Si inizia a parlare di test clinici sull’uomo per i nanorobot destinati ad applicazioni in ambito medico. In particolare, negli Stati Uniti, attualmente, sono quattro le giovani aziende che lavorano in questa direzione, con l’obiettivo di portare le proprie nanomacchine agli studi di fase 1, successivi a quelli di laboratorio e alla sperimentazione preclinica sugli animali.
L’articolo “Delivering drugs with microrobots”, apparso su Science il 7 dicembre 2023, ha riportato l’attenzione della comunità scientifica internazionale sull’applicazione concreta, fattiva, dei nanorobot in medicina.
Il suo autore, Bradley Nelson, professore di Robotics e Intelligent Systems al Politecnico di Zurigo, molto semplicemente si chiede “dove sono” queste minuscole macchine biocompatibili da iniettare nel corpo umano per esplorarlo con più facilità, ripararlo dall’interno e somministrargli farmaci in modo preciso e mirato. Sono anni che ne sentiamo parlare per bocca dei ricercatori – commenta – ma ancora non le vediamo uscire dai laboratori ed entrare nel vivo della sperimentazione clinica. Quanto manca a questo passaggio?
Prima, però, di rispondere alla legittima domanda, è d’obbligo una precisazione di tipo semantico. Nelson, nel suo scritto, parla di “microrobot” perché – come lui stesso afferma – è l’espressione maggiormente in uso, quella più popolare e generica. Il suo significato, in realtà, rimanda a robot dalle dimensioni che vanno da un micron (ossia un centesimo di capello) fino a pochi millimetri di scala.
Ma se il dispositivo è più piccolo di un micron, allora si tratta di un nanorobot (detto anche “nanobot”) e attiene all’ambito di studi della nanorobotica, il cui compito è la realizzazione di robot dalle dimensioni che variano da 0,1 a 10 micrometri (dove un micrometro corrisponde alla millesima parte del millimetro), attingendo a criteri e metodologie proprie delle nanotecnologie e dei processi di nanofabbricazione. Che è la materia di cui ci occuperemo in questo articolo.
Takeaway
Nanorobot e medicina: le applicazioni attese in ambito sanitario
Lo studio al quale si deve la progettazione del primo nanodispositivo spesso quanto un capello umano, in grado di muoversi in autonomia all’interno dei liquidi (funzionava a carburante glucosico), risale al 2004 e reca la firma dell’Università della California. Ebbe il merito di inaugurare la robotica su piano nanometrico che, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, ebbe fin da subito, tra i filoni di ricerca più affascinanti, la costruzione di nanomacchine dalle dimensioni di una cellula, tali da essere iniettate nel corpo umano e, al suo interno, di muoversi come fa, nella realtà, un robot di grandezza naturale.
Insomma, il campo di applicazione elettivo dei nanorobot è, dal loro esordio, la medicina. Al punto che, già prima del 2010, i ricercatori che iniziavano a occuparsi della materia coniarono il termine “nanomedicina”, a designare, nel settore, quella sfera in cui, in futuro, il ricorso alla nanorobotica avrebbe permesso di penetrare una cellula vivente per rilasciarvi molecole ed effettuare tutte quelle operazioni che, normalmente, richiedono manovre di microchirurgia invasiva.
Costituiti da materiali sintetici, biologici (come i filamenti di DNA) oppure da entrambi (anche se la maggior parte si muove per mezzo di magneti), i nanobot, oltre al trasporto e al rilascio di farmaci in punti specifici all’interno del corpo (la cosiddetta “drug delivery”), hanno anche le potenzialità per ristrutturare tessuti, suturare vasi sanguigni, essere inviati in massa a sondare arterie e organi e a sciogliere i coaguli di sangue nel cervello dei pazienti colpiti da ictus.
È, tuttavia, il trattamento delle patologie oncologiche l’area terapeutica più interessante, alla quale guarda da sempre la nanorobotica. L’obiettivo è scavalcare la chemioterapia classica – troppo invasiva e aggressiva – proprio grazie alle dimensioni dei nanorobot immessi nell’organismo, capaci di raggiungere, anche nei punti di difficile accesso, le cellule cancerogene e di “sganciare” il farmaco direttamente in prossimità del tumore, bombardandolo, in questo modo, dall’interno e preservando così le cellule e i tessuti sani circostanti.
Sono questi i “compiti”, le operatività, che ci si aspetta da tali nanodispositivi nella pratica clinica quotidiana. E forse l’attesa sta per ridursi.
Il lavoro delle startup, sempre più vicine ai test clinici sull’uomo
“Quanto manca al passaggio dalla sperimentazione in laboratorio a quella clinica?” è la domanda che abbiamo lasciato in sospeso all’inizio e che Bradley Nelson si pone nel suo articolo in tema di nanorobot a supporto della medicina.
Ebbene, il professore del Politecnico di Zurigo è ottimista sul fatto che tali dispositivi siano in arrivo negli ospedali. Alcuni di loro – spiega – sono già passati dal laboratorio alla sperimentazione preclinica su modelli animali di grandi dimensioni, tra cui i maiali. E negli Stati Uniti ci sono almeno quattro startup – aggiunge – che stanno lavorando alla realizzazione di nanobot destinati alla sperimentazione clinica sull’essere umano, al fine di testarne la sicurezza e l’efficacia.
Una di queste è Bionaut, con sede a Los Angeles, la quale, a gennaio 2023, ha investito 43 milioni di dollari per portare le sue nanomacchine agli studi di fase 1, che coincidono – appunto – con i test sull’organismo umano.
Nel dettaglio, l’azienda americana è impegnata nello sviluppo e nella produzione di nanorobot grandi quanto la punta di una matita, deputati alla somministrazione mirata di farmaci per il trattamento di una malattia genetica rara chiamata “Sindrome di Dandy-Walker”, oggi diagnosticabile già durante lo sviluppo embrionale.
La patologia causa, nei bambini che ne sono affetti, una grave malformazione del cervelletto e di una delle cavità del cervello contenente il liquido cerebrospinale. La missione del nanodispositivo – tuttora in fase di costruzione – sarà rilasciare il principio attivo nel punto esatto in cui si trovano le cisti che bloccano il flusso del liquido spinale nel cervello e perforarle.
Si tratta di un approccio terapeutico inedito, dalla portata storica, che aprirà un nuovo corso nella gestione delle malattie genetiche rare.
Nanorobot in medicina: dove spinge la ricerca
In materia di nanorobot per la medicina, se le applicazioni maggiormente attese nella pratica clinica quotidiana sono quelle descritte in precedenza, sono del 2023 (l’anno in corso) due ricerche nell’ambito di studi finora inesplorati dagli ingegneri di nanorobotica, afferenti alla neurologia e alla fecondazione in vitro.
Risale al 30 novembre 2023 – illustra Nelson – la pubblicazione di un articolo su Advanced Science (“Motile Living Biobots Self-Construct from Adult Human Somatic Progenitor Seed Cells”), in cui i ricercatori della Tufts University, a Boston, raccontano come hanno messo a punto un nanobot utilizzando le cellule tracheali prelevate da pazienti volontari.
Perché la trachea? Perché, al suo interno, presenta una struttura a “ciglia ondeggianti” (fatta per catturare microbi e materiale proveniente dall’esterno) che si è rivelata utile al gruppo di studio per progettare un organoide dotato di ciglia volte all’esterno.
A seconda della forma delle loro ciglia e della copertura di queste ultime, questi nanorobot sarebbero in grado di muoversi in linea retta, girare in tondo oppure oscillare. Ma la scoperta inaspettata – riferisce il professore – sta nel fatto che, quando il team, durante l’esperimento in laboratorio, ha fatto scorrere una minuscola asta di metallo lungo uno strato di neuroni posti in una capsula, il nanorobt fatto di ciglia tracheali ondeggianti «ha invaso l’area e ha innescato la crescita di nuovi neuroni».
Il mondo che questo primo e recente lavoro di ricerca apre ha a che vedere con la crescita di neuroni nelle aree danneggiate del cervello, grazie a normali cellule tracheali non modificate e capaci di muoversi da sole.
A febbraio del 2023, nel paper “Medical microrobots in reproductive medicine from the bench to the clinic”, apparso su Nature Communications, un team tedesco descrive la creazione di un nanorobot guidato da campi magnetici per future applicazioni nel settore della fecondazione in vitro.
In particolare, queste nanomacchine potrebbero essere impiegate per riportare in sicurezza nell’utero l’embrione fecondato esternamente, elevando così i tassi di riuscita degli impianti. Spingendosi oltre – aggiunge Bradley Nelson – gli autori dello studio immaginano, in futuro, nanorobot guidati da campi magnetici che, dopo aver trasportato l’embrione fecondato, lo rilasciano nel corpo della paziente per poi degradarsi in modo naturale.
Sfide vecchie e nuove
Fin dai primi lavori, nel 2004, i ricercatori dediti agli studi in tema di nanorobot per la medicina hanno avuto ben chiari gli obiettivi da perseguire, primo fra tutti quello relativo alle dimensioni delle nanomacchine da iniettare nel corpo umano, seguito dalla risoluzione delle problematiche riguardanti il loro movimento nei diversi tipi di fluidi e di tessuti corporei e dalla loro biodegradabilità.
In particolare, riuscire a realizzare nanobot dalle dimensioni sempre più ridotte, per indagini sempre più puntuali degli organi umani e un’analisi dei tessuti senza più ricorrere alle invasive biopsie, è la sfida numero uno per gli ingegneri di nanorobotica.
Attenzione, però – avverte il professor Nelson – alla viscosità del sangue umano, rea di impedire a nanodispositivi sempre più piccoli di nuotare nella direzione opposta nel caso in cui il flusso sanguigno fosse particolarmente rapido.
Un altro nodo cruciale ha a che fare con la biodegradabilità dei nanorobot nel flusso sanguigno e – in correlazione a tale criticità – col grado di sicurezza dei materiali utilizzati per la loro fabbricazione e, più in particolare, con la loro eventuale tossicità.
Ma, alle soglie dei test clinici sull’uomo – sottolinea, infine, il docente – si pongono anche ostacoli normativi, riferiti, nello specifico, alla funzione di drug delivery dei nanorobot per la medicina. Nel mirino à la combinazione “farmaco-dispositivo”:
«Anche se il farmaco è già ben noto e autorizzato, trattandosi di un rilascio “in loco”, con concentrazioni significativamente più elevate rispetto alla somministrazione classica, le Autorità di regolamentazione locali esigeranno ulteriori studi, allungando così i tempi di attesa della sperimentazione sull’organismo umano»
conclude Nelson.