Il Design Thinking si concentra sulla creazione per il mondo di oggi e per il futuro immediato. Di conseguenza, la fase di ispirazione è solitamente incentrata sull’indagine del presente e del passato immediato. Il Futures Thinking, invece, mira a illuminare le possibilità a 10-15 anni di distanza. Esplora il mondo con uno sguardo diverso perché cerca di mettere a fuoco idee differenti.

«Sono entrato da poco in questa seconda ottica: ho iniziato a studiare e occuparmi di Futures Thinking durante la pandemia».

Roberto Cobianchi non potrebbe essere più diretto e candido di così. La pandemia come occasione di studio e di scoperta, grazie anche a una serie di circostanze fortuite, come ci spiega all’inizio dell’intervista che si è tenuta con una videochiamata tra Milano e Bologna.

«Già da tempo ero diventato facilitatore che opera con la metodologia LEGO® SERIOUS PLAY® (LSP – Lego Serious Play). Dato che alcune delle attività che seguivo si erano interrotte perché erano tutte in presenza mi sono messo a cercare qualcosa online da seguire pensando al Design Thinking perché ho visto che i miei colleghi univano alla metodologia del Lego Serious Play anche altre metodologie e strumenti, come il business model canvas. Avendo molto meno da fare a causa del lockdown mi sono detto: ‘Questo è il momento giusto per studiare qualcosa di nuovo’».

Dal Design Thinking al Futures Thinking

Solo che, accanto al Design Thinking, Cobianchi ha trovato il Futures Thinking.

«E in quel momento mi sono detto: ‘Questa è una cosa nuova’. C’è molta gente sul mercato che è molto esperta di Design Thinking; invece, la curiosità mi ha portato a guardare quel che non conoscevo. Ho fatto un primo corso online dell’Institute for the Future di Palo Alto, che dall’inizio degli anni Sessanta fa studi sul futuro, e ho avuto conferma che era un mondo molto affascinante. Ma quel che mi ha realmente convinto è che loro, con il loro metodo e i loro strumenti, propongono qualcosa che è aperto a tutti».

Roberto Cobianchi nel suo profilo LinkedIn per prima cosa scrive la più recente: si definisce Foresight Practitioner, e solo dopo anche docente a contratto presso l’Università di Bologna, facilitatore del metodo Lego Serious Play e attivo in consulenza e formazione sui media digitali. La cosa più nuova per prima, che poi è anche la direzione del futuro: le cose nuove devono arrivare per prime.

«L’apertura per tutti del Futures Thinking è una sorta di democratizzazione degli studi sul futuro: puntano sulla riflessione personale, sull’immaginazione, sul lavoro che si può fare per creare immagini di futuro. Il Futures Thinking è una pratica e come pratica, strumento e mentalità è realmente aperto a tutti perché tutti noi abbiamo delle capacità immaginative, di creazione e di immaginazione».

La connessione che Roberto Cobianchi ha visto, o meglio intuito, all’inizio del suo avvicinamento al campo degli studi sul futuro è intrinsecamente legata alla disciplina: il Futures Thinking apre la strada a una strategia di qualità a lungo termine. Il Design Thinking apre la strada a prodotti e servizi incentrati sull’utente. Le intuizioni del pensiero futuro possono essere impiegate nel Design Thinking. Allo stesso modo, le intuizioni del Design Thinking possono essere impiegate nel Futures Thinking. I due campi sono in uno stato di entanglement, sono intrecciati come gli stati quantici dei sistemi fisici che interagiscono tra loro. Anche quando può sembrare che siano disconnessi, l’intuizione si trasferisce a distanze (concettuali) sorprendenti.

