Con Marco Annoni - bioeticista e coordinatore del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi - ci soffermiamo sulle implicazioni di carattere morale di quelle che, in questo momento, nel campo delle scienze della vita, appaiono come le innovazioni tecnico-scientifiche dalle potenzialità, fino a qualche anno fa, inimmaginabili.

L’accelerazione che ha registrato l’innovazione tecnico-scientifica negli ultimi anni, in particolare nell’ambito delle scienze della vita – che vedono l’integrazione di discipline quali biologia molecolare, biotecnologie, chimica e farmacia, con applicazioni in campo medico, farmaceutico, agroalimentare e di tutela dell’ambiente – pone nuovi interrogativi di carattere morale e l’esigenza di una nuova consapevolezza sotto il profilo etico. Parliamo, dunque, di bioetica e scienze della vita, dove la prima, in merito alle possibilità pratiche e ai vantaggi concreti che le innovazioni tecnico-scientifiche portano all’essere umano, si focalizza sulle loro implicazioni etiche, con l’attenzione rivolta ai valori di verità, rispetto della vita in tutte le sue forme, dell’ambiente e dell’ecosistema, e pari dignità di tutti gli individui.

Quello del bioeticista è un ruolo dal carattere interdisciplinare, che si declina in diverse attività, tra cui la presenza, durante tutto il processo di elaborazione dei progetti, nei grandi team di ricerca scientifica, i quali, in Italia e nel resto d’Europa, hanno sempre più spesso, al proprio interno – e, in alcuni casi, come requisito indispensabile – un esperto di bioetica

Marco Annoni Fondazione Veronesi
Marco Annoni, Fondazione Umberto Veronesi

spiega Marco Annoni, bioeticista e coordinatore del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi, sottolineando come, oggi, scienza ed etica non siano più due realtà che si rincorrono, ma – specie in riferimento alle scienze della vita – parte di un unico modello della gestione responsabile della ricerca e dell’innovazione tecnico-scientifica.

Modello che, soprattutto nei Paesi occidentali, “segue un approccio by design, in base al quale l’etica diventa, appunto, parte integrante della progettazione della ricerca in tutte le sue fasi, a partire da quelle che precedono la ricezione dei fondi fino ai primi risultati dello studio, alla loro divulgazione e all’attività successiva, che consiste nel seguire il cammino della scoperta alla quale si è giunti”.

Eppure, questo modello di governance, in questa precisa fase storica, pare avere esaurito il proprio registro. Ci troviamo di fronte a scoperte così straordinarie – osserva Annoni – collocate su una scala che era inimmaginabile fino a pochi anni fa, che le questioni che, nel 2021, si pone la bioetica, riguardano – solo per citare un esempio – le più recenti tecnologie di editing del genoma umano e, più in particolare, le loro ricadute sul nostro rapporto con la vita biologica. È questa la portata della riflessione attuale.

E – aggiunge l’esperto di bioetica – “le nuove rivoluzioni richiedono nuovi quadri concettuali, nuovi strumenti e nuove interpretazioni. C’è, dunque, tutto un lavoro teorico da fare”.

Bioetica e scienze della vita: il punto sul sistema CRISPR Cas9

Con l’espressione “editing genomico” – lo ricordiamo – si fa riferimento alla possibilità di modificare parti della sequenza del DNA di organismi animali, umani o vegetali ricorrendo a tecniche diverse. Tra le più recenti e le più utilizzate, quella alla base del sistema CRISPR Cas9, in grado di tagliare con precisione un DNA bersaglio all’interno del genoma di una cellula animale, umana o vegetale: il taglio viene eseguito in un punto specifico grazie all’utilizzo di una “guida”, ossia di una breve sequenza di RNA complementare al segmento del gene in questione, e permette di eliminare sequenze di DNA e di sostituirle con altre, andando così a modificare il genoma o a correggere mutazioni dannose.

