhiali AR avremmo potuto abilitare il cosiddetto MagicVerse, versione branded di quel metaverso che vede sovrapporsi al mondo reale un equivalente virtuale in cui possiamo distopicamente interagire con moltissime funzioni ed esperienze alternative, come peraltro ci hanno già mostrato tantissimi film di fantascienza.
Per dare enfasi a questo mix di genialità e follia, Abovitz ingaggiò e fece girare per il mondo un certo John Gaeta. Per quanto sconosciuto ai più, questo signore di mezza età è stato un pioniere dell’industria degli effetti visivi, nonché premio Oscar per gli effetti speciali del primo The Matrix (2000), serie con cui sta nuovamente collaborando nella produzione del quarto episodio, atteso per il Natale 2021.
Il messaggio era chiaro: il lavoro di Magic Leap ci avrebbe consentito di catapultarci con entusiasmo nel MagicVerse, laddove la fantascienza di film come Matrix sarebbe diventata finalmente realtà. Ciò è in effetti accaduto, ma probabilmente non nel modo in cui Rony Abovitz e soprattutto i suoi investitori si sarebbero augurati.
Dalla fantascienza alla realtà immersiva, quella vera
Ad un certo punto, il giocattolo si è rotto. L’esordio del primo modello commerciale, su cui peraltro Palmer Luckley, fondatore di Oculus, aveva a ragione nutrito ben più di qualche dubbio, non è stato dei più soddisfacenti. Anzi, si è rivelato senza mezzi termini un flop totale.
Invece di Matrix, abbiamo assistito al solito film fatto di fatto di un hardware sottodimensionato, inutile per via della mancanza di applicazioni e troppo caro per sperare che qualcuno ci investisse se non per ragioni di pura curiosità.
Del milione di unità di Magic Leap One che Abovitz sperava di vendere entro la fine del 2019 non vi è stata alcuna traccia, né nel mondo reale né tantomeno nel MagicVerse. All’inizio del 2020 gli azionisti hanno provato il bluff di cedere la società, ma stavolta non ci è cascato nessuno.
Ad un passo dal fallimento, la società si è salvata grazie ad un round di finanziamenti di circa 400 milioni, ottenuto sulla garanzia di un business plan utile a salvare le sorti dell’azienda, che ha radicalmente variato i propri orizzonti d’impresa.
Oggi del MagicVerse non vi è più alcuna traccia, così come dei trailer fake utili ad acchiappare click sui social. Magic Leap oggi è a tutti gli effetti un brand enterprise, competitor diretto di quel Microsoft Hololens rispetto al quale fino ad oggi ha costituito un’alternativa meno performante.
Non è un caso che a prendere il posto di Abovitz, relegato ad un ruolo marginale in ambito strategico-creativo, sia stata ingaggiata Peggy Johnson, manager di esperienza in realtà come General Electric, Qualcomm e Microsoft, dove è stata vicepresidente esecutiva della divisione Business Development.
La storia di Magic Leap ci insegna che, anche quando appare evidente che la visione superi di gran lunga le reali aspettative, il business delle tecnologie emergenti sa muovere leve apparentemente nascoste, che portano ad investire cifre esorbitanti su una tecnologia come il fiber optic scanning, in grado di proiettare le immagini direttamente sulla retina grazie ad un fascio laser via fibra ottica.
In futuro probabilmente questo sarà possibile e l’investimento sui brevetti potrà finalmente dare i suoi frutti. Per il momento si è rivelato soltanto un gran bel buco nell’acqua.