La rimozione delle nanomacchine una volta terminato l’intervento, rappresenta il tallone di Achille di tutte le terapie endovascolari per mezzo di nanobots iniettabili nel corpo umano. Dall’Ateneo di Hong Kong, un sistema ibrido per il trattamento delle trombosi - di recente passato alla fase di studi preclinici - segna un passo avanti significativo per la ricerca.

Mentre, a Los Angeles, una giovane azienda (Bionaut) sta programmando di traghettare i propri nanobots – destinati al drug delivery per il trattamento di una malattia genetica del sistema nervoso centrale – dalla fase di sperimentazione preclinica a quella sugli esseri umani, in Cina un gruppo di ricercatori del Department of Mechanical and Automation Engineering dell’Università di Hong Kong ha recentemente inaugurato gli studi in vivo – ossia sugli animali – per testare l’impiego di “nanobots recuperabili”, rimovibili, dopo il loro utilizzo all’interno dei vasi sanguigni, in particolare nell’ambito della terapia trombolitica.

Il team ne parla in “tPA-anchored nanorobots for in vivo arterial recanalization at submillimeter-scale segments”, articolo pubblicato su ScienceAdvances il 31 gennaio 2024, il cui focus verte su una criticità rimasta, ad oggi, insoluta nella nanorobotica per terapie endovascolari, di qualsiasi natura esse siano, come spiegano gli stessi autori:

«I nanobots rappresentano un approccio promettente alla terapia endovascolare ad alta precisione. Tuttavia, i vasi sanguigni sono un sistema estremamente complesso e l’esecuzione di una terapia interventistica in questi segmenti submillimetrici resta un’operazione impegnativa. Sebbene i nanobots siano in grado di penetrare in sezioni dalle dimensioni dell’ordine di un millimetro o più piccole, hanno da sempre un problema: essendo costituiti, in parte, da elementi non biodegradabilidevono essere rimossi subito dopo l’uso. Il che, dato l’ambiente in questione, pone una grande sfida»

Vediamo, dunque, che tipo di nanomacchina è stata sviluppata dal gruppo di studio, nel tentativo di superare l’annoso ostacolo negli interventi su pazienti con trombosi in atto.


A differenza delle nanoparticelle per applicazioni di drug delivery nel corpo umano, i nanobots, in quanto robot a tutti gli effetti, non sono costituiti esclusivamente da aggregati molecolari, dunque non sono completamente biodegradabili. Da qui l’esigenza di mettere a punto modelli in grado di essere recuperati agilmente, anche quando l’ambiente in cui operano è complesso, submillimetrico e ramificato.
Un team di ricercatori cinesi ha ideato un micro sciame colloidale di nanobots fatti di ossido ferroso-ferrico per la terapia trombolitica all’interno dei vasi sanguigni. Le nanomacchine, dopo il rilascio del farmaco direttamente nel trombo, fanno ritorno verso il catetere che le ha posizionate nel sito target, nuotando all’indietro.
Uno degli impatti (forse il più cruciale) che è possibile ipotizzare pensando a scenari futuri in cui i nanobots per la terapia trombolitica supereranno la fase sperimentale sugli esseri umani, riguarda gli aspetti relativi alla loro sicurezza, per i quali è pacifico prevedere un quadro legislativo ad hoc, che regolamenti il settore.

Che cosa è la terapia trombolitica e in che modo i nanobots la supportano

Ricordiamo che il “trombo” fa riferimento a una massa di sangue piuttosto solida, in grado di ostruire i vasi sanguigni – arteriosi o venosi – bloccandone la circolazione e, dunque, l’affluire di sostanze nutritive e di ossigeno all’organo che irrorano.

È questa la dinamica che porta alla trombosi coronarica (infarto), a quella che causa l’ictus cerebrale e l’embolia polmonare [fonte: Thrombosis: symptoms and causes – Heart Research Institute].

Il trattamento terapeutico della trombosi, a seconda della specificità dei casi, può prevedere l’intervento chirurgico (trombectomia meccanica) oppure la terapia trombolitica (chiamata anche “trombolisi”) per mezzo di farmaci cosiddetti “fibrinolitici”, atti a dissolvere la massa di sangue. Questa seconda opzione può essere effettuata attraverso somministrazione endovenosa oppure direttamente nel punto esatto in cui si è formato il trombo, ricorrendo all’inserimento di un catetere [fonte: Intravenous Thrombolysis for Acute Ischemic Stroke –  National Library of Medicine].