«Il mondo dei Futures Studies è molto ampio e cambia continuamente: ci sono decine di metodi e molti sono di tipo più quantitativo, riservati tra virgolette a chi si occupa di analisi dei trend. Altri metodi invece sono più qualitativi. Ci sono pratiche che lavorano sull’immaginazione, il gioco, la simulazione. È la persona che viene chiamata a ingaggiarsi con uno scenario: a immaginare e costruire uno scenario, analizzare le notizie e i segnali che incontra dai social, nelle riviste, in rete. Man mano che studiavo e approfondivo, questo aspetto mi ha definitivamente conquistato».

Il processo creativo ed esplorativo del pensiero futuro

Come ogni avvicinamento basato su affinità elettive, ha giocato un ruolo sia una propensione interiore agli aspetti più qualitativi che non quantitativi della ricerca, e la sua dimensione di pratica individuale e di gruppo. Ma, ovviamente, in questi processi di avvicinamento, c’è sempre anche un punto di vista, una figura con uno sguardo più forte che dà prospettiva e ordina la realtà delle idee.

«È stata una fortuna, una forma di serendipity, aver trovato l’ambito più qualitativo di questi studi. Da tre anni ci lavoro sopra. Poi, ho trovato il lavoro fatto da Jane McGonigal, che si occupa di game research all’Institute for the future, che ha lanciato una community online: Urgent Optimists, che è una community online. Ha strutturato anche dei MMORPG, acronimo che sta per Massively Multiplayer Online Role-Playing Game – cioè “giochi di ruolo multigiocatore in rete di massa” – che mi hanno ulteriormente affascinato perché ho ritrovato la dimensione del “gioco serio” che viene dalla metodologia Lego Serious Play: non occupare il tempo con delle attività ludiche ma usare quelle attività per occuparsi di cose serie».

L’apertura a nuovi modi non è un semplice cambio di metodologia ma comporta anche l’apertura a nuovi modi di organizzare le idee. Il pensiero futuro è un processo creativo ed esplorativo che utilizza il pensiero divergente, cercando molte risposte possibili e riconoscendo l’incertezza. È una mentalità diversa dal pensiero analitico, che invece utilizza il pensiero convergente per cercare la risposta giusta e ridurre l’incertezza.

«Ho ripreso a fare workshop con la metodologia Lego Serious Play molto lentamente. Ho immaginato la possibilità di integrare i due metodi: il metodo dei Futures Thinking con la metodologia Lego Serious Play, in buona sostanza. Ho scritto un piccolo booklet per facilitatori, una guida pratica che permette di integrare i due mondi. L’idea è che quel modo di pensare i futuri sfrutta ed enfatizza la capacità immaginativa delle persone. Questo porta fuori e fa salire a galla quello che fa parte della sfera più intima delle persone: come senti te stesso, come percepisci il mondo, quali desideri, quali obiettivi di futuro, cosa ti frena. È il dominio dei “giochi seri” e della metodologia Lego Serious Play. Ho scritto il booklet anche perché adesso ho pensato di dedicare la maggior parte del mio tempo per approfondire queste tecniche e capacità».

Il gioco è una cosa seria

Roberto Cobianchi, Foresight Practitioner, docente presso l'Università di Bologna, facilitatore del metodo LEGO® SERIOUS PLAY®
Roberto Cobianchi, Foresight Practitioner, docente presso l’Università di Bologna, facilitatore del metodo LEGO® SERIOUS PLAY®

Ma cosa “esce” dal gioco serio? E come? E perché? Cosa accade quando si stabilisce una pratica che permette di portare fuori la parte più intima delle persone? Il concetto è apertamente intuibile ma intimamente privato, nascosto. La narrazione più nota è che i giochi seri sono un metodo che aiuta i partecipanti in un processo di pensiero creativo e di problem solving. Durante il workshop ogni partecipante è invitato a costruire una risposta o proporre una soluzione a una domanda utilizzando, nel caso della metodologia Lego Serious Play, un piccolo set di mattoncini di Lego (dove la metodologia è stata creata alla fine degli anni Novanta, dapprima per uso interno), tutti accuratamente scelti. Però come funziona, in realtà? Cosa succede dietro le quinte, dietro il velo della mente conscia?

«A livello individuale i giochi seri fanno emergere quello che la persona sa senza sapere di saperlo. È una maieutica. Una delle teorie: la connessione mano-mente. Secondo le ricerche delle neuroscienze le nostre mani sono l’organo del nostro corpo più connesso al nostro cervello dal punto di vista neurale: le terminazioni nervose arrivano a toccare il 70-80% della mente. Il risultato è che le mani hanno la capacità di pescare nel nostro cervello informazioni che noi non sapevamo di avere. Per spiegare questo è necessario fare un attimo un passo indietro: una delle teorie scientifiche per la rappresentazione del nostro cervello è quella cosiddetta “Triune Brain” creata negli anni Sessanta da Paul D. MacLean e mappa il nostro cervello in tre parti fondamentali».

Le tre parti, spiega Roberto Cobianchi, hanno ruoli e funzioni molto diverse. La prima è la parte razionale, cioè la corteccia frontale, a cui accediamo ragionando, elaborando il pensiero che si articola in frasi e immagini. La seconda è la parte emotiva, il cervello limbico, più centrale, dove ci sono le emozioni: è quella parte del cervello che fa il modo che alcuni ricordi si fissino nella nostra memoria perché sono caricati di emozioni. Cioè, un determinato momento ci colpisce e si fissa e diventa memoria. Infine, c’è la terza parte, quella posteriore, che è la parte rettiliana dove ci sono i nostri quattro istinti fondamentali: lotta, fuggi, alimentati e riproduciti. In pratica, le tre parti del cervello definiscono la parte razionale, quella emotiva e quella istintiva della nostra mente.

«Bisogna considerare che tutte le decisioni che prendiamo sono razionale al 10%. Tutto il resto è emotivo e istintivo. Non compriamo quell’auto nuova che abbiamo scelto perché ha un consumo chilometrico più basso delle altre. Ci sono certamente anche queste considerazioni, ma alla fine scegliamo quella che ci piace. La razionalizzazione avviene dopo, per giustificare una scelta di tipo emotivo».

Questa spiegazione serve a far capire cosa succede quando entra in gioco la relazione tra il cervello e le mani.

«Il fatto che le mani siano connesse al 70-80% con il cervello vuol dire che queste accedono a parti emotive e istintive a cui non possiamo accedere razionalmente. Tutto questo nella metodologia Lego Serious Play si traduce in comportamenti molto interessanti: costruendo un modellino di Lego in risposta a una sfida del facilitatore, le mani scelgono i mattoncini e li montano assieme in un modo che appare in buona parte razionalmente casuale ma che invece è forte del concetto che dicevamo prima: le scelte sono casuali per la mente razionale ma profondamente sensate e “razionali” per le mani, cioè per le componenti istintiva e emotiva della mente. Per questo la metodologia Lego Serious play porta a galla emozioni e sensazioni di cui una persona non era consapevole: ci permette di dare un significato a quello che stiamo costruendo, anche se apparentemente lo facciamo in modo casuale. Il gioco serio fa emergere cose che già ci sono ma non siamo in grado di raggiungere, a cui non riusciamo a dare un significato e non sostanzialmente di cui non siamo consapevoli».

Far emergere ciò che non sappiamo di sapere

Il Design Thinking è un approccio più recente rispetto al pensiero tradizionale e ha il potenziale per aiutare le organizzazioni a risolvere problemi complessi in modo più efficace. Pensare al futuro, però, è una mentalità, non un metodo. Richiede qualcosa di più.

«Nel modello del Lego le persone trasferiscono quel che sentono o provano davvero su un certo tema, non la risposta razionale. Le nostre riunioni sono battaglie tra cervelli, perché parliamo e quindi accediamo al mondo di conoscenza che abbiamo costruito. Se parliamo ad esempio di immigrazione, ognuno di noi pesca tra informazioni, vissuti, valori che ha già ma ne parliamo razionalmente. Non abbiamo altre possibilità. Il nostro cervello funziona in questo modo. Ma facendo degli incontri nei quali si costruiscono dei manufatti per l’appunto con le mani, lì dentro trasferiamo quel che veramente sentiamo e pensiamo di quel tema».

È, spiega Roberto Cobianchi, la teoria dietro alla finestra di Johari, che prende il nome dai suoi due ideatori, Joe Luft e Harry Ingham. Si tratta di un modello che concettualizza i meccanismi di conoscenza e auto-conoscenza delle persone. La teoria cerca di spiegare in che modo l’Io si relaziona con sé stesso e con gli altri, attraverso diversi livelli cognitivi e relazionali. Sono quattro aree in cui la nostra mente sa di sapere, sa di non sapere, non sa di sapere e non sa di non sapere. La metodologia Lego Serious Play fa emergere, durante l’attività, quel che la mente non sa di sapere. È un sapere spesso emotivo ed istintivo.

«È una emergenza personale, ma quando viene messa assieme a quella degli altri emergono nuove idee, nuove possibilità, nuovi rischi, nuove strade. Quel che emerge a livello personale viene messo assieme con tecniche specifiche per far emergere una nuova visione condivisa del gruppo sul tema. È tutto basato sul far emergere ciò che le persone sanno senza esserne consapevoli».

Accanto a questo lavoro di maieutica c’è la figura che fa da ostetricia. Il termine “ostetrica” deriva dal latino ob-stetrix, e cioè “stare davanti” (alla partoriente). Il compito dell’ostetrica non è esclusivamente quello di assistere la donna durante il parto, ma anche quello di curarla nelle sue problematiche di gestazione. Analogamente, il ruolo del facilitatore non è quello di chi deve somministrare un questionario magari telefonico, ma fa molto di più. Per questo ne esistono di vari tipi e con vari livelli di competenze tecniche.

«Io non sono tecnicamente un facilitatore. Facilito sì ma le sessioni con il metodo Lego. Il ruolo del facilitatore è facilitare le persone a fare quel che abbiamo detto prima: scoprire cosa c’è dietro ai modelli che ha costruito. Una delle regole fondamentali nella metodologia Lego è di aiutare le persone a capire e a vedere e a dare un significato, non è quello di interpretare quel che è stato fatto. Per questo è vietata la domanda che inizia con il perché: “perché questo” o “perché quello” vuol dire che il facilitatore ha già dato un giudizio. Invece ci sono domande che portano le persone a fare delle interpretazioni. Ad esempio: non perché su una tavola c’è un’area di vuoto. Invece, si chiede “cosa c’è qui” e “cosa c’è là”; oppure, si chiede di che colore sono i mattoncini: se una persona mi dice ad esempio che un certo blu è un blu “oltremare” e un’altra che è un blu “istituzionale”, questo indica che cambia totalmente come le due persone vedono e quindi interpretano. L’obiettivo è dare un significato a quel che è stato costruito. E notare le incongruenze: se una persona racconta una cosa ma con le mani ne costruisce una cosa diversa la verità sta in quel che ha costruito, perché le mani non possono mentire. Le mani sono il Google del cervello: tirano fuori quel che c’è dentro e la nostra sfida è dare un significato a quello che le mani hanno tirato fuori. Tuttavia, per quanto riguarda il mio statuto di facilitatore, questo è un mondo ampio e con molte certificazioni di livelli diversi. Io oltre una certa soglia non mi spingo perché non ho l’esperienza e le competenze per gestire determinate situazioni con forte emotività. Una cosa che, raccontando cose che sino a quel momento le persone non avevano capito o riconosciuto può capitare. Quindi non mi spingo oltre una certa soglia, ma ci sono facilitatori con la metodologia corretta, che di professione sono coach o psicologi o educatori e che quindi in quei mondi emozionali hanno le competenze per manovrare le leve giuste».