Sul tema, la posizione del Comitato Etico della Fondazione Umberto Veronesi – fa notare Marco Annoni – va verso due direzioni. La prima – nei confronti della quale il parere è favorevole – prende in considerazione, in generale, l’impiego di tecniche di editing genomico in qualità di terapia per quelle patologie genetiche particolarmente gravi e per le quali non esiste, tuttora, una cura.

Nello specifico, il sistema CRISPR-Cas9 trova favorevole utilizzo nell’ambito dello studio dei meccanismi molecolari alla base di determinate patologie, così come negli screening preliminari per testare il grado di efficacia o di tossicità dei farmaci sperimentali.

E, oggi, esistono già policy e regolamentazioni che consentono di affrontare le questioni etiche sollevate da tali interventi – con finalità terapeutiche o di studio sulle cellule somatiche del singolo paziente – all’interno di un quadro teorico, morale e normativo già dibattuto e accettato.

Dove, invece, in tema di bioetica e scienze della vita, sussiste un grosso nodo irrisolto – rimarca il coordinatore del Comitato Etico di Fondazione Veronesi – è l’adozione di tecniche di editing come il CRISPR-Cas9 per modificare il genoma di cellule staminali embrionali, ovvero nelle fasi precedenti al concepimento, intervenendo sui gameti, oppure nelle prime fasi dello sviluppo embrionale, per prevenire patologie a base genetica:

Il dibattito, in questo caso, verte sull’ammissibilità morale relativa all’intervento sulle cellule della linea germinale, in quanto le possibili conseguenze delle modificazioni non riguarderebbero soltanto il singolo individuo – come accade con l’intervento sulle cellule somatiche – ma tutte le generazioni successive

È qui – puntualizza il bioeticista – che il problema della governance emerge in maniera importante, dettando l’urgenza di regolamentazioni stringenti a livello globale, coinvolgendo tutti i Paesi e la comunità dei ricercatori nel suo complesso, per poter sfruttare al massimo l’enorme potenziale offerto da tali tecnologie.

Allo stato attuale delle conoscenze, gli interventi sulle cellule germinali sono, dunque, “eticamente irresponsabili”. Ma questo non esclude che, in futuro, previa la definizione di un puntuale quadro normativo, l’istituzione di procedure di supervisione a livello globale e l’applicazione di misure di sicurezza tali da ridurre al minimo ogni possibile rischio, l’editing genomico su embrioni umani non possa essere considerato legittimo dal punto di vista etico, nel caso in cui si intervenga per eliminare alcune malattie ereditarie o per ridurre i rischi associati a patologie multifattoriali.

Bioetica e scienze della vita: il valore morale della tecnologia gene drive contro la diffusione della malaria

Un’altra applicazione del metodo CRISPR Cas9 lo vede al centro della generazione di fenomeni di “gene drive”, tecnologia di ingegneria genetica che tende a favorire la trasmissione di una determinata variante genetica all’interno di una specie vegetale o animale, in modo da rendere, in poche generazioni, una popolazione omogenea per la variante genetica selezionata.

Un esempio pratico di gene drive è dato da uno studio per il controllo della malaria, di cui si è parlato a maggio del 2020 in un articolo sulla rivista Nature Biotechnology: modificando il genoma delle zanzare che trasmettono il plasmodio della malaria (le Anopheles), è possibile – in  base ai risultati di tale studio – far nascere solo gli esemplari del sesso che non punge, facendo così collassare la riproduzione di popolazioni di insetti vettori della malattia.

Estinguere o alterare le zanzare-vettore della malaria per mezzo del gene drive, significherebbe salvare milioni di vite umane, vittime del parassita responsabile – da sempre – di un numero elevatissimo di decessi in tutto il mondo.

Sul tema, il punto di vista etico – riconoscendo il valore morale di un’innovazione tecnico-scientifica il cui fine primario è, in assenza di un vaccino contro la malaria, salvare vite umane – è favorevole, spiega Annoni. Così come lo è la posizione del Comitato Etico della Fondazione Umberto Veronesi, che vede nel gene drive uno strumento concreto da impiegare nella lotta alla malaria, in linea in materia di bioetica e scienze della vita.