Rispetto, però, al farmaco trombolitico iniettato in vena mediante flebo – rammentano i ricercatori dell’ateneo cinese – il rilascio diretto, con catetere, del fibrinolitico nel vaso sanguigno ostruito ha il vantaggio di riuscire a gestire con maggiore accuratezza il dosaggio del farmacoriducendo il rischio di eventuali effetti collaterali come le emorragie. Rischio – questo – non così remoto durante le trombolisi.

In generale, i primi “nanomotori” (venivano chiamati così, fino a una decina di anni fa, i robot dalle “dimensioni nano” iniettabili nel corpo umano, deputati al trasporto e alla consegna dei farmaci nei siti bersaglio) furono progettati – oltre vent’anni fa – proprio per andare incontro all’esigenza di una somministrazione farmacologica «più rapida e con un rilascio mirato e circoscritto del farmaco, solo dove serve» rimarcano gli autori. E, nello specifico, in merito alla terapia trombolitica aggiungono:

«I nanobots offrono un metodo più preciso, rispetto a quello solo col catetere, per intervenire direttamente sulle ostruzioni dei vasi sanguigni, in particolare nei piccoli segmenti situati in zone molto profonde, grazie alle loro dimensioni assai ridotte – da 0,1 a 10 micrometri – e all’elevata controllabilità del loro movimento»

Limiti e criticità dei nanobots all’interno dei vasi sanguigni

In tema di nanobots per la terapia trombolitica, sono state diverse le soluzioni messe a punto nell’ultimo decennio, con l’obiettivo di perfezionare il controllo del movimento delle nanomacchine in un ambiente fluido, submillimetrico e spesso situato in aree molto in profondità come quello dei vasi sanguigni, riuscendo, in primis, a mantenere la rotta durante il tragitto, a centrare in sicurezza il sito target senza danneggiare le pareti dei vasi, a rilasciare il giusto quantitativo di farmaco senza disperderlo e – aspetto cruciale in questo ambito – a tornare indietro.

Solo per citare alcuni esempi, un lavoro del 2017 portò allo sviluppo di nanobots capaci di muoversi attraverso il principio della “chemiotassi”, vale a dire con un «movimento di traslazione orientato da uno stimolo chimico presente nell’ambiente» [fonte: Chemotaxis-Guided Hybrid Neutrophil Micromotors for Targeted Drug Transport – National Library of Medicine].

Un altro studio, sempre dello stesso anno, trovò un compromesso tra proprietà idrodinamiche e proprietà magnetiche, supportando l’esecuzione, da parte dei nanobots, di movimenti più calibrati all’interno dei vasi sanguigni [fonte: “A novel tissue culture tray for the study of magnetically induced rotation and translation of iron oxide nanoparticles” – IEEE Xplore], mentre nel 2020 fu la volta di un nanobot di silice e platino poroso, con membrana piastrinica, «da posizionare in profondità nel trombo per rilasciare il farmaco  e muoversi attraverso la luce del vicino infrarosso» [fonte: “Platelet-derived porous nanomotor for thrombus therapy” – ScienceAdvances]. Tali studi si sono fermati tutti alla fase in vitro.

Riguardo ai nanobots dalle sole proprietà idrodinamiche (che si muovono nei vasi sanguigni nuotando, con abilità sia nel percorso di andata che di ritorno), il team dell’Università di Hong Kong osserva che, rispetto a quelli tradizionali – guidati soltanto da campi magnetici – vantano, sì, un rilascio accelerato del farmaco, ma parte di questo si disperde nell’ambiente circostante, col rischio di diffondersi in aree del corpo in cui non serve affatto, provocando emorragie. Dunque non sono sicuri.

Da qui l’intuizione di incentrare il proprio lavoro sullo studio di una metodologia “ibrida”, che potesse rimuovere in sicurezza – recuperandole – le nanomacchine dal flusso sanguigno una volta che il loro compito è stato portato a termine. Perché, teniamolo a mente, i nanobots, in quanto macchine, non sono completamente biodegradabili come, invece, lo sono le nanoparticelle (anch’esse iniettabili nel corpo umano per applicazioni di drug delivery, ma formate da aggregati molecolari) le quali, però, né camminano, né nuotano. Distinzione importante.

