Dopo anni di incertezze, i Fab Lab sono prepotentemente tornati sulla cresta dell’onda, catturando sempre più l’attenzione di un’industria chiamata a rinnovare profondamente i propri processi. L’agilità e la capacità di sperimentare nuove idee fa dei Fab Lab una risorsa irrinunciabile nel contesto dell’innovazione tecnologica, come ci spiega Gian Paolo Bassi, Executive VP of 3DEXPERIENCE Works at Dassault Systèmes.
A lungo considerati luoghi per nerd e smanettoni, i Fab Lab si stanno prendendo una bella rivincita nei confronti dei loro tradizionali detrattori, che li hanno sempre etichettati come luoghi in cui circolano tante idee interessanti ma in fondo slegate da una funzionalità per il business. Oggi queste idee servono eccome e il sentore è che l’industria di prodotto non potrà fare a meno di replicare un approccio che, per molti versi, si sta dimostrando vincente.
Ne abbiamo parlato con Gian Paolo Bassi, Executive VP of 3DEXPERIENCE Works at Dassault Systèmes e profondo conoscitore dell’industria digitale, con trent’anni di esperienza nel settore del software 3D e CAD per la progettazione e la produzione. Gian Paolo Bassi ci accompagnerà in un ciclo di conversazioni in cui andremo alla scoperta degli aspetti tecnologici e organizzativi che oggi alimentano lo scenario dell’innovazione continua, fondamentale per la trasformazione digitale delle aziende.
Negli ultimi tempi stiamo assistendo a una vera e propria rinascita reputazionale dei Fab Lab e delle realtà indipendenti che fanno dell’innovazione il proprio mantra, soprattutto per quanto riguarda i processi di design. Se dovessimo spiegare in poche parole ai nostri lettori il principale motivo per cui ciò avviene, dove potremmo focalizzare la nostra attenzione?
I Fab Lab e i makerspace rappresentano un’espressione di democratizzazione della tecnologia, laddove è possibile sperimentare tantissime idee con costi che l’industria tradizionale non potrebbe certamente permettersi.
Eppure i Fab Lab e, in generale, il mondo maker sono stati a lungo guardati con una certa diffidenza dal mondo industriale. Quali sono state le ragioni di questo pregiudizio?
La forza dei Fab Lab è nel saper fare innovazione ma, per quanto riguarda gli aspetti di business, non sempre ritroviamo una formazione adeguata. Si tratta molto spesso di piccole realtà, composte in prevalenza da tecnici e designer, molto competenti nella loro materia ma che, per tale ragione, tendono a concentrarsi soltanto sulla tecnologia, sottovalutando la reale rispondenza del mercato. È la ragione per cui sono nati gli incubatori, gli hub che mettono a disposizione di Fab Lab e start-up le conoscenze e le connessioni necessarie per fare delle loro idee delle concrete opportunità di business. Grazie all’ecosistema degli hub, i Fab Lab diventano luoghi davvero molto interessanti anche per l’industria, in particolare per quelle aziende che cercano di innovare per davvero i propri processi. Anche nel contesto delle grandi realtà enterprise stiamo assistendo alla nascita di spin off dedicati nello specifico allo sviluppo di nuove idee e di nuove tecnologie. Il fenomeno è dilagante ed era comunque nell’aria che prima o poi sarebbe esploso.
Gli hub e i makerspace, così come i design studio indipendenti, brulicano ormai ovunque nel mondo, anche in contesti lontani dall’immaginario storicizzato dell’innovazione digitale, pensiamo ad esempio alla Silicon Valley.
Grazie al fatto di poter essere strutturati con dotazioni semplici e costi contenuti, i Fab Lab ormai sorgono anche nei contesti più insospettabili, come il Ruanda, il Nepal o il Butan, giusto per citarne alcuni in cui siamo direttamente coinvolti con le nostre tecnologie. Negli ultimi anni, mi è capitato di visitare questo genere di realtà in tantissimi luoghi. Nel 2019, ad esempio, sono stato in Ucraina e ho assistito a uno straordinario fermento di iniziativa e di imprenditorialità. Persone dotate di un’energia straordinaria e di un interesse davvero unico per la tecnologia. Pensare, oggi, a quelle realtà come un luogo di guerra mi rattrista profondamente. Spero che, al più presto, si possa tornare a parlare dell’Ucraina come di una bellissima storia di innovazione.
Facciamo un passo indietro. Dove potremmo storicamente collocare l’origine del successo dell’universo Fab Lab e delle start-up innovative basate sulla cultura maker?
Con il tramonto ideologico del consumo di massa. Per molti anni l’industria ha puntato a perfezionare prodotti standard nel tentativo di ridurre il loro costo. E ci è perfettamente riuscita. Oggi tutti abbiamo in casa i principali elettrodomestici. Lo diamo per scontato, ma qualche decennio addietro non era così. Le economie di scala hanno raggiunto il loro picco di rendimento alla fine del secolo scorso e i dispositivi mobile costituiscono tuttora l’apice di questo concetto. Proprio questi dispositivi hanno, tuttavia, contribuito a variare in maniera dirompente la customer experience. Oggi miliardi di persone in tutto il mondo non cercano più soltanto il prodotto e il luogo in cui costa meno acquistarlo, cercano soprattutto esperienze. Questo fenomeno, su scala globale, si è manifestato in modo inarrestabile, per cui le aziende sono state costrette a ripensare profondamente i loro processi.
Dalla mass production alla personalizzazione dell’esperienza. Come avviene oggi questa trasformazione radicale del paradigma produttivo?
La quarta rivoluzione industriale sta procedendo all’insegna della personalizzazione e soprattutto dell’individualizzazione del prodotto che si genera attraverso l’esperienza d’uso. Stiamo assistendo a una nuova fase di umanesimo, con alcuni aspetti che ci riportano in una condizione rinascimentale, in cui l’uomo torna ad essere al centro dell’esperienza. L’economia di massa dava per scontato che l’utente avrebbe acquistato prodotti sempre migliori a prezzi più bassi, per cui la centralità era ricaduta sul prodotto stesso. Per lungo tempo ciò ha funzionato, ma oggi il valore non risiede più nel semplice abbassamento dei costi. Occorre altro, ed è proprio in questo frangente che risiede l’innovazione radicale a cui stiamo assistendo. Oggi le aziende non vendono più prodotti in senso stretto, vendono esperienze e la necessità oggettiva di personalizzare l’esperienza ha dato luogo a nuovi paradigmi produttivi, come la personal fabrication, che ovviamente è il cuore dell’attività dei Fab lab.
Durante l’introduzione dell’ultimo evento 3DEXPERIENCE World hai presentato un divertente tour all’interno di alcuni makerspace dell’area di Boston, in quella che potremmo definire la culla dei Fab Lab e della cultura maker. In quel contesto hai parlato anche di economia dell’esperienza.
Certamente, in quanto è proprio ciò che si cerca di realizzare attraverso la personal fabrication, intesa anche come una vera e propria “anti mass production”, per superare radicalmente i limiti della manifattura tradizionale con concetti nuovi, estremamente più flessibili. Ce ne rendiamo conto in ogni aspetto che ci circonda. Oggi l’adv di un’automobile difficilmente punta direttamente sulle sue caratteristiche, ma sull’esperienza di guida che è in grado di garantire, lasciando tutto il resto all’immaginazione del potenziale cliente. Questo innesca il desiderio di possedere quell’auto e di personalizzarne ogni aspetto in funzione del proprio gusto. Per un produttore, questo ribaltamento del punto di vista genera una vera rivoluzione nel modo di concepire il veicolo e di implementare la complessa filiera che porta alla sua fabbricazione.
La pandemia e la crisi globale a cui stiamo assistendo hanno dato un ulteriore scossone alla globalizzazione, soprattutto per quanto riguarda le catene che sostengono, appunto, la produzione di massa. Tale sistema si è mostrato fragile. Il blocco di un singolo anello rischia di spezzare tutta la catena. Con la personal fabrication questo problema non si pone, il concetto stesso che ne deriva è estremamente più resiliente. Quale sarà il suo percorso di maturazione e come sapranno contribuire i Fab Lab a tutto questo?
La globalizzazione non può essere il futuro, proprio perché si tratta di un modello che, oltre alla mancanza di resilienza, ha dimostrato una totale mancanza di sostenibilità, sotto tutti i punti di vista. Oltre agli aspetti ecologico-ambientali, di cui fortunatamente si sta iniziando a parlare sempre più spesso, la produzione globale si è dimostrata fragile anche dal punto di vista economico, che era storicamente il suo punto di forza. Ci si è pertanto trovati di fronte a un punto di non ritorno. Se la produzione di un componente è limitata a un unico distretto nel mondo, per ragioni del tutto indipendenti dalla volontà di chi produce, vedi un evento climatico sfavorevole, vedi un problema di carattere geopolitico, tutto il sistema va in crisi. I costi lievitano, le tempistiche di consegna si dilatano in maniera incontrollabile e intere industrie rimangono paralizzate. Il modello dei Fab Lab, contrariamente all’approccio dell’economia globale che fa capo alla produzione di massa, propone un’innovazione dal basso, che parte proprio dal tentativo di risolvere una singola esigenza specifica. Si tratta di un radicale ribaltamento di visione, capace di intercettare molto più puntualmente quello che davvero il consumatore desidera, innanzitutto perché si tratta davvero di ciò che gli serve.
Il fatto che il Fab Lab sia più vicino alle effettive esigenze del mercato è, quindi, il fattore decisivo per la rinascita delle attenzioni del mondo industriale, che l’aveva a lungo, se non snobbato, almeno sottovalutato.
Il fatto è che nel mondo, attualmente, nei contesti in cui si fa innovazione, ci sono più soldi che idee. Per le aziende tradizionali non è affatto facile adattarsi all’economia dell’esperienza. Non si tratta, infatti, di adattare o modernizzare tecnologicamente un processo produttivo, occorre ripensare gradualmente l’intera filiera, rendendola meno lineare e sempre più interconnessa. È qualcosa che possiamo percepire come un vero ricambio generazionale, che richiede tantissima sperimentazione sul campo, per capire quali siano le idee che possono trovare un effettivo riscontro in produzione. L’approccio bottom up dei maker consente di sperimentare tantissime idee a costi incredibilmente contenuti, soprattutto se li paragoniamo con i tradizionali costi di ricerca e sviluppo in ambito industriale. Per questo motivo stanno diventando sempre più interessanti per un’ampia pluralità di soggetti.
Se prima i tempi dell’innovazione venivano dettati dai produttori di massa, oggi questi devono adattarsi ai tempi richiesti dal mercato. Seguendo le logiche tradizionali, il rischio è di arrivare sul mercato con un prodotto già vecchio, che al cliente non interessa più o che non risponde alle sue esigenze. Come è possibile reggere il ritmo della corsa all’innovazione?
Le industrie tradizionali si trovano nel mezzo. Oggi sono costrette a ragionare in termini di innovazione continua. La circolazione delle idee è molto rapida, oggi in Israele nascono più start-up che negli Stati Uniti, ma ovunque si produca innovazione servono capitali e infrastrutture per sostenere la crescita delle idee. Il modello Fab Lab, se alimentato dalle risorse dell’industria, può diventare davvero il mezzo più agile per reggere il ritmo della corsa all’innovazione. Come accennavo, molte realtà enterprise collaborano e finanziano i progetti dei lab indipendenti o hanno direttamente fondato delle start-up innovative, focalizzate su specifici percorsi di innovazione, per lavorare su nuove idee. C’è una grandissima progettualità che ruota intorno ai makerspace. Rimane fondamentale supportare i progetti innovativi con risorse adeguate. Devono verificarsi entrambe le soluzioni.
Nei pressi di Boston sorge anche il vostro 3D Experience Lab. Che aria si respira all’interno di questi spazi, che rappresentano un po’ il paradiso terrestre per gli appassionati di tecnologia?
Sono realtà che funzionano davvero molto bene e sono attualmente mature per dare un contributo alle filiere di sviluppo dei prodotti. Il concetto di supply chain sta cambiando e non è più quello imposto dall’alto che fa riferimento all’economia globale. Oggi la filiera favorisce l’innovazione e gli incubatori sono strutturati molto bene per portare le nuove idee sul mercato. I nuovi modelli di business non si concentrano più sul prodotto esclusivamente in termini di design, ma sin dalle fasi concettuali pensano anche alle fasi di marketing e vendite. Chi progetta ha in testa concetti come la marketing automation, che fino a qualche anno fa ignorava totalmente. Emerge una visione unificata dei processi di sviluppo del prodotto e questa continua collaborazione e contaminazione tra più saperi è proprio quella che si respira proprio all’interno degli innovation lab. La consapevolezza che le moderne supply chain richiedono il contributo di tante competenze differenti, favorisce la circolazione di idee e stimola tutte le parti in causa a fare sempre meglio.
In che termini cercare l’innovazione all’interno di un Fab Lab può ridurre i costi rispetto al contesto tradizionale?
Ci sono moltissimi aspetti. Un fattore ormai consolidato deriva dalla massiccia adozione della stampa 3D, molto più accessibile rispetto ai tradizionali sistemi di fabbricazione a controllo numerico. Pensiamo anche soltanto alle competenze che si rendono necessarie nelle due situazioni. Grazie alla stampa 3D è possibile realizzare praticamente di tutto, in qualsiasi luogo, con conoscenze sempre più elementari, spesso automatizzate all’interno del software 3D impiegato durante la progettazione. Una macchina a controllo numerico rimane complessa da gestire e richiede quella manodopera specializzata, che oggi risulta sempre più difficile reperire sul mercato del lavoro, anche per via delle lunghe tempistiche che la sua formazione richiede. La stampa 3D ha rivoluzionato davvero tutto il ciclo di sviluppo del prodotto, dal concept alla produzione, senza trascurare, come accennavo, gli aspetti relativi al marketing, dove risulta essenziale saper presentare il prodotto e renderlo interattivo per dare luogo a un’esperienza del cliente sempre più coinvolgente e immersiva. Questa integrazione è possibile soltanto se c’è un’agilità innata nella gestione dei processi e la stampa 3D rientra perfettamente in quest’ottica, così come i software 3D e CAD per la progettazione, che vantano ormai una visibilità su tutta la filiera.
All’approccio bottom up della cultura maker corrisponde un differente tipo di educazione rispetto al modello tradizionale. Con Solidworks, CATIA e molti altri software siete ormai dei leader a livello mondiale per quanto concerne le tecnologie software per il design e l’innovazione. Come è stato possibile rendere disponibili queste tecnologie anche a piccole realtà economiche come i Fab lab?
Abbiamo profondamente ripensato la nostra offerta commerciale per favorire soprattutto l’educazione, con l’idea di crescere insieme a chi fa innovazione o la farà concretamente nei prossimi anni, dopo aver concluso il proprio percorso di studi. Oggi circa l’80% delle Università tecniche possiede e insegna i nostri software. I maker, con soli 90 dollari all’anno, hanno a disposizione l’intero portfolio software di 3D Experience Works, comprese le risorse educational e la possibilità di accedere alle certificazioni ufficiali. L’unica condizione che richiediamo è un limite di fatturato annuo. Abbiamo, inoltre, sviluppato dei programmi specifici per le start-up che, se garantiscono una serie di requisiti, possono addirittura accedere gratuitamente all’intero portfolio.
L’idea di business sarebbe, dunque, quella di investire insieme alle nuove realtà imprenditoriali, mettendo a loro disposizione le tecnologie software necessarie per farlo. Quando queste realtà cresceranno, grazie alla validità delle loro soluzioni, contribuiranno a diventare clienti sempre più profittevoli.
Si tratta di una condizione indispensabile per abbattere le barriere nei confronti dell’innovazione. Non possiamo ignorare l’incidenza dei costi hardware e software. Penso soprattutto alla possibilità di mettere a disposizione dei maker e dei designer i moduli di simulazione 3D avanzata. Si tratta di tecnologie di nicchia e molto complesse da sviluppare, pertanto decisamente costose. Una piccola realtà non potrebbe certamente permettersele, ma se le avesse a disposizione potrebbe sviluppare tecnologie che altrimenti rischierebbero di non arrivare mai sul mercato. In termini di praticità, la circolazione delle idee a cui facevo riferimento risiede anche e soprattutto in questi aspetti. Per noi, oggi, è essenziale sostenere questo scenario di innovazione, per generare nuove opportunità. Grazie al cloud possiamo rendere disponibili il software a condizioni fino a poco tempo fa impensabili e sono convinto che sia una situazione che finirà per generare vantaggi per tutti. Occorre avere fiducia, ma l’ottimismo è tangibile. Il mercato oggi richiede necessariamente questo approccio. Parliamo di numeri concreti. La conversione dei clienti start-up in realtà commerciali è già nell’ordine del 30%. Questo vuol dire che chi ha idee valide e le sviluppa in maniera corretta, riesce ad avere sempre più successo.
Quali sono le realtà più interessanti dal punto di vista dell’innovazione?
Lo scenario è davvero molto ampio. Approfitto della domanda per segnalare alcuni casi curiosi che mi è capito di incontrare. Tante volte la preoccupazione è quella di far si che tutti possano avere accesso al portfolio software, ma ci sono delle situazioni in cui il problema non si pone minimamente e questo avviene proprio grazie alle supply chain. Le grandi realtà industriali sono alla continua ricerca di soluzioni per rendere più efficienti i loro processi e non possiedono interamente tutte le competenze per farlo. Se una start-up intercetta questa esigenza e ha le capacità di tradurla in una soluzione tecnologicamente valida, riesce, anche in tempi relativamente brevi, a implementare un business molto significativo a livello economico. Mi viene in mente un’azienda coreana che si occupa di simulazioni avanzate sui materiali a memoria di forma per gli impianti in ambito medicale. Fanno una cosa soltanto, ma la fanno estremamente bene e la vendono a un settore che vanta grandissime possibilità di investimento. Si tratta di una piccola realtà, composta da dieci persone, che mi dice che per loro il software non è un problema, dal momento che attualmente se lo ripagano in meno di due settimane. Potrei citare altre situazioni, ad esempio nel settore petrolchimico, per piccole realtà che sviluppano robot in grado di ispezionare i pipe in condizioni estreme. Questa fase di trasformazione digitale offre opportunità enormi a chi possiede le competenze e le tecnologie efficaci per dare forma a nuove idee e a trovare soluzioni per problemi incredibilmente specifici. Occorre, quindi, esplorare il mercato e sapere intercettare ciò che effettivamente ci richiede di sviluppare.