Intervista a Francesco D’Isa, filosofo e artista visivo

Perché abbiamo fame di futuro? E perché ci dà al tempo stesso ansia? Dove si può leggere il futuro? Quali sono le risposte che demandiamo alla tecnica e che invece dovremmo pretendere dalla politica? E perché l’arte, assieme alla filosofia, possono indicarci con più chiarezza di tante altre strade la via panoramica per abbracciare con lo sguardo i possibili futuri che abbiamo davanti?

Sono molte domande. Per fortuna c’è una professione che da sempre è portata a porsi un’infinità di domande. Fra tanti futuristi, per una volta abbiamo cercato una figura che avesse uno sguardo altro, anche se coerente con la prospettiva di chi guarda avanti e cerca di capire come costruire un punto di vista rivolto al futuro. E che si ponga delle domande rilevanti.

Francesco D’Isa non è un futurista, un consulente o un analista. Il suo invece è un doppio mestiere che «dentro la mia testa», come dice lui, è in realtà un percorso unico perfettamente coerente. D’Isa, classe 1980, è un filosofo e un artista visivo. Ha esposto in gallerie e centri d’arte contemporanea, scrive saggi e pubblica romanzi. È anche direttore editoriale della rivista fiorentina “L’Indiscreto”, quella che definisce «una rivista letteraria come c’erano una volta a Firenze», piuttosto cattivella, «in perfetto stile del passato».

Speculare sul futuro, per Francesco D’Isa è un atto di ricerca

Francesco D'Isa, filosofo e artista visivo
Francesco D’Isa, filosofo e artista visivo

Soprattutto, Francesco D’Isa è abituato a fare qualcosa che la sua formazione e il suo percorso rendono oggi prezioso e interessante al tempo stesso: speculare sul futuro. Con un distinguo, però. Lo speculare è l’azione di chi ricerca il vero, cioè una verità, pensando e meditando. E chi meglio di un filosofo o di un artista? Lo sentiamo con una lunga videochiamata serale tra Milano e Firenze. Giacca grigia a quadretti sottili e senza cravatta, camicia bianca chiusa quasi fino al colletto, capelli perfettamente in ordine: D’Isa a 42 anni è il ritratto di un intellettuale di un’altra epoca. Però mescola storia, filosofia e tecnologia in modi che molti, più vecchi o più giovani, non riuscirebbero a fare.

«Non è vero che la tecnologia è neutra. Nel senso che si sviluppa sempre in un determinato contesto sociale. E c’è un mutuo scambio con la società: la tecnologia viene plasmata dalla società ma ha caratteristiche proprie, ha dei limiti che forzano la società in determinate direzioni. E poi c’è la struttura umana più antica, non legata a un dato contesto culturale anche se millenario, ma a un dato biologico di tipo evolutivo, che cambia con lentezza enorme. È la nostra natura: e visto che siamo sempre delle scimmie riottose, chiaramente la tecnologia verrà sempre usata da parte nostra per essere delle scimmie riottose che vogliono creare cose sociali di un certo tipo: interessanti per gli artisti, pericolose per i militari».

Francesco D’Isa è un filosofo ma è anche un artista visivo e spesso ragiona per immagini, che portano dentro però altri referenti e altri significati. Un esempio è tutto in una immagine spettacolare che cela un’allegoria tagliente.

Nel cielo notturno sopra Shanghai volano in formazione perfetta centinaia di droni, ci dice durante l’intervista. I droni festeggiano il festival delle Lanterne. Mettono in scena delle acrobazie celesti che tuttavia sono anche il simbolo di altro. L’analogia, aggiunge D’Isa, è con la polvere da sparo, inventata in Cina e resa arma in Europa: bellissima per i fuochi d’artificio, ma al tempo stesso micidiale come strumento di guerra. Cosa dicono i droni nei cieli che furono quelli del celeste impero cinese? La stessa cosa della polvere da sparo. Sono bellissimi e micidiali al tempo stesso. Ma qual è la polvere da sparo dei droni? La loro intelligenza automatica.

«Il volo estremamente complesso dei droni è possibile solo usando l’intelligenza artificiale. Questo ci dice che quello Stato oggi possiede degli strumenti che possono far diventare molte cose delle armi micidiali. E dice anche che non è vero che la tecnologia è neutra: viene sviluppata in un certo contesto sociale e da questo prende i suoi significati».

Vedere l’invisibile

D’Isa spiega qual è il suo rapporto con il futuro: pessimista. L’ottimismo è quello della volontà, ma la ragione non vede cose buone. L’AI, ad esempio, è buona o cattiva?

«Se fosse stata sviluppata nel XIII secolo – dice D’Isa – non sarebbe stata usata per sincronizzare i droni o per la pubblicità mirata, ma più probabilmente come strumento per l’Inquisizione».

Non è la tecnologia che è cattiva, ma l’animo umano.

«Il pericolo della nostra specie – continua Francesco D’Isa – è che costruiamo strumenti troppo potenti rispetto alla nostra saggezza. Non darei una bomba atomica a una scimmia, però è quel che è successo con noi. E nel dire questo sono decisamente pessimista. Tuttavia, come essere umano sono anche maledettamente curioso, e mi affascinano gli aspetti più interessanti di questo momento. Ad esempio, l’intelligenza artificiale è uno di questi, perché in realtà la posso usare per vedere dei pattern invisibili. Cosa che, dal punto di vista culturale, mi permette di vedere l’invisibile».

Cos’è il futuro?

Facciamo un passo indietro, perché l’incontro con Francesco D’Isa segue un percorso tortuoso, come gli argomenti che sono tanti e si affastellano. Ci sono molte cose diverse da dire anche perché il momento storico è già confuso. Anzi, è il presente che è confuso, perché il futuro, cioè i possibili futuri, sono fluidi e particolarmente incerti. Ci troviamo all’interno di un periodo di forte discontinuità, e quindi davanti a una grande opportunità: possiamo assistere e volendo partecipare a un cambiamento profondo. Eppure, la risposta della nostra società è prevalentemente di tipo ansioso. Cos’è il futuro, insomma? Una fonte di preoccupazioni, dice D’Isa, pensando non tanto a sé stesso ma a come la società nel suo insieme lo percepisce.

«La fame di futuro ce l’abbiamo da sempre. Forse ci siamo evoluti per avere una fame di futuro, ma è certamente fonte di ansia. Uno dei nostri problemi come specie è proprio avere questa fame costante. Da persona che lavora con la filosofia considero il termine “speculazione” come un termine positivo. Ci permette di prevedere il futuro, entro certi limiti. Ma il nostro rapporto come specie con il futuro è quello delle Cassandre: non riusciamo ad agire in conseguenza della nostra conoscenza. Prendiamo il cambiamento climatico: sapevamo dagli anni Settanta che stava avvenendo, con una precisione estrema e con buona pace dei negazionisti. È imbarazzante, ma si sta avverando tutto, perché non è stato fatto quasi nulla, cioè non a sufficienza. Sappiamo fare le previsioni ma non le sappiamo seguire».

C’è una cosa che viene fuori da questo primo abbozzo dello scenario del mondo in cui viviamo. Cioè una scarsa attitudine alla reazione, che invece dovrebbe essere la qualità forse più importante quando i cambiamenti si susseguono sempre più velocemente.

«Riuscire a reagire al cambiamento oggi è diventata la cosa più importante: invece siamo più bravi a prevedere che non reagire e prenderci la responsabilità di quel che vediamo senza mettere la testa altrove. È il nostro peccato originale: abbiamo più ansia del futuro di quanta paura non ci faccia poi quel che accade».

Prevedere il futuro non è un compito, è qualcosa di diverso, dice Francesco D’Isa. Che poi specifica meglio.

«Non è il compito del filosofo prevedere il futuro, perché è un compito che non è specifico a nessuno. Però la filosofia è ovviamente la patria delle speculazioni e dato che quando si parla di previsioni si può solo speculare, anche per la scienza, ecco che la filosofia rientra in gioco. E con questa anche l’arte, almeno per me. Questo perché mi sono laureato con una tesi che toccava Escher – il pittore Maurits Cornelis Escher – e l’idea che l’arte sia un linguaggio conoscitivo, un po’ come la filosofia. Ecco, per me come poetica personale, nella mia testa, l’arte visiva che pratico come artista è un modo di fare filosofia, solo non verbale: all’esterno può sembrare inusuale ma garantisco che all’interno torna tutto».

Tra intelligenza e futuro… una visione troppo antropocentrica

Come artista e come filosofo, ma anche come curioso delle tecnologie e degli altri meccanismi che regolano il funzionamento della tecnica, Francesco D’Isa da tempo lavora sui temi legati all’intelligenza artificiale e agli strumenti tecnologici che ne derivano, che ritiene soprattutto ci confondano. A partire dal loro nome.

«Il termine AI non mi piace per niente. Lo trovo sbagliato e fuorviante per due motivi. Da un lato le macchine non hanno niente di intelligenza, almeno per come si usa il termine dal punto di vista comune. E poi “intelligenza” è un termine a ombrello troppo ampio per applicarlo a degli strumenti. L’idea di autocoscienza, la volontà, non sono ambiti in cui si possa associare l’AI. Invece, per un ambito più ristretto che miri a raggiungere un certo scopo, le macchine sono anche più intelligenti di noi. Giocano a scacchi meglio di noi, per dire; ma sono più intelligenti per questo? Se il mondo dell’intelligenza è solo giocare a scacchi, possiamo rispondere di sì. Se invece lo usiamo in senso generale, ovviamente no. Quel che succede in realtà è che le ultime generazioni, a partire da ChatGTP, hanno un elemento antropomorfo che ci confonde. Ci rispondono e sembrano umane. Il tema viene così cavalcato perché pensiamo erroneamente che l’uso del linguaggio “faccia” l’umano, ma non è così. Infatti, è vero che vediamo l’intelligenza artificiale che parla e scrive, ma il linguaggio è una minima parte dell’intelligenza umana».

Un paragone è quello che fa Nello Cristianini, studioso di AI che lavora a Bath, nel Regno Unito, con le lumache. Ha raccontato a Francesco D’Isa la sua idea sui gasteropodi e l’AI: le lumache sono intelligenze per noi aliene. Hanno degli scopi (mangiare, riprodursi), sono molto intelligenti per riuscire a ottenerli, ma non hanno una intelligenza umana. Come la macchina che vince agli scacchi. Possiamo chiamare questo nostro limite che ci fa confondere in molti modi, o magari non riconoscerlo neanche. Riportiamo tutto alla misura dell’uomo. Quando una persona lo vede, poi lo ritrova ovunque. Serve lo sguardo di un filosofo per sintetizzarlo, però. Secondo D’Isa accade infatti anche in altri ambiti: come ci immaginiamo le intelligenze aliene nella fantascienza o come ci immaginiamo Dio nelle religioni.

«Uno dei più grandi limiti cognitivi umani è riportare tutto all’uomo. Tuttavia, essendo solo l’uomo uguale all’uomo, questo limite è fonte di enormi errori. Noi ci immaginiamo gli alieni come umanoidi, o comunque nella fantascienza non riusciamo quasi mai a immaginare forme di intelligenza radicalmente aliene. Come potremmo immaginare storie con forme di vita aliene così diverse da noi che neanche le capiamo, o che sono del tutto fuori dalla nostra percezione? Magari sono già qua, ma sono così aliene da noi che non riusciamo neanche a percepirle. Con il divino, a mio parere, si fa lo stesso errore. E infatti i vari misticismi di tutte le religioni cercano sempre di riportarci fuori da queste umanizzazioni del trascendente. Perché immaginiamo divinità a nostra immagine e somiglianza».

L’apporto rivoluzionario delle tecnologie

L’entrata sulla scena sociale dell’intelligenza artificiale conversazionale, come ChatGPT, porta con sé una serie di conseguenze ma anche di idee prefabbricate. Sono i punti sui quali si concentra l’attenzione dei media e che spesso sono anche sbagliati, fuori fuoco. Occorre stringere il campo, inquadrare alcuni settori in particolare.

«Mi sento più a mio agio se analizzo gli ambiti che conosco meglio: l’arte, la creatività e le cose che vedo. E qui, in questo ambito come in altri, le tecnologie di intelligenza artificiale daranno un apporto di tipo rivoluzionario che non sarà né positivo né negativo. Per l’arte visiva il parallelo è con la fotografia o il cinema. Le grandi innovazioni tecniche hanno portato a nuove forme di espressione e poi, a dispetto di quel che temevano in molti, non hanno portato alla distruzione di vecchie forme di espressione ma alla loro rivoluzione. Ad esempio, senza la fotografia sarebbe impossibile tutta la pittura del Novecento, anche e soprattutto per gli artisti che non la usavano».

Francesco D’Isa ha idee molto chiare su qual è il futuro delle tecnologie basate su AI e l’arte:

«Da creativo trovo l’AI stimolante e interessante. Ci sono però delle cose che dal punto di vista sociale sono più importanti e inquietanti. Il valore di testimonianza dell’immagine, che era già in seria crisi con la rivoluzione digitale, adesso è definitivamente morto. Da qui a pochi anni, forse pochi mesi, chiunque potrà farsi qualsiasi immagine. Un esempio su un milione di cose che si potrebbero fare: è stata creata un’immagine sintetica, fatta con Midjourney, di false statuette di tipo etrusco simili a quelle di alcuni ritrovamenti più recenti. Siccome Midjourney fa le mani con sei dita, le immagini artificiali che sono entrate in circolazione hanno creato dibattito anche tra gli archeologi, con gente che si chiedeva il perché di queste mani con sei dita. Poi, quando è stato scoperto il falso, i commenti sono stati cancellati perché i professionisti se ne vergognavano. Questa cosa succederà sempre di più, sino al punto che non ci fideremo più delle foto. Una foto non è più una garanzia di realtà, non avrà più nessun valore di testimonianza. È una cosa assolutamente inedita per noi perché siamo tutti nati quando già esisteva la fotografia. Ma se si allarga lo sguardo, questo valore di testimonianza per millenni non è esistito. Nasce con la fotografia, va in crisi con il digitale e muore con l’AI. Ritornano i disegni, le pitture, i racconti basati sulla testimonianza delle persone. Non ci fideremo di quel che vediamo ma di chi ce lo dirà, come succedeva prima della fotografia».

Il problema è la zona grigia attuale. Lo spazio in cui il liminare del dubbio è tremendo ma va visto:

«Alla zona grigia attuale, che è assolutamente favorevole a complottismi e negazionismi di ogni sorta, preferisco una zona più chiara. O una fotografia dei primi del Novecento, quando falsificarla non era facile, oppure il domani quando non ci crederemo più perché non sapremo più se è vera».

Con l’AI sarebbe possibile fare cose incredibili che in parte già si provano. Tradurre testi archeologici mai tradotti prima perché si addestra l’AI con tutto il corpus delle opere già conosciute. Oppure completare i frammenti di un autore come nessuno studioso potrebbe fare.

«Ci sono tantissime applicazioni possibili: per questo trovo fuori fuoco considerare l’AI un pericolo in un ambiente culturale in cui ci sono più benefici che rischi».

Certo, dal punto di vista creativo l’intelligenza artificiale è una meravigliosa opportunità: permette di far dialogare con un meccanismo che risponde come risponderebbero ad esempio Socrate o Platone. Non sostituisce ma aiuta ad attingere. Invece, l’idea della soluzione in quanto tale, dell’AI che ruba il lavoro, è concettualmente errata, spiega Francesco D’Isa.

«Se al contadino dai un trattore al posto della vanga, gli dai uno strumento tecnologico per lavorare meglio il campo. Se lo cacci allora dirà che la tecnologia ruba il lavoro, ma se lo strumento lo aiuta, ti ringrazierà. La stessa cosa per tanti lavori, anche intellettuali: se la mia ditta mi licenzia e usa una AI al posto mio, il problema è politico, non tecnologico. Perché è politica la scelta se usare gli strumenti per aiutare o per sostituire le persone. È sempre stato così, la tecnologia rubava il lavoro anche secoli fa, anche ai tempi della tessitura su telaio con i primi luddisti. Ma non è un problema tecnologico, è un problema politico».

L’errore sta anche nella mancanza di competenze, nella percezione semplicistica e magica delle tecnologie. Nell’immaginare un futuro fatto di onnipotenza. All’intelligenza artificiale serve un salto di qualità tecnologico strutturale molto grande per passare dalla fase attuale a una in cui possa procedere in modo autonomo alla creazione di contenuti originali.

«E sarebbe molto interessante, secondo me. Se potessimo premere un pulsante e ci arrivasse un libro di filosofia inedito e bellissimo scritto per noi da un sistema di AI, io sarei solo contento. Se per conseguenza di questo però delle persone diventano povere, bisogna capire che non è un problema tecnologico ma politico. Di scelte e di strategie».

Tra l’altro, dice Francesco D’Isa, quel che sta succedendo già adesso è la revisione profonda di categorie che diamo per acquisite da secoli. Tuttavia, le diamo per scontate perché fanno parte del mondo in cui viviamo, ma che se torniamo indietro di cinquecento anni, prima dell’invenzione della stampa, scopriamo che non c’erano. L’Occidente era un mondo completamente diverso.

«Il concetto di autore è un concetto fluido, un costrutto culturale. Lo diamo per scontato ma quando arriva una tecnologia dirompente secondo me non soltanto rivoluziona le nostre categorie, ma ci fa capire invece che erano inadeguate: funzionavano sulla base di accordi sociali datati e ora dimostrano di essere difettose. Dal punto di vista filosofico trovo che già il concetto di autore sia privo di senso: definire “mia” un’opera in senso filosofico stretto secondo me è errato per lo stesso motivo per cui Picasso e Andy Warhol erano impossibili nel XIII secolo, senza il contesto culturale e le altre opere del loro tempo. Per questo dire che un’opera è “mia” mi sembra strano. Inoltre, vedo che il peso maggiore del concetto di autore è nel diritto, che tutela però gli interessi economici soprattutto delle grandi organizzazioni, non certo i singoli artisti. La strada è verso una sempre maggiore restrizione all’uso dei contenuti, il che è un limite perché un allargamento permetterebbe paradossalmente di avere sistemi basati su AI più democratici».

È il caso estremo, ma indicativo del cambiamento che, ritiene Francesco D’Isa, stiamo prendendo al contrario. La parte critica rispetto alle capacità visive e di scrittura dell’AI sono sbagliate perché quello che offre è una miniera. Invece, sotto la lente del dibattito pubblico secondo il filosofo non va la parte più importante e sbagliata.

«Il pericolo più grande di questi strumenti è che diventino dei monopoli in mano a grandi aziende che per lo più lavorano e fanno introiti in ambito pubblicitario. Che poi sono quelli che già finanziano la ricerca: Google, Facebook, TikTok, Amazon. Sono quelli che hanno comprensibilmente più investimenti in questo ambito perché hanno più da guadagnare. Se diventassero monopoli farebbero quello che da un punto di vista economico sarebbe la scelta più razionale e logica: li applicherebbero al loro ambito commerciale, che è la pubblicità, la persuasione. Il rischio è che creino delle pubblicità troppo potenti. Già oggi la pubblicità mirata creata con degli algoritmi è molto potente: altrimenti queste aziende non sarebbero miliardarie e gigantesche. Se aggiungiamo la possibilità di fare persuasione ancora più mirata, con pattern comportamentali che solo l’AI percepisce e con messaggi personalizzati super invadenti, sia scritti che visivi, diventa troppo. Se poi questo lo immaginiamo per una campagna politica, saltano tutte le garanzie e tutti i paletti».

Scritto da:

Antonio Dini

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin