Cos’è il futuro? È semplicemente uno strumento, che serve per costruire il presente.
«Per questo motivo sono ottimista rispetto al futuro. Ottimista per scelta: è un dovere immaginarsi futuri migliori per poter poi immaginare come arrivarci. Il futuro si autorealizza perché, se lo conquistiamo, le nostre azioni si baseranno poi sul contesto di quello specifico futuro e si andrà in quella direzione. Per questo il futuro è uno strumento: serve per prendere le decisioni. Pensare che il futuro sarà migliore, ci aiuta a pensare che la strada che porta in quella direzione andrà bene».
Cristina Pozzi, laureata in economia alla Bocconi, consulente e poi imprenditrice, autrice di libri sul futuro (Benvenuti nel 2050, Egea 2019) e neo-iscritta alla triennale della facoltà di filosofia («Perché ho finito il liceo da quindici anni e nel frattempo sono cambiate un sacco di cose che voglio studiare e imparare») ha un profilo articolato, anche per una futurista. Ammesso che sia possibile definirla così, come ci spiega durante l’intervista in videoconferenza.
Futures Thinking, strumento di ragionamento
«Quando mi parlano di futuro, di futurista, di futurologa dico: no, fermi. In realtà, sono appassionata da diversi punti di vista degli studi sul futuro e ho un approccio certamente multidisciplinare, però non sono una “praticante”, nel senso che non esercito la professione. Difficilmente realizzo progetti da futurista. Invece, quel che faccio è portare questi metodi come strumento di ragionamento, soprattutto con i giovani. Io mi occupo di educazione con un punto di vista che è interdisciplinare».
Tutto è iniziato una decina di anni fa. Cristina Pozzi, dopo un percorso di consulenza, diventa imprenditrice di successo e con il suo socio crea un’azienda che poi vende a un colosso del settore. A quel punto, usciti dall’attività quotidiana da imprenditori e con il bisogno di aggiornarsi e acquisire nuove competenze per cominciare nuove imprese, i due iniziano un percorso di formazione. È il momento in cui emerge come tema quello del futuro e delle nuove tecnologie.
«Attorno al 2015 ci è venuta voglia di fare di più nel settore del futuro. Nessuno ne parlava molto, ci sarebbero voluti ancora un paio di anni prima che “futuro” diventasse una buzzword, diretta conseguenza del fatto che in questo periodo storico dobbiamo affrontare il cambiamento in maniera molto importante. La parola arriva ma ci sono da fare delle valutazioni. La narrazione collettiva è che la tecnologia ci stia aiutando a cambiare il mondo e che lo stia facendo in modo molto veloce, cioè che porti le risposte in modo deterministico. Tuttavia, questa è una delle cose contro le quali noi ci siamo subito opposti: il futuro non sono le nuove tecnologie, non è la casa smart o gli occhiali di realtà virtuale. Invece, è molte altre cose».
L’idea di Cristina Pozzi è che il futuro sia “open source”, plasmato da tutti e accessibile a tutti. Nel marzo 2019 è stata scelta dal World Economic Forum come Young Global Leader, unica italiana e ha riportato – dopo cinque anni di assenza – il nostro Paese nella lista dei leader del futuro che vengono scelti ogni anno dall’associazione svizzera su migliaia di segnalazioni da tutto il mondo. Scoprire il futuro però ha voluto dire prima di tutto lavorare su sé stessa, come consulente e imprenditrice.
«Ho scoperto che potevo muovermi diversamente, altrove. Nel 2016 è stata la nostra svolta, mia e del mio socio Andrea Dusi: abbiamo creato la nostra attività che si chiama Impactscool: “Impact is cool”, avere un impatto è cool. All’inizio ce lo correggevano; addirittura, una volta una persona mi ha detto: “Guardi dottoressa, tutto bene, ma ‘school’ si scrive con la h”».
Sorride. L’idea di Cristina Pozzi è in realtà semplice: c’è bisogno di formazione sul futuro ai livelli con i quali viene fatta all’estero. Nella Silicon Valley ci sono eventi dove si parla di idee e di futuro che danno un vantaggio competitivo a chi li frequenta. E noi? Quali sono i nostri modelli per apprendere a pensare e usare il futuro? L’idea è che in Italia, come in altre parti del mondo, non arrivino formazione, modelli, argomenti, idee all’altezza. Ai giovani e nelle scuole, soprattutto, non si parla abbastanza di questi argomenti e di questi metodi.
«Se vogliamo orientare i giovani per il loro futuro individuale, per quello del loro lavoro in Italia o fuori, dobbiamo fare le cose in modo diverso perché, se non hanno un contesto realistico con delle informazioni adeguate, fanno delle scelte miopi. L’obiettivo iniziale della nostra attività non-profit era proprio questa: fornire le informazioni e le coordinate per capire il futuro. Abbiamo iniziato e mi è venuta subito una gran voglia di futuro. Così, mi sono anche iscritta alla triennale di filosofia per capire e aggiornarmi. E intanto Impactscool è diventata una impresa che ci ha portato a far parte di Treccani e negli ultimi anni ci siamo sempre più strutturati».
Il futuro come strumento per costruire il presente e come metodologia da apprendere fin da piccoli. La posizione è interessante, anche perché apre delle prospettive inconsuete. Soprattutto se si pensa al rapporto tra giovanissimi e futuro. Che non è per niente così scontato come si pensa che possa essere.
«I bambini non sono necessariamente propensi al cambiamento. Ci sono quelli di otto anni che mi dicono: “Si stava meglio quando si stava peggio, dobbiamo tornare indietro”. Dipende dall’attitudine e dal carattere. Ci sono le attitudini di persone che esplorano e scoprono naturalmente e quelli che no, e ci sono età diverse per farlo. Noi giochiamo con il futuro assieme a bambini di otto-dieci anni, che usano metodi che permettono loro di costruire le visioni del futuro».
Pensare il futuro
Il presupposto è che “pensare il futuro” si impara e deve essere insegnato il prima possibile. Cristina Pozzi lavora con i bambini ma anche con gli adulti, con modi diversi ma sempre orientati al design thinking e co-design, facilitando le attività con lo scopo di diventare abilitatori del pensiero degli altri.
«Lavorare sul futuro si può fare in molti modi e con punti di vista diversi. Quello che mi piace di più è filosofico e antropologico: guardare al futuro, a come si usa, alla capacità di organizzare e all’immaginazione per pensare realtà diverse. E in questo è fondamentale ampliare il punto di vista e ragionare insieme, con la partecipazione di tutti. A me piace di più abilitare il ragionamento degli altri, la parte di moderazione. Il che non significa andare a dire come sarà il futuro, anche perché oltretutto non lo so, bensì sbloccare le idee delle persone».
Come si pensa il futuro, dal punto di vista metodologico? Come si fa a immaginare come saremo? È semplice, se vogliamo: si procede con un metodo conosciuto, cioè si fa un’etnografia di un gruppo di umani che potrebbe vivere in un altro luogo, e da lì si comincia a raccontare quel che si vede.
«È una forma di speculazione divertente. Si completa con tutti gli elementi: adesso sta crescendo la parte di analisi economica, più quantitativa. Anche qui da noi, che finora abbiamo avuto una prevalenza di pensatori legati all’ambito sociologico e all’accademia. Però negli Stati Uniti, soprattutto nella Silicon Valley, la prospettiva è stata storicamente molto differente. Portare tutto questo nelle scuole, come strumento educativo che porta valore, è un lavoro bellissimo».
Collaborazione e partecipazione
Alla fine, la presa di coscienza di un metodo collaborativo e partecipato per elaborare le idee che arrivano a definire il futuro come strumento per costruire il presente, porta a un cambiamento di prospettiva rispetto all’attività canonica del futurista.
«I metodi per pensare come sarà il futuro sono tanti. Portano a quest’idea che non sono io a dire a voi come sarà, ma lavoriamo insieme per valutare le opzioni relative a come dovrebbe essere, pensando alle scelte che vogliamo e possiamo fare. La parte che mi piace di più è quella del ragionamento a medio-lungo termine, con un orizzonte di 30 anni. È un arco di tempo sufficientemente ampio per fare in modo che i ragionamenti che mettiamo in pista siano utili. Abbastanza lontano da lasciare spazio di manovra, ma non troppo perché perda di interesse per noi viventi o per i nostri figli. Uno spazio di ragionamento libero, ma non troppo libero. Il rischio è duplice: da una parte è che non ci sia abbastanza creatività quando si fa brainstorming per individuare i futuri, dall’altro che ci sia troppa fantasia e si perda di concretezza; invece, bisogna pensare futuri creativi ma anche plausibili, ai quali si può arrivare con un ragionamento strutturato ma che fugga agli stereotipi e alle narrazioni pubbliche di un dato periodo».
Quando Nicholas Negroponte fece la previsione che un giorno avremmo avuto una pillola che ci avrebbe permesso di imparare una nuova lingua, la struttura era proprio questa raccontata da Cristina Pozzi: osservare le scoperte, le nuove tecnologie, analizzare le traiettorie, pensare alle conseguenze sino ad arrivare a dire, come fa Pozzi, «Questo è un futuro che potrebbe accadere». Poi magari non accadrà ma, dice, «è plausibile che possa succedere».
«I grandi futuristi, quelli più bravi, sono spesso anche degli scrittori di fantascienza. Almeno, era così nel passato. È in quella divulgazione e letteratura speculativa che è nata l’idea di rendere scientifico il ragionamento sul futuro. Non è escapismo puro, ma un insieme di osservazioni su come potrebbe evolvere il mondo nei prossimi anni. Attorno a questo approccio si può costruire un metodo scientifico e si possono fare previsioni sul mondo reale, oltre che scrivere narrativa. H.G. Wells o Jules Verne all’inizio del Novecento hanno fatto molte previsioni che si sono rivelate veritiere, dal volo degli aerei allo sbarco sulla Luna».
Il futuro come materia di studio a scuola
Ci sono anche aspetti dell’utilizzo del futuro come strumento didattico che diventano interessanti. Uno è quello di portare la materia del futuro nella scuola fin dalle elementari. Cosa vuol dire? I bambini imparano a comprendere come possono essere fatti i cambiamenti: ce ne sono di diversi tipi e bisogna anche imparare a riconoscerli e a mapparli.
«Il cambiamento può essere di tipo continuo o discontinuo, richiede quindi approcci diversi per reagire al meglio. E questo rende le persone, i bambini, resilienti. Fornisce gli strumenti per progettare e costruire il futuro. Portare queste materie a scuola fin dalle elementari permette di sviluppare molto la capacità dell’auto-efficacia. La capacità di capire cosa si può realizzare individualmente. Le persone diventano più resilienti e con una attitudine al cambiamento: meno nervosismo nelle situazioni diverse dall’ordinario. È molto utile perché consente di costruire abitudini e stati d’animo importanti. E poi la materia del futuro è molto interessante da insegnare: si lavora in maniera interdisciplinare sul concetto di rivoluzione. Come ha detto anche l’Unesco, la competenza fondamentale del XXI secolo è la “future literacy“, l’alfabetizzazione al futuro».
La cosa forse paradossale è che ci sono attitudini molto diverse nelle persone. Fa parte dell’individuo essere esploratore, cercare di scoprire cose nuove, certo. E le diverse età della vita possono influenzare il modo con il quale pensiamo al futuro. Ma il paradosso è che sono le persone anziane quelle che pensano di più il futuro, anche se è controintuitivo. Tuttavia, lo fanno perché hanno superato molti pregiudizi tipici degli adulti. È l’età di mezzo, gli adulti, quella forse più problematica.
«Insegnare il futuro agli adulti, con workshop e attività di gruppo, è più difficile perché ci sono dei bias dei quali non ci rendiamo conto e perché non ci lasciamo andare, non ci mettiamo in discussione. Ma si può fare, e le persone possono arrivare a esprimere opinioni che altrimenti non tirerebbero fuori. È una quesitone di abitudine e di allenamento, come in tutte le cose. Se ci concentriamo troppo e troppo a lungo sul presente, rischiamo di perdere questa qualità. Non siamo più abituati a riprogettare il mondo e noi stessi. Si fa fatica ma si può fare: cambiare passo si può», è lo stimolo di Cristina Pozzi.
I futuri non sono tutti uguali
C’è un ultimo passaggio. È quello relativo al tipo di futuro che si immagina. Perché ci sono tipi di futuro preferibili per soggetti diversi. I futuri non sono tutti uguali e le conseguenze dei punti di vista sono importantissime. Un esempio molto semplice ma illuminante viene dalla cronaca recente, e riguarda una grande multinazionale del petrolio.
«Se per esempio facciamo un bel processo di analisi possiamo scoprire che ci sono 50 tipi diversi di futuro che non avevamo considerato. Quale scegliere? La scelta razionale è prendere quello preferibile e poi pianificare in modo strategico le azioni che ci portino verso quel futuro. Ma facciamoci un’altra domanda: cosa vuol dire che un futuro è preferibile? Preferibile per chi? Non ci sarà mai un futuro preferibile per tutti quanti. Ci sono dei grandi disallineamenti di interessi. Ad esempio, la Exxon (più conosciuta come Esso) ha fatto delle analisi sin dagli anni Settanta sugli effetti potenziali delle emissioni di gas serra nell’atmosfera. Il rapporto di quelle analisi è emerso di recente e abbiamo scoperto che le previsioni erano esatte alla virgola, con tutte le conseguenze immaginabili per il dibattito sul riscaldamento globale e l’emergenza ambientale. In questo caso, qual è il futuro preferibile? Dipende da chi ha fatto la scelta».
Questa prospettiva consente di trovare moltissimi esempi nel mondo imprenditoriale. Kodak ha inventato la fotografia digitale ma poi non ha voluto costruire il futuro in cui questa aveva il ruolo che poi in effetti ha assunto a livello globale, cercando invece di mantenere in piedi un futuro delle immagini analogiche a pellicola. I grandi produttori di automobili hanno fatto una cosa simile ritardando lo sviluppo di auto elettriche per decenni, fino a che non sono stati superati a destra da Tesla. Blockbuster, il colosso del videonoleggio, ha fatto ancora peggio.
«Blockbuster non si è ricordato che il suo business era creare momenti insieme per le persone, anziché gestire attività immobiliari. Invece, ha continuato a spingere lo sviluppo dei punti vendita e ha trascurato il bisogno dei suoi clienti, che si sono rivolti verso altre tecnologie e mezzi per creare dei momenti insieme, cioè guardare un film. Questo si spiega, per esempio, con il framework dei tre orizzonti (un tipico esercizio di futuro) riassumibile, in modo molto molto conciso, con l’orizzonte di tre differenti persone: il manager ragiona sul breve per cercare di far fruttare gli asset esistenti; l’imprenditore cerca di cogliere qual è la cosa che emergerà nel medio periodo e investe per farsi trovare pronto tra cinque anni; il visionario invece se ne frega e accelera più che può per portare sul mercato tutto e subito. Questo tipo di analisi permette di capire quali asset non ci serviranno più nel futuro a medio e a lungo termine, e come prendere decisioni molto immediate su cosa fare con quel che abbiamo per iniziare a muoversi subito», conclude Cristina Pozzi.