A patto, però, che si eserciti una piena responsabilità ecologica – raccomanda il Comitato – riconoscendo valore alla biodiversità e adottando tutte le misure necessarie ad assicurare che l’ulteriore ricerca, sviluppo e adozione di tali tecnologie non comportino rischi ai danni delle altre specie, delle stesse comunità umane, degli ecosistemi e dell’ambiente”.

Inoltre, lo sviluppo e l’eventuale impiego del gene drive deve sempre avvenire – conclude il bioeticista – in modo trasparente, predisponendo un sistema di supervisione etica e scientifica e coinvolgendo le popolazioni locali, gli Enti e le Istituzioni preposti.

Gli aspetti etici legati alla produzione di carne artificiale

La carne artificiale – detta anche carne in vitro, carne coltivata o carne sintetica – si ottiene in laboratorio utilizzando una tecnica che consiste nel prelevare cellule muscolari non provenienti da animali macellati – ma estratte (previa anestesia) da animali vivi tramite biopsia – e nel nutrirle con proteine che alimentano la crescita dei tessuti.

Nella produzione di carne coltivata non vengono impiegate tecniche di ingegneria genetica, dunque non si tratta di un prodotto OGM: è composto soltanto da cellule muscolari animali coltivate artificialmente all’interno di un bioreattore, apparecchio in grado di creare l’ambiente ideale alla crescita di microrganismi. In tema di bioetica e scienze della vita, commenta l’esperto:

L’attuale modello di produzione e consumo intensivo di carne è eticamente ed ecologicamente insostenibile. In questo quadro, la carne in vitro rappresenta un’innovazione assolutamente positiva: la tecnologia che vi è alla base consente di immaginare un futuro nel quale si potrà avere una vera bistecca, composta da cellule animali, senza dover più uccidere animali e allestire allevamenti intensivi, responsabili, inoltre, dell’emissione di significative quantità di gas serra che, invece, verrebbero abbattute con la produzione di carne coltivata in laboratorio, così come il consumo di suolo, acqua ed energia utilizzate per nutrire il bestiame. Sembra una chiave perfetta. Ma è questa l’unica soluzione per ciascuno degli scenari citati?

Un’alimentazione, anche solo principalmente (non esclusivamente), a base vegetale – prosegue – sarebbe un’alternativa perfettamente praticabile in un Paese sviluppato come il nostro e perfettamente in linea con le indicazioni in materia di salute e sostenibilità ambientale.

Eppure, molto spesso, pur aborrendo la violenza sugli animali, si continua a mangiare carne. Questo atteggiamento, in psicologia, è definito “paradosso della carne”, che, tradotto nel concreto, significa amare gli animali e, allo stesso tempo, mangiarli. Alla radice c’è un meccanismo psicologico chiamato “dissonanza cognitiva”, per cui la bistecca o la fetta di prosciutto nel piatto non vengono collegati all’animale da cui provengono.

Ma, in materia di bioetica e scienze della vita, la perplessità più forte – sollevata dal Comitato Etico di Fondazione Veronesi – è correlata al fatto che, da un punto di vista tecnico, la coltivazione della carne in laboratorio, allo stato attuale, necessita del siero fetale bovino (contenente proteine, fattori di crescita, sali minerali, vitamine e altre sostanze che favoriscono la sopravvivenza e la proliferazione di cellule mantenute in coltura), ottenuto dalla raccolta di feti bovini prelevati da animali uccisi, dunque un sottoprodotto dell’industria della carne ancora una volta correlato al sacrificio di animali.

Ebbene, per fare sì che davvero la produzione di carne in vitro abbia l’impatto etico col quale viene promossa, bisognerebbe eliminare – conclude Annoni – questo passaggio tecnico, in assoluta contraddizione col punto nodale della questione, vale a dire la riduzione (se non la completa eliminazione) della sofferenza animale.

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