Micro sciame di nanobots recuperabili a terapia conclusa

Il sistema nanorobotico progettato dal gruppo di studio cinese e destinato alla terapia trombolitica, si compone di un micro sciame colloidale formato da nanobots Fe3O4@mSiO2, recuperabili dopo il loro utilizzo e ancorati al farmaco trombolitico denominato “attivatore tissutale del plasminogeno” (in inglese “tissue Plasminogen Activator” o tPA). Quest’ultimo viene iniettato nel sito bersaglio sotto attuazione magnetica assistita da catetere a palloncino, con sistema di imaging per fluoroscopia a raggi X.

La sigla Fe3O4@mSiO2 – lo ricordiamo – rimanda a nanostrutture di ossido ferroso-ferrico (Fe304) rivestite di silice mesoporosa (mSiO2) [fonte: Facile synthesis of core\shell Fe3O4@mSiO2(Hb) and its application for organic wastewater treatment – ScienceDirect].

Gli autori sottolineano che il colloide è una sostanza naturale, fatta di micro-particelle di oligoelementi sospese in acqua e che il micro sciame di nanobots (“tPA-nbot”) è ibrido, proprio perché avvolto in sostanza acquosa (colloidale, appunto) e, al contempo, magnetizzato grazie all’ossido ferroso-ferrico. Questa doppia natura lo rende capace di nuotare agilmente e velocemente nel vaso sanguigno, ma anche di compiere con precisione – guidato dall’esterno – il tragitto di andata e ritorno.

«Il catetere posiziona lo sciame in prossimità del trombo, quindi i tPA-nbot vengono rilasciati e guidati da un campo magnetico esterno verso la massa di sangue. Nel dettaglio, il loro movimento sciamante è innescato da campi magnetici rotanti, che inducono i nanobots magnetizzati a formare delle “catene”. Quindi, la loro superficie entra in contatto col trombo, avviando il processo di trombolisi» illustra il team.

Riguardo al recupero dei nanobots al termine della terapia, dopo la loro consegna diretta al sito target del tPA, si assiste al loro nuoto all’indietro verso la punta del catetere, che li raccoglie e li rimuove dal vaso sanguigno, in un percorso a ritroso verso l’uscita dal corpo umano.

Rappresentazione del futuro studio clinico sull’essere umano del nanobot “tPA-nbot” per trombolisi mirata, con rilascio del farmaco guidato da fluoroscopia a raggi X e il recupero finale della nanomacchina utilizzando un'attuazione magnetica assistita da catetere (Fonte: “tPA-anchored nanorobots for in vivo arterial recanalization at submillimeter-scale segments” - https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.adk8970)
Rappresentazione di uno scenario futuro, in cui i nanobots recuperabili per trombolisi mirata potrebbero passare allo studio clinico sull’essere umano (Fonte: “tPA-anchored nanorobots for in vivo arterial recanalization at submillimeter-scale segments” – https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.adk8970)

Glimpses of Futures

I ricercatori del Department of Mechanical and Automation Engineering dell’Università di Hong Kong hanno avviato la sperimentazione sugli animali del micro sciame tPA-nbot per la terapia trombolitica endovascolare.

Salvo interruzioni dovute a problematiche insormontabili, ci vorranno, però, molti anni prima che tali studi possano concludersi (con esiti positivi) e che, eventualmente, si passi a quelli sull’essere umano.

In generale, al momento, tutta la sperimentazione sugli animali dei nanobots con funzioni di drug delivery è ancora agli esordi e procede a rilento, a causa della complessità e delle peculiarità delle diverse patologie maggiormente oggetto di attenzione, tra cui – appunto – quelle vascolari, ma anche quelle oftalmiche, ortopediche, gastrointestinali e oncologiche [fonte: “Biosafety, functionalities, and applications of biomedical micro/nanomotors” – National Library of Medicine].

«Ad oggi, con i primi test, siamo riusciti a dimostrare che il nostro micro sciame di nanobots recuperabili post-uso è in grado di rimuovere un trombo in vitro (cioè NON su organismo vivente) in un arco di tempo di circa venti minuti, mentre ex vivo (ovvero su un tessuto vivente all’esterno dell’organismo), nella placenta umana, in 30 minuti» fa sapere il gruppo di lavoro, che intende, tuttavia, migliorare tale tempistica negli esperimenti sugli animali. E per quanto concerne il loro recupero post utilizzo, i test realizzati finora dal team parlano dell’80% di tPA-nbot raccolti in prossimità del catetere, per poi essere riportati in superficie.

Si tratta di risultati promettenti, forieri di future evoluzioni, anche se, negli anni a venire, la ricerca sul tema, se vorrà progredire, dovrà puntare a sciogliere definitivamente tutti i nodi che impediscono il controllo dei movimenti dei nanobots nei vasi sanguigni, garantendo, al tempo stesso, la consegna del farmaco trombolitico senza dispersioni.

Ma proviamo ora ad anticipare scenari futuri per mezzo della matrice STEPS, che ci consente di delineare gli impatti, su più fronti, dell’impiego sull’essere umano del micro sciame di nanobots rimovibili nell’ambito della terapia trombolitica endovascolare.

S – SOCIAL: la terapia trombolitica con iniezione, nei vasi sanguigni, di un micro esercito di nanobots che rientra alla base dopo avere svolto il proprio compito, proprio come farebbe un team di chirurghi in carne ed ossa, per i pazienti significherebbe un intervento meno invasivo, rapido e, soprattutto, sicuro perché con un dosaggio di scoagulanti più mirato rispetto al metodo tradizionale, con conseguente recupero in tempi più brevi delle proprie funzionalità dopo la trombosi.

T – TECHNOLOGICAL: l’evoluzione del metodo sviluppato dal gruppo di lavoro cinese per la progettazione dei suoi nanobots – che vede insieme una sostanza acquosa come quella colloidale e l’ossido ferroso-ferrico – in futuro potrebbe avere un impatto positivo su quei filoni della ricerca biomedica che studiano l’impiego di nanomacchine all’interno di ambienti fluidi, submillimetrici, impervi e ramificati come i vasi sanguigni. Si pensi, ad esempio, al trattamento di quelle masse tumorali situate in organi particolarmente irrorati di sangue come polmoni e fegato.

E – ECONOMIC: oltre all’impatto positivo che un intervento come quello descritto avrebbe sulla durata delle ospedalizzazioni, che diverrebbero più brevi, con relativa riduzione dei costi a carico dei sistemi sanitari, in uno scenario futuro in cui l’iniezione di nanobots nei vasi sanguigni umani diverrebbe prassi riconosciuta e ufficiale, sarà indispensabile creare, all’intero delle strutture ospedaliere, la figura dell’ingegnere biomedico specializzato in nanorobotica, a supporto del personale medico dedito alla terapia trombolitica endovascolare.

P – POLITICAL: dal punto di vista normativo, l’adozione di nanobots per la terapia trombolitica sull’uomo porrebbe tutta una serie di interrogativi riguardanti la loro sicurezza, sia sotto il profilo dei materiali usati per la fabbricazione (che non dovranno essere tossici), sia relativamente alle tecniche di inserimento e recupero delle nanomacchine. A tale riguardo, in uno scenario futuro, si dovranno prevedere un quadro legislativo che disciplini tali aspetti e un’apposita Commissione di vigilanza che svolga periodici controlli delle strutture sanitarie in cui si pratica la nanorobotica per interventi endovascolari.

S – SUSTAINABILITY: in futuro, l’evoluzione delle tecniche di somministrazione mirata del trombolitco da parte dei nanobots – solo dove necessario, direttamente nel trombo, col fine di scoagularlo in situ – eviterà in modo sempre più incisivo il rischio di dispersione del farmaco (con impatto positivo sulla riduzione dei suoi effetti collaterali) e, conseguentemente, il suo spreco. Possiamo dire, a tendere, la drug dlivery applicata alla terapia trombolitica endovascolare sull’uomo contribuirà all’uso sostenibile dei farmaci fibrinolitici, con ripercussioni positive sulla sostenibilità della sanità globale.

Scritto da:

Paola Cozzi

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin