La forte accelerazione digitale che stiamo vivendo ha generato una richiesta di software senza precedenti, al punto da rendere difficilmente sostenibile un business basato sull’esclusiva produzione degli sviluppatori professionisti.

A loro si aggiungono i citizen developer. La diffusione dei metodi low code / no code e gli AI tools consente anche ai semplici utilizzatori del software di personalizzare e automatizzare le loro applicazioni, in maniera sempre più semplice e intuitiva, lasciando ai team pro soprattutto l’onere di occuparsi dei progetti di sviluppo più importanti, che prevedono funzioni più complesse e lunghi cicli di vita.

L’ingegneria del software oggi si pone anche un nuovo obiettivo, che per molti rappresenta il futuro dell’industria: rendere il software disponibile a tutti.

La democratizzazione del software è un fenomeno da interpretare su vari livelli, che vanno dallo sviluppo iniziale all’utilizzo di un prodotto commerciale da parte degli utenti finali.

Per capire quali sono i principali trend che contraddistinguono lo sviluppo, abbiamo incontrato Paolo Emilio Selva, Principal Engineer di Weta Fx, grande esperto in ingegneria del software e fresco reduce dallo straordinario successo di Avatar 2, che ha conseguito il premio Oscar per i migliori Effetti Visivi nella più recente edizione degli Academy Awards.

Dopo le prime esperienze a Cinecittà, Paolo Emilio Selva è volato prima a Londra e poi a Wellington, alla corte di Peter Jackson, dove ha contribuito allo sviluppo dei tool con cui sono stati creati molti dei capolavori di Weta Digital.

Il dipartimento di Software Engineering, diretto da Paolo Emilio Selva, ha sviluppato molte delle tecnologie chiave di Weta Digital, utilizzate in film come Avatar, TinTin, The BFG, The Guardians of the Galaxy e molti altri.

Le produzioni VFX costituiscono da sempre una fucina di nuove tecnologie nell’ambito del software, dove nascono prodotti che trovano spesso successivi adattamenti e applicazioni anche in ambito enterprise, soprattutto nell’ambito della computer grafica.

Paolo Emilio Selva, Principal Engineer di Weta Fx
Paolo Emilio Selva, Principal Engineer di Weta Fx

Una realtà come Weta come si approccia allo sviluppo del software?

Selva: Weta digital vanta circa 20 anni di sviluppo interno, in cui abbiamo assistito a varie fasi di evoluzione dell’industria. Siamo in un contesto molto tecnico, tradizionalmente orientato a tecnici ed artisti molto competenti.

Da queste esperienze, sono derivati importanti contributi per lo sviluppo di software commerciali ed ora, dopo l’acquisizione da parte di Unity, si sta avviando una nuova stagione, che ci porterà a rendere disponibili in cloud i nostri software a tutti. Tornerò successivamente su questo argomento.

Questo aspetto segna un punto di svolta nell’ambito dei VFX, dove grandi realtà come Weta e ILM finora non hanno commercializzato direttamente i loro software. Pixar, con Renderman, costituisce con ogni probabilità una delle poche eccezioni sul mercato in questo senso.

Dal punto di vista dello sviluppo, cosa sta cambiando?

Selva: Si inizia a guardare sempre più a cosa accade all’esterno degli studi VFX, incoraggiando l’adozione di un open standard che consenta di assorbire i prodotti della community. Si tende progressivamente a passare da una pipeline molto specifica, scritta ad hoc dagli sviluppatori interni all’integrazione di parti sviluppate da studenti e artisti. Perché ciò accada è necessario definire degli standard aperti che consentano a tutti i livelli di sviluppo di parlare la stessa lingua.

L’industria VFX è da sempre una sorgente di applicazioni che successivamente vedono l’adozione anche nel contesto enterprise. Ma in cosa consiste per davvero il ciclo di vita di un software in una realtà come Weta? Come nasce il software?

Selva: In uno studio di effetti visivi il software viene sviluppato per supportare gli artisti nelle loro produzioni. I nostri tool automatizzano ad esempio le operazioni ripetute molte volte, mirano ad incrementare l’efficienza dei processi, o risolvono situazioni molto specifiche, che manualmente oltremodo complesse o dispendiose in termini di tempo.

Potrei citare molti esempi. Per Guardiani della Galassia le scene prevedevano un largo impiego di sistemi frattali, per cui abbiamo sviluppato un tool in grado di crearli in modo parametrico, evitando agli artisti l’onere di doverli modellare ad uno ad uno. Una circostanza simile si è nuovamente verificata per Avatar 2.

Ogni film genera nuovi asset riutilizzabili, che contribuiscono ad aumentare il nostro portfolio a supporto degli artisti.

I software che sviluppate in Weta sono molto noti anche per la frequenza con cui si aggiudicano i principali riconoscimenti a livello internazionale, a cominciare dagli Oscar tecnici. Potresti raccontarci qualche storia di sviluppo?

Selva: Quando una produzione necessita di particolari soluzioni si tende ad industrializzare il software in modo da renderlo disponibile in svariate circostanze. Per la trilogia di Hobbit era stato ad esempio creato Lumberjack, un software per generare interi sistemi di vegetazione in maniera realistica, che abbiamo successivamente impiegato anche in altre produzioni.

Per l’ultimo capitolo del Pianeta delle Scimmie, c’è una scena cruciale che prevede la presenza di una montagna con una foresta innevata. Lumberjack non era più sufficiente, in quanto ci siamo ben presto resi conto che ci serviva un generatore di foreste, non di semplici alberi. Ogni albero doveva crescere in base a determinate condizioni climatiche, con logiche di distribuzione particolari, senza incrociarsi tra loro.

Abbiamo lavorato per ottenere una simulazione fisica realistica, dove i rami potessero cedere in maniera credibile sotto il peso della neve, anch’essa generata proceduralmente. Da questa produzione è nato Totara, il nostro software per la generazione di foreste.

La produzione si distingue per l’esigenza di personalizzare ogni aspetto, nella creazione e nella gestione degli asset. Come valuti l’impatto dei nuovi AI Tools?

Selva: Non sono pronti per essere implementati in una pipeline di produzione. Le loro potenzialità sono incredibili e sicuramente in futuro saranno sempre più protagonisti nell’industria creativa. Seguiamo la loro evoluzione in ricerca e sviluppo per sperimentare le loro applicazioni, ma al momento non è previsto il loro utilizzo all’interno dei progetti.

Oggi si tratta di sistemi che non consentono di gestire le modifiche controllando ogni aspetto del visual. Una condizione simile non è accettabile in una produzione commerciale, dove non puoi permetterti di ottenere un risultato casuale, per quanto apprezzabile a livello estetico.

Noi abbiamo esigenze totalmente differenti. Dobbiamo standardizzare i processi per avere l’assoluta certezza che ogni asset venga salvato e gestito allo stesso modo, per risultare perfettamente interoperabile con i tool della pipeline.

Tutti gli artisti devono lavorare nelle medesime condizioni. Per quanto riguarda la creazione, viene consentito l’impiego di vari strumenti, c’è spazio per la personalizzazione. Gli asset vengono gestiti mediante un workflow unificato.

Nel momento in cui l’artista salva una scena, tutti gli asset che la compongono vengono automaticamente aggiornati nelle rispettive posizioni di archivio. Il risultato deve essere un sistema assolutamente “error free”. L’artista non deve nemmeno porsi un problema a livello IT, dobbiamo metterlo nelle condizioni di pensare soltanto a fare il suo lavoro.

Per quanto riguarda gli approcci no code, come valuti l’implementazione nell’ambito della computer grafica?

Selva: Il VPL (Visual Programming Language) e in generale gli editor nodali sono ormai molto diffusi da anni. Oggi anche un quindicenne è in grado di fare delle semplici personalizzazioni su Blender. Non credo sia questo l’aspetto centrale della questione.

In produzione, come accennavo, emergono altre necessità, che sono legate alla capacità di personalizzare alcune funzioni senza generare eccezioni negli standard della pipeline. Un software commerciale come Maya, il DCC (digital content creator) più diffuso in ambito VFX, nella sua configurazione di default non è in grado di fare tutto ciò che ci occorre.

Il nostro compito è capire cosa occorre davvero agli artisti e sviluppare i tool necessari per consentire a tutti di lavorare nelle stesse condizioni, producendo un risultato usabile in produzione.

L’acquisizione della vostra unità da parte di Unity cosa ha comportato a livello strategico?

Selva: Unity è un’azienda che sviluppa e distribuisce software commerciale, non è una realtà di produzione come Weta Digital. L’obiettivo è quello di rendere disponibili a tutti le soluzioni che per molti anni abbiamo utilizzato internamente.

Unity intende democratizzare il software nella previsione che nei prossimi anni il mercato richieda sempre più applicazioni in grado di creare mondi virtuali 3D. Perché ciò avvenga è necessario un lavoro molto importante.

Ora occorre definire tanti tool a partire da una pipeline complessiva e renderli disponibili in cloud, su piattaforma AWS, dove gli utenti potranno utilizzarli attraverso una semplice interfaccia web. Abbiamo a disposizione 20 anni di codice da riordinare e rendere nuovamente fruibile, stavolta a tutti i creatori di contenuti 3D al mondo. Questa è la sfida di democratizzazione che ci attende in futuro.

Scritto da:

Francesco La Trofa

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin