La recente approvazione, con una normativa specifica (prima al mondo), della vendita di carne coltivata in laboratorio da parte di Singapore, accende i riflettori sulle difficoltà di affermazione della carne in vitro nei Paesi europei, tra cui l’Italia. Quali sono, oggi, gli ostacoli? È solo questione di lobby?
TAKEAWAY
- La carne coltivata si ottiene in laboratorio per mano di biotecnologi alimentari, utilizzando una tecnica che consiste nel prelevare cellule muscolari non provenienti da animali macellati – ma estratte da animali vivi – e nel nutrirle con proteine che alimentano la crescita dei tessuti.
- Le prime ricerche sulle colture in vitro di cellule muscolari risalgono al 1971, con la produzione di un tessuto muscolare derivato dal maiale.
- Fu soltanto nel 2001 – negli Stati Uniti – che iniziarono i primi esperimenti sulla produzione di carne coltivata da cellule di tacchino.
- E il primo esemplare di carne coltivata fu presentato al pubblico nell’agosto del 2013: si trattò del primo hamburger prodotto in laboratorio a partire dalle cellule staminali prelevate da una mucca.
- Nel 2018, il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti e la Food and Drug Administration (FDA) hanno annunciato il loro ruolo di “controllori” della produzione di carne sintetica, con l’obiettivo di promuovere tale prodotto.
- Singapore è, ad oggi, il primo Paese al mondo ad avere approvato, con una normativa specifica, la vendita di carnecoltivata in laboratorio.
- Completamente diverso lo scenario in Europa, dove all’affermazione della carne ottenuta in vitro ci sono ancora molti ostacoli di tipo socio-economico, etico e relativo all’impianto regolatorio.
- La situazione in Italia – dove, lo ricordiamo, il numero delle imprese biotech è andato aumentando nel corso dell’ultimo decennio – segue la stessa linea.
- Eppure i vantaggi della carne coltivata sono numerosi e includono aspetti etici e relativi alla sostenibilità ambientale, primo fra tutti l’eliminazione della necessità di allevare e di macellare gli animali.
La carne coltivata – detta anche carne artificiale, carne sintetica o carne in vitro – è già pronta, esiste. Non è sogno, né progetto visionario, ma qualcosa di reale. E la tecnologia di cui si serve è sufficientemente matura.
Si ottiene in laboratorio per mano di biotecnologi alimentari, utilizzando una tecnica che consiste nel prelevare cellule muscolari non provenienti da animali macellati – ma estratte (previa anestesia) da animali vivi tramite biopsia – e nel nutrirle con proteine che alimentano la crescita dei tessuti.
Nella produzione di carne coltivata non vengono impiegate tecniche di ingegneria genetica, dunque – è importante sottolinearlo – non si tratta di un prodotto OGM: è composto soltanto da cellule muscolari animali coltivate artificialmente.
Ricordiamo che le prime ricerche sulle colture in vitro di cellule muscolari risalgono al 1971, con la produzione di un tessuto muscolare derivato dal maiale. Ma fu soltanto nel 2001 – negli Stati Uniti – che iniziarono i primi esperimenti sulla produzione di carne coltivata da cellule di tacchino.
Ed è del 2009 l’annuncio, da parte di ricercatori olandesi, della produzione di carne in laboratorio utilizzando cellule di un maiale vivo, non macellato. Evento, questo, responsabile di una forte spinta alla ricerca in materia, che vide, nel 2012, ben trenta laboratori di biotecnologie alimentari in tutto il mondo iniziare a lavorare sulla carne coltivata.
Il primo esemplare fu presentato al pubblico nell’agosto del 2013: si trattò, in particolare, del primo hamburger prodotto in laboratorio – nell’ambito di una ricerca della Maastricht University, in Olanda – a partire dalle cellule staminali prelevate da una mucca. Ma che cosa è accaduto dopo quella data? La carne artificiale è uscita dai laboratori? È stata resa disponibile ai consumatori?
Carne coltivata in laboratorio: il sì di Stati Uniti e Singapore e il no dell’Europa
Nel 2018, il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti e la Food and Drug Administration (FDA) hanno annunciato il loro ruolo di “controllori” della produzione di carne sintetica, con l’obiettivo di promuovere tale prodotto e, allo stesso tempo, di mantenere i più elevati standard di salute pubblica. Prodotto che era previsto arrivasse sulle tavole dei consumatori americani già a partire da questo 2020. Ma l’iter è stato arrestato dalla pandemia da Covid.
E Singapore è, ad oggi, il primo Paese al mondo ad avere approvato, con una normativa specifica, la vendita di carne coltivata in laboratorio. La normativa emessa – datata dicembre 2020 – è la prima al mondo in tema di carne artificiale non proveniente da animali macellati.
Completamente diverso lo scenario in Europa, dove all’affermazione della carne ottenuta in vitro ci sono ancora molti ostacoli di tipo economico, etico e relativo all’impianto regolatorio. Anche se, ad essere sinceri, il primo grande sbarramento proviene dagli allevatori, i quali temono la chiusura, nel tempo, delle proprie imprese.
E la situazione in Italia – dove, lo ricordiamo, il numero delle imprese biotech è andato aumentando nel corso dell’ultimo decennio, con Lombardia (45,3%), Lazio (22,4%) e Toscana (19%) in vetta alla classifica delle regioni con il più elevato fatturato, come emerge dal rapporto 2020 sulle imprese di biotecnologie in Italia, realizzato grazie alla collaborazione tra Assobiotec, facente parte di Federchimica, ed ENEA – segue la stessa linea,
In particolare, qui, Coldiretti, citando un’indagine dell’Istituto Ixè, sottolinea che “tre italiani su quattro (ovvero il 75%) giudicano negativamente l’arrivo sul mercato di carne coltivata in laboratorio”, preoccupati dalle ripercussioni dell’applicazione di queste tecnologie sia dal punto di vista degli impatti sulla salute, sia sotto il profilo etico.
Contraria anche Assocarni – Associazione Nazionale Industria e Commercio Carni e Bestiame – che, riguardo all’apertura degli Stati Uniti alla commercializzazione della carne in vitro, fa notare come gli americani, rispetto agli italiani, abbiano una concezione del cibo differente, intesa come “nutrimento” e non come un “fattore di gusto e di cultura”.
Italia: i tempi non sono maturi. Occorre un cambiamento culturale
Matteo Brognoli, CEO di Solaris Biotechnology – azienda italiana che, dal 2002, produce fermentatori e bioreattori per scopi di Ricerca & Sviluppo e produzione in ambito farmaceutico, cosmeceutico, chimico, agricolo, alimentare e delle applicazioni di bioplastiche e biocarburanti – osserva che, alla radice del no da parte dell’Italia, esiste la precisa volontà di:
“… preservare settori e categorie che, a mio avviso, potrebbero comunque continuare a crescere e a svilupparsi, seguendo modalità e tempi diversi, in relazione alle tecnologie impiegate. Non verrebbero schiacciati dalle nuove tecnologie in ambito agroalimentare. È l’ignoranza, la mancanza di conoscenza della materia che, spesso e a torto, porta a percepire l’innovazione come fonte di cambiamenti pericolosi”
E, puntando il dito sulla generale poca informazione in tema di biotecnologie alimentari e sulla scarsa divulgazione anche da parte chi produce carne coltivata, parla di gap culturale, di barriere mentali all’accettazione di quella che – a suo parere e a detta degli specialisti del settore – è destinata a diventare la carne del futuro:
“È solo questione di tempo. Sarà un processo molto lento, così come è accaduto quando siamo partiti, vent’anni fa, e iniziavamo ad approcciare mercati che, allora, ci sbattevano le porte in faccia. Oggi, invece, sono quegli stessi mercati a cercarci”
Rimarcando che le biotecnologie non sono una “deviazione della natura“, bensì un miglioramento di processi già esistenti in natura, prosegue:
“Sempre in tema di mancanza di conoscenza della materia, le porto un altro esempio. Le aziende biotech che operano nel mercato dei surrogati vegetali – soprattutto negli Stati Uniti – integrano al mix di ingredienti vegetali un lievito ingegnerizzato, che ha il compito di riprodurre l’EME, complesso chimico contenuto nel sangue e responsabile del sapore di ferro che noi percepiamo quando mangiamo la carne. Dunque, quello che fanno è avvalersi di un elemento assolutamente naturale come il lievito, studiarlo e ingegnerizzarlo. Cosa c’è di pericoloso in questo? Nulla. Ma gli hamburger vegetali prodotti con tale tecnologia, ad oggi, non possono essere esportati in Europa”
Su come viene prodotta la carne artificiale, Brognoli spiega che la coltivazione delle cellule staminali animali avviene all’interno di un bioreattore, apparecchio in grado di creare l’ambiente ideale alla crescita di microrganismi, fornendo alle cellule tutto ciò di cui hanno bisogno e consentendone il monitoraggio attraverso il controllo puntuale dei parametri.
Che cosa accade nel bioreattore? Qui le cellule animali proliferano, dando vita a fibre muscolari che, al termine del processo, vengono raccolte e compattate come se si trattasse di carne macinata.
Per produrre un dato quantitativo di carne artificiale, le coltivazioni durano circa 7-8 settimane. In particolare, per produrre un hamburger, servono alcune migliaia di cellule animali. Ma l’aspetto in assoluto più importante è che le fibre ottenute sono rigenerabili: da un campione prelevato da una mucca, ad esempio, si possono produrre più di 800 milioni di filamenti di tessuto muscolare.
I vantaggi della carne coltivata: dagli aspetti etici alla sostenibilità ambientale
Immaginiamo un futuro in cui l’umanità avrà a disposizione, senza più alcun ostacolo, carne coltivata in laboratorio: quali saranno gli impatti dal punto di vista economico, etico e ambientale? Quali questioni aperte andrebbe a risolvere la “nuova carne”?
Iniziamo col fare luce su un problema concreto, relativo alla domanda di carne su scala mondiale e alle nuove sfide alimentari globali: in base alle stime della FAO, nei prossimi 30 anni, la richiesta di carne potrebbe crescere di più del 50%, passando da 258 milioni di tonnellate nel 2005/2007 a 455 milioni nel 2050, dovendo nutrire 9 miliardi di persone da qui al 2050.
Ebbene, la produzione in laboratorio di carne artificiale potrebbe rispondere alle sfide lanciate da questi numeri, contribuendo anche a risolvere la delicata e spinosa problematica della denutrizione che colpisce precise zone della Terra
Sotto il profilo etico, l’aspetto di rilievo legato alla produzione di carne coltivata in laboratorio, riguarda l’eliminazione della necessità di allevare e di macellare gli animali. Pensiamo che – come riportato dall’Associazione animalista francese L214 – ogni anno vengono uccisi 67 miliardi di animali nel mondo e che solo negli Stati Uniti, ogni anno, vengono uccisi circa nove miliardi di polli e 32 milioni di bovini.
È stato, poi, dimostrato come l’impatto ambientale della carne coltivata sia minore rispetto a quello della carne da macello: per ogni ettaro utilizzato per la produzione di carne coltivata, si potrebbero liberare tra i 10 e i 20 ettari di terra. Il che si aggiunge al risparmio di grandi quantità di acqua e di energia utilizzate per nutrire il bestiame.
Inoltre, l’allevamento tradizionale è responsabile dell’emissione di significative quantità di gas serra che, invece, verrebbero abbattute dalla produzione di carne coltivata in laboratorio
Tra i tanti “pro”, un “contro” ha a che vedere con il costo – attualmente elevato – della produzione di carne artificiale. Ma i miglioramenti delle tecnologie e il graduale passaggio a una produzione su larga scala potrebbero portare a una sensibile riduzioni dei costi.