Roberto Cobianchi, l’unione tra Futures Thinking e Serious Playing

Cosa c’entra tutto questo con il Futures Thinking? Perché l’immaginazione e il gioco serio è una possibilità in più per “l’aspirante futurista”, come si definisce Roberto Cobianchi?

«Perché consente di collocare meglio le risposte. Una delle cose che sto facendo e che da novembre mi sono dato come impegno fisso è produrre uno scenario di futuro al mese. Scriverlo, seguendo il metodo che ho imparato, cioè raccogliendo segnali e forze di cambiamento che stanno dietro a quello che penso sia rilevante e costruire una narrazione, cioè uno scenario. L’ultimo che ho pubblicato sul mio canale riguarda la maternità surrogata commerciale: lo scenario è quello di un mondo futuro dove la pratica è legale e gestita a livello internazionale. Un altro scenario, precedente a questo, descriveva l’estensione del diritto di voto in tutta Europa ai bambini di sei anni. Voglio usare questi scenari non come strumenti di previsioni di un futuro, perché ovviamente è impossibile dire se tra dieci anni succederà questo o quello. Invece, voglio usare questi scenari per stimolare le persone. Facendo loro domande del tipo: “Ti svegli una mattina, tra dieci anni, e leggi che l’albo internazionale delle madri surrogate ha raccolto cento milioni di iscrizioni. Come ti senti? Cosa pensi? Come reagisci? Se hai amiche che vorrebbero ma ti chiedono consiglio, cosa gli diresti? Se ci fossi tu, come ti comporteresti?».

«È l’immersione di una persona in uno scenario futuro, tra i tanti possibili. Uso questi scenari sempre di più: mi servono per stimolare sempre più conversazioni tra persone, facendo indagare loro, a partire dalla reazione immediata allo scenario, quali sono i loro valori profondi che ne vengono fuori. Provano stupore, disgusto, rabbia, entusiasmo? Tutto questo si appoggia su caratteristiche uniche, personali, che alla fine definiscono la personalità come essere umano di ogni singolo individuo, definiscono la sua identità. Ma lo scopo è un altro: non è tanto predire il futuro quanto preparare al futuro».

Roberto Cobianchi sta lavorando con questa metodologia che mischia Futures Thinking e Serious Playing alla attivazione di determinate aree funzionali nelle persone. Non è una ricerca teorica, generalizzabile ed esportabile. Invece, è un modo per cambiare le persone una dopo l’altra, un workshop dopo l’altro.

«Questo lavoro serve, più che per fare una previsione del futuro, per preparare al futuro. Allena la mente facendo giochi di simulazioni per renderla più adatta a scontrarsi con una possibilità nuova. A pensare l’impensabile. Quel che si dice: pensare l’impensabile e immaginare l’inimmaginabile. Come la palestra allena i muscoli rompendo la fibra e facendola riformare più robusta, così la simulazione rompe i bias che tutti noi inevitabilmente abbiamo. Sono bias che ci aiutano tantissimo nella vita quotidiana: se dovessimo ri-categorizzare le cose che ci sono successe durante il giorno tutte le sere saremmo mentalmente distrutti dopo pochi anni. Invece, le categorie ci aiutano a capire il mondo, a dare valore e significato alle cose, a prendere le decisioni, in buona sostanza a vivere e a fare tutto. Tuttavia, queste categorie di pensiero hanno anche un altro effetto oltre a tranquillizzarci: diventano delle grandi trappole perché scegliamo più o meno consapevolmente di usarle come rifugio. Dire “l’immigrato è una persona tendenzialmente pericolosa” è sostenuto da tanti casi ma se diventa una categoria assoluta ci impedisce di immaginare delle possibilità future alternative».

Per questo pensare che un bambino di sei anni vada a votare alle elezioni politiche sembra assurdo: anzi lo è certamente ma, dice Cobianchi, approfondire questa possibilità potrebbe far venire in mente delle altre possibilità di educazione dei giovani alla politica o alla cosa pubblica in modo diverso. O trovare il modo per far votare i giovani che oggi non votano più. La forza di questo tipo di approccio basato su scenari, dice Cobianchi, sta proprio nel fatto che permette alle persone di entrare in un mondo strano e consente loro di provare a viverlo, ovviamente in modo guidato, immaginando le possibili reazioni proprie e degli altri. Uno scenario totalmente diverso rispetto a quel che cerchiamo di solito, perché offre la possibilità di esplorarlo. Immaginando e inventando nuovi manufatti, posizioni, movimenti di protesta o a favore. Questo, dice Roberto Cobianchi, aiuta a creare situazioni e memorie di quei futuri che non esistono.

«Da due anni sto proponendo laboratori serali gratuiti di un’ora e mezza facendo attività diverse. Quel che ho imparato a livello personale è che misurarsi con uno scenario ti porta a riflettere su come stai vivendo oggi. Ho fatto una simulazione, ad esempio, di un mondo che azzera i rifiuti: oggi le persone producono 50 Kg di rifiuti al mese per ogni persona e che vanno portati a 10 Kg. Ad esempio, ho immaginato che il governo avesse tolto tutti i bidoni della spazzatura. La simulazione è durata dieci giorni e mi ha lasciato una serie di ricordi, di memorie di un nuovo punto di vista, ad esempio, quando faccio la spesa. Questa è un’idea di cambiamento. Anche la pandemia ci ha lasciato una serie di comportamenti che non avremmo immaginato. I futuri sono molti, imprevisti e introducono cambiamenti di vario genere».

Costruire una strategia a prova di futuro

Il futuro di questa idea di cambiamento? Di questo tipo pensiero dei futuri per costruire la capacità di reagire al cambiamento?

«Voglio portare questo tipo di metodologia a livello di organizzazione, nelle aziende, nel settore non-profit. Questo tipo di attività permette alle persone di elaborare degli scenari, osservare i segnali di cambiamento e usarli come informazione per farci qualcosa in prospettiva. Portare nelle aziende questa capacità e questo tipo di allenamento mentale serve a non fermarsi sulla superficie delle cose che leggiamo. Lo scenario non è necessariamente il futuro in cui si troverà quella determinata azienda. E le cose che succedono in un determinato settore non sono necessariamente quello che accadrà a chi opera in quel settore: i cambiamenti arrivano anche da fuori. Il mio obiettivo è portare questi modi di costruzione degli scenari affinché le persone nelle organizzazioni siano in grado di costruire scenari futuri per se stessi. E devo dire che è sorprendente vedere cosa succede quando nelle aziende si impara questa metodologia».

Tutti, gli individui, i gruppi, le organizzazioni, le aziende, pensano al futuro. Nelle aziende la vision, la mission e gli altri documenti creati servono a stabilire una visione del futuro. Però è un futuro singolo, predefinito. È una visione che potrebbe essere in contrasto con i tanti modi in cui i futuri si realizzano. Questo metodo, dice Cobianchi, è un modo per mettere alla prova la visione e la strategia che è stata creata con uno stress-test basato su futuri diversi, non previsti. La strategia resisterebbe a un futuro radicalmente diverso? L’obiettivo, dice Roberto Cobianchi, è aiutare le aziende a costruire una strategia a prova di futuro.

«Non mi vedo a fare il consulente in giacca e cravatta che racconta alle aziende come sarà il loro futuro. Mi vedo piuttosto come una persona che è in grado di abilitare le strutture e le persone a fare delle cose che consentano loro di uscire dalla gabbia dei preconcetti del futuro ufficiale. Senza un giudizio di merito, ma con l’idea di renderli capaci di creare una strategia a prova di futuro».

Scritto da:

Antonio Dini

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin