I Fab Lab 2.0 hanno l’obiettivo di rendere l’innovazione sempre più sostenibile e resiliente nel garantire benefici diffusi e risolvere i problemi delle comunità. Gian Paolo Bassi, Executive VP di 3DEXPERIENCE Works, ci svela il funzionamento del modello, le grandi aspettative e le prime esperienze sviluppate da Dassault Systèmes in qualità di partner del Center for Bits and Atoms (CBA) del MIT, diretto da colui che i Fab Lab li ha inventati: il professor Neil Gershenfeld.
TAKEAWAY
- Il Fab Lab 2.0 rappresenta l’evoluzione del modello originale, ancora più agile e sostenibile, per rispondere in maniera più capillare alle esigenze di innovazione, grazie alla capacità di autoreplicare se stesso. Oltre al consolidato design & manufacturing, il Fab Lab diventa una risorsa utile in qualsiasi ambito applicativo.
- Dassault Systèmes ha collaborato con il CBA-MIT di Neil Gershenfeld per l’apertura di nuovi Fab Lab in contesti estremi come il Rwanda, il Nepal, la Patagonia, il Butan e Haiti, ottenendo risultati spesso del tutto inaspettati.
- Il Fab Lab 2.0 costituirà una risorsa di open source innovation anche nei contesti urbani, dove la capillarità dei micro-laboratori dovrà favorire la nascita di un’imprenditorialità diffusa, grazie alla capacità di intercettare le esigenze direttamente sul territorio.
Che cosa si intende per Fab Lab 2.0? Iniziamo col dire che i Fab Lab hanno rivoluzionato gli scenari dell’innovazione grazie al loro approccio dal basso, che ha portato la tecnologia e la conoscenza a diretto contatto con i problemi da risolvere.
Nato nel 2001 da un concetto del prof. Neil Gershenfeld, direttore del CBA (Center for Bit and Atoms) del MIT, i Fab Lab sono diventati ben presto un modello di successo in tutto il mondo, dove oggi si registrano migliaia di iniziative ufficialmente riconosciute e catalogate nella directory di Fab Foundation.
Gershenfeld e il suo team non hanno certamente dormito sugli allori, continuando la loro ricerca su nuovi modelli di Fab Lab, in grado di ampliare le applicazioni rispetto ai tradizionali ambiti del design e della manifattura.
Negli ultimi anni, sta prendendo forma la concezione di quello che con ogni probabilità verrà identificato quale Fab Lab 2.0, ossia una struttura flessibile e in grado di replicare se stessa, fungendo da nodo per vari atomi distribuiti sul territorio.
Sulla base di questa concezione, il MIT ha collaborato con Dassault Systèmes e altri partner tecnologici per avviare i primi esperimenti, che hanno visto l’insediamento di alcuni Fab Lab nelle zone più remote del mondo, a partire da quello costruito in Rwanda nel 2016.
Negli anni successivi sono stati realizzati i primi laboratori anche in Nepal, in Patagonia, in Butan e attualmente è in corso di esecuzione il programma che porterà all’apertura ad Haiti, in una delle zone in assoluto più difficili del pianeta.
Il nuovo corso programmato dal CBA-MIT vuole testare il modello collaborativo dei Fab Lab per enfatizzare la formazione dei network a livello locale, testandoli in condizioni estreme dal punto di vista geografico, morfologico, sociale, politico o economico, per favorire la replicabilità di strutture che sarebbe altrimenti molto complesso rendere autonome ed autosufficienti secondo un approccio tradizionale, non soltanto per una questione di budget, ma di oggettiva difficoltà a livello logistico e nelle comunicazioni.
Sulla base di queste iniziative, si pensa già a una ulteriore variante: i cosiddetti Fab Lab di quartiere, che si profilano quali micro-strutture con un entry level decisamente inferiore rispetto a quello che richiederebbe un tradizionale Fab Lab residente.
L’obiettivo è intercettare in maniera capillare le esigenze in termini di innovazione sempre più aperta, favorendo la diffusione della cultura del fare, avvicinandola sempre più ai cittadini.
Si tratta di un approccio agli antipodi rispetto ai criteri che hanno guidato la globalizzazione, a cui la cultura maker e il modello Fab Lab si sono sempre posti quali una credibile alternativa, molto più sostenibile e resiliente nel lungo termine.
La crisi del modello globale, drammaticamente enfatizzata dalle conseguenze della pandemia Covid-19, ha portato anche l’industria tradizionale a guardare con curiosità e interesse crescente alla cultura maker e all’innovazione bottom-up, avviando collaborazioni sul campo e spin-off tecnologici per ricercare risposte più agili e sostenibili alle domande provenienti da un mercato in continua evoluzione.
Per conoscere i dettagli e i principi su cui si fondano i Fab Lab 2.0 abbiamo incontrato Gian Paolo Bassi, Executive VP of 3DEXPERIENCE Works di Dassault Systèmes, realtà che da diversi anni collabora con il CBA-MIT per sostenere l’apertura di nuovi Fab Lab nei contesti emergenti, oltre a sostenere un’intensa attività sperimentale all’interno del 3DEXPERIENCE Lab di Waltham (Massachusetts, USA), nel cuore dell’ecosistema bostoniano che ruota attorno al MIT e rappresenta tuttora l’anima più profonda dei Fab Lab.
A che punto sono i lavori del nuovo Fab Lab di Haiti?
La difficile realtà in cui versa attualmente l’isola caraibica non aiuta, ma c’è una buona notizia: abbiamo deciso che costruiremo il Fab Lab a Jeremies, nella città che peraltro ha subito le peggiori conseguenze in seguito al devastante terremoto dello scorso anno, che ha aggravato una situazione già molto complessa per via delle calamità che Haiti ha subito negli anni precedenti, oltre a una situazione socio-politica davvero disastrosa.
Non ci sono purtroppo le condizioni di sicurezza per lavorare nella capitale Port-au-Prince, che al momento è uno dei posti più pericolosi del pianeta, sia per il livello di criminalità che per una drammatica instabilità di governo. Haiti rappresenta un test in condizioni davvero estreme, in cui in certi frangenti manca davvero tutto e bisogna assistere la popolazione nella costante emergenza sanitaria che sta affrontando.
Mentre un nuovo progetto inizia a prendere forma, come stanno andando le iniziative avviate negli anni precedenti in collaborazione con la ricerca del CBA del MIT?
I segnali sono molto confortanti e ci spingono a supportare con continuità l’iniziativa del professor Gershenfeld. In FAB LAB Rwanda stiamo assistendo a qualcosa di eccezionale, che va oltre le nostre aspettative iniziali. Non potevamo immaginare un simile entusiasmo, una simile motivazione da parte dei ragazzi e delle ragazze ruandesi nello sviluppare un’imprenditoria locale in grado di migliorare le cose, creando concrete opportunità di sviluppo, grazie alle discipline STEM.
Il Rwanda è reduce da una storia di genocidio e di profonda violenza per via di una guerra civile tra le peggiori che si ricordino. La comunità sta cercando di ripartire. Il loro motto è “perdonare ma non dimenticare” per evitare di ricadere negli errori del passato.
Tra gli aspetti più positivi del Fab Lab ruandese abbiamo visto la sua capacità di creare un’inclusione vera e concreta, favorendo l’occupazione femminile, che si sta dimostrando una risorsa fondamentale. Oggi tantissime ragazze si sono formate nelle discipline tecniche e ingegneristiche e grazie al Fab Lab possono dare luogo ai loro progetti.
L’imprenditorialità femminile ha una forza e una sensibilità straordinaria. Queste ragazze sanno risolvere con semplicità problemi enormi, dimostrando con i fatti come la tecnologia possa davvero cambiare il corso delle cose, anche nei contesti in cui nessuno avrebbe nutrito alcuna speranza. In Rwanda si sta creando una comunità tecnologica che attira anche l’attenzione degli altri paesi dell’Africa centrale, che si stanno a loro volta avvicinando favorevolmente alla virtuosità di questo modello di sviluppo.
Questo aspetto ci gratifica oltre gli obiettivi di business che caratterizzano il nostro impegno a investire in questi Fab Lab e intendiamo continuare a supportare questa crescita, a partire dalla formazione, con una serie di costanti aggiornamenti tecnologici.
Il Fab Lab 2.0 intende portare la tecnologia e l’innovazione nei contesti più difficili del mondo: come procede l’evoluzione di questa variante del paradigma creata dal professor Neil Gershenfeld?
Il concetto su cui Gershenfeld e il suo team stanno lavorando è molto semplice, anche se metterlo in pratica rappresenterà una sfida davvero complessa e molto stimolante. Oggi i Fab Lab sono una realtà consolidata a livello globale. Basta dare un’occhiata ai numeri di Fab Foundation per rendercene conto. Tuttavia, ci sono troppi luoghi nel pianeta che continuano a rimanere tagliati fuori dalla corsa all’innovazione.
Avviare un Fab Lab completo delle sue dotazioni essenziali costa mediamente dai 200 ai 300mila dollari e quando si lavora in zone così difficili da raggiungere ci sono dei tempi e dei costi legati alla logistica molto significativi. Le sole sponsorship non sarebbero sufficienti per sviluppare una rete estesa di Fab Lab in queste realtà, occorre che i Fab Lab originali si configurino quali nodi in grado di replicare se stessi grazie all’auto-fabbricazione. Per questo Gershenfeld e il suo team stanno lavorando su nuovi modelli, replicabili e scalabili in più situazioni contando soltanto sulle proprie risorse.
Il Fab Lab attuale rappresenta una visione molto più ampia e multidisciplinare rispetto a quella originale, considerando che in questi vent’anni è successo davvero di tutto, sia a livello tecnologico che a livello socio-economico. Quali sono le nuove direttrici di sviluppo?
Innanzitutto, i Fab Lab stanno concretizzando la loro mission di risposta a un modello di business, quello basato sulla globalizzazione, che ha dimostrato in pieno la sua fragilità, sotto tutti i punti di vista. Occorre valorizzare le risorse latenti nei contesti locali. Potremmo citare molti esempi. Le aziende non possono continuare a guardare alla realtà di certi paesi per sfruttare il lavoro minorile, soltanto perché in certe zone del pianeta continua ad essere consentito.
I modelli puramente speculativi non sono più sostenibili, è necessario sostenere logiche basate sull’economia circolare, il futuro va necessariamente in quella direzione. Per esperienza diretta, abbiamo scoperto situazioni insospettabili. In Butan, dove è stato aperto uno dei Fab Lab in collaborazione con il MIT, parlano di economia circolare dal 1990, da tempi dunque decisamente non sospetti. Perché è parte integrante della loro cultura, del loro modo di essere e di vivere ogni giorno in sintonia con la natura.
Per quanto costituiscano una situazione del tutto eccezionale sul pianeta, difficilmente replicabile nella sua unicità, parliamo di un popolo con una visione radicata in fatto di sostenibilità. Ne hanno fatto una vera ragione di vita, costruendo una scala di valori basata sulla felicità delle persone.
Portare la tecnologia in questi luoghi consentirà di valorizzare culture e conoscenze che finora sono state per molte ragioni isolate, a cominciare dalla loro difficile accessibilità geografica. Sono convinto che questi aspetti potranno essere trasferiti e adattati anche in altre situazioni, generando moltissime opportunità di business su attività sostenibili e utili alla collettività.
Spesso assistiamo a situazioni in cui valori fondamentali come la sostenibilità e l’inclusione vengono strumentalizzati per pratiche di brand washing. Agendo in maniera concreta sulle culture locali è invece possibile liberare un valore straordinario, fin qui latente per via di contesti in cui, almeno finora, nessuno ha avuto alcun interesse ad investire. Quali sono le iniziative che ritieni più interessanti in tal senso?
Sicuramente base 11 rappresenta un ottimo progetto. Si basa sui Global Goals dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e promuove programmi per favorire la gender equility nelle discipline STEM. Nella sostanza è un acceleratore no-profit che sostiene la formazione e l’avvio imprenditoriale, per consentire ai giovani laureati di avviare le loro carriere nell’ambito degli obiettivi stabiliti dall’Agenda 2030.
La stessa Fab Academy rappresenta un’iniziativa lodevole, che da anni sta riscontrando un notevole successo. Il team di Neil Gershenfeld si arricchisce continuamente di nuovi trainer che lavorano per garantire una certificazione gratuita o a basso costo, accessibile a tutti in ogni luogo del mondo. Si tratta di una certificazione del MIT, che viene riconosciuta dalle aziende a livello globale, offrendo anche delle ottime possibilità di impiego, se uno volesse prendere quella strada.
Potremmo citarne ovviamente altri. La formazione e l’avvio di nuove realtà imprenditoriali sostenuti dalle iniziative no-profit costituiscono una notevole opportunità di business per tutti gli stakeholder. È lavoro per i molti docenti che quotidianamente sono impegnati in queste attività, così come lo è per i partner commerciali che mettono a disposizione le loro tecnologie.
Se oggi siamo in grado di creare cultura tecnologica e imprenditoriale diffusa, tutti questi sforzi verranno certamente ripagati. Gli studenti, gli startupper e i giovani maker di oggi, domani saranno imprenditori di successo grazie alle loro idee, che prenderanno forma grazie alle tecnologie che siamo in grado di mettere loro a disposizione sin dal loro percorso didattico. I loro feedback sono, a loro volta, fondamentali per sviluppare il software e arricchire le nostre piattaforme di strumenti davvero utili per chi progetta e realizza i prodotti e i servizi che ci consentiranno di vivere un futuro migliore rispetto a quello attuale.
Credo che investire nei contesti emergenti e sostenere ovunque sia possibile la cultura del fare, costituisca una condizione estremamente favorevole per tutti gli stakeholder dell’innovazione.
I Fab Lab e la cultura maker sono nati nell’immaginario del design e della manifattura. Oggi assistiamo alla nascita di nuovi modelli, sempre più verticali. Cosa sta succedendo?
Il già citato CBA-MIT e la Fab Foundation, diretta da Sherry Lassiter, attraverso l’azione dei Fab Lab e di Fab Academy, lavorano assiduamente per democratizzare la conoscenza, favorendo processi di inclusione socio-culturale, di women empowerment e di valorizzazione delle culture locali. Con loro, oltre all’apertura di nuovi Fab Lab, abbiamo da anni avviato una collaborazione molto stimolante anche nel 3DEXPERIENCE Lab di Waltham, dove mettiamo a disposizione le nostre tecnologie per favorire progetti e ricerche open source in molti ambiti di business.
Ritornando alla tua osservazione, di recente abbiamo visto nascere dei Fab Lab che non hanno nulla a che vedere con la manifattura, ma sono, ad esempio, specializzati nello sviluppo di soluzioni per l’agricoltura e l’agri-food in generale. Sono dei veri e propri centri di eccellenza basati sulla filiera corta. In generale, questo concetto vale in tutte quelle situazioni in cui il Fab Lab si pone come nodo per l’innovazione, intercettando dal basso le esigenze più concrete di ogni settore di attività nei contesti locali.
Il Fab Lab diventano anche i luoghi dove nascono progettualità sperimentali, come i cobot cuochi per un programma in Afghanistan. A fronte di un’oggettiva difficoltà a trovare personale umano, lo skill gap viene compensato grazie ad applicazioni robotiche in grado di trattare gli alimenti grezzi e cucinarli. La stampa 3D ci consente di produrre a basso costo anche gli elementi terminali dei bracci robotici, con materiali morbidi che garantiscono un’ottima presa sugli alimenti, senza distruggerli.
Il Fab Lab diventa soprattutto il luogo in cui si manifestano i problemi concreti delle comunità, dove la tecnologia non ha bisogno di inventarsi cose nuove per continuare a vendere, rischiando sempre più spesso di arrivare tardi sul mercato o di mancare del tutto il suo obiettivo. La tecnologia viene utilizzata per dare risposte concrete a problemi concreti, che il Fab Lab è in grado di diagnosticare in maniera estremamente puntuale.
Questo fattore, tra le altre cose, spiega la ragione per cui dal Fab Lab per così dire manifatturiero, come nel caso del classico maker space, siamo arrivati ad avere Fab Lab specializzati in qualsiasi cosa. Il Fab Lab si adatta alle esigenze di ciascun contesto e offre soluzioni mirate per i vari verticali di business che lo caratterizzano. La open source innovation costituisce un modello molto efficace da questo punto di vista.
Uno degli aspetti che sorprende maggiormente quando si osservano i progetti prodotti nei Fab Lab è la loro originalità. In molti casi, vediamo soluzioni che, in un contesto di industria tradizionale, sarebbe difficile anche soltanto sottoporre a uno studio di fattibilità. Quali sono state le esperienze che ti hanno sorpreso maggiormente?
Vediamo ogni giorno una creatività incredibile. Cito il caso più recente a cui ho assistito in una riunione di avanzamento lavori per il Fab Lab di Haiti. Una ricercatrice di Harvard, chirurgo ortopedico, ci ha illustrato concetti e progetti straordinari, che potranno salvare molte vite. Il tema è la medicina di emergenza, quella che interviene nei contesti come le guerre e le calamità naturali. Il principale collo di bottiglia è costituito dal training. Un’operazione come la tracheotomia è di per sé molto semplice, ma deve essere effettuata in tempi ristretti e con grande precisione. Si tratta di una di quelle procedure mission critical. Purtroppo, i fornitori di modelli di trachea realistici, da utilizzare nel training del personale medico, sono pochi e i dispositivi hanno dei costi molto elevati.
Grazie alla stampa 3D e stampi in plastica rigida possiamo realizzare dei modelli di trachea utilizzando dei gel siliconici, per garantire un’ottima disponibilità di campioni e soprattutto per consentire di produrli sul posto, rapidamente e con costi irrisori.
Questi accorgimenti consentono di affrontare con successo moltissime procedure di emergenza, anche in relazione ai traumi toracici, in cui si rende necessario drenare i polmoni e il pericardio dai versamenti. Servono sonde particolari e altre tecnologie che fino a ieri erano difficilmente accessibili in medicina di emergenza, mentre oggi le possiamo facilmente replicare grazie alla stampa 3D.
La tecnologia consentirà quindi di salvare molte più vite rispetto a quanto non sia possibile fare tuttora. Si tratta di scenari difficili da percepire per chi non ha vissuto sul campo certe situazioni.
Sicuramente, anche perché incidono in maniera determinante le ricadute di carattere sociale. Abbiamo a che fare con culture profondamente differenti dalla nostra, che vanno rispettate. Purtroppo – mi riferisco sempre al caso di Haiti, molto attuale per noi in questi giorni – una persona che subisce un’amputazione viene di fatto esclusa dalla società, diventa irrimediabilmente un emarginato, visto da tutti come una zavorra sociale.
Non possiamo sicuramente pretendere di cambiare da un giorno all’altro certi presupposti, che sono ormai radicati da secoli. Possiamo tuttavia sostenere l’inclusione evitando le amputazioni, attraverso il miglioramento delle procedure di emergenza. Per salvare un arto occorre effettuare una radiografia in tempo reale e intervenire puntualmente, prima che non sia più recuperabile. A fronte di questa esigenza, dal MIT è uscita una start-up innovativa che si occupa di realizzare degli electron beam a basso costo. Inoltre tutti gli accessori e i supporti possiamo realizzarli sul posto grazie alla stampa 3D.
Tutto questo è innovare dal basso: possiamo specializzare le macchine, i materiali e sviluppare le conoscenze adeguate per fabbricare quanto necessario, sperimentare ogni dettaglio e produrre azioni utili per la collettività. Questa innovazione aperta è possibile grazie al modello dei Fab Lab, che alimenta a sua volta una serie di start-up e di giovani realtà imprenditoriali focalizzate sui problemi da risolvere.
I Fab Lab riescono a dare risposte in ambiti molto eterogenei, coinvolgendo sempre più spesso la biologia e lo studio dei materiali organici. Avete assistito a esperienze in questi ambiti?
I Fab Lab biologici sono una realtà molto promettente. Da tempo lavorano sulla fabbricazione degli alimenti sintetici, sostenibili e senza dubbio molto alternativi rispetto alle situazioni di allevamento tradizionale, con tutto ciò che comporta. C’è, inoltre, grande attenzione per i materiali riciclati, le risorse disponibili in loco e tutti gli aspetti che possono favorire la sostenibilità a 360 gradi di un progetto alimentare.
La notizia che mi ha sorpreso maggiormente è un recente caso, accaduto negli Stati Uniti, a Flint (Michigan), dove si sono verificate intossicazioni da piombo attraverso le risorse idriche. Un Fab Lab locale ha trovato in tempi molto rapidi una soluzione strepitosa. Hanno scoperto che i residui di lavorazione dei birrifici, i fermenti che abitualmente verrebbero smaltiti come rifiuti, riescono a sanificare naturalmente una falda contaminata da piombo, rendendo l’acqua nuovamente potabile.
In questo caso, ci sono grandi competenze e una componente geniale, ma è proprio quel valore aggiunto che la cultura maker dei Fab Lab riesce a stimolare nelle persone. È qualcosa di davvero indescrivibile. Va provato di persona per rendersene conto.
Con questo spirito le comunità riescono a risolvere i loro problemi in maniera nettamente più veloce e sostenibile di quanto non potrebbe mai fare l’industria tradizionale. E oltretutto si generano conoscenze aperte e condivise, da cui è possibile trarre continuamente innovazione.
Generare, conservare e trasmettere la conoscenza, diventa un circolo virtuoso nell’ecosistema innovativo dei Fab Lab. Quali sono gli spunti più interessanti a cui assisteremo?
La prospettiva è quella di creare sistemi sempre più facili da utilizzare e sostenuti dal self training, in modo da democratizzare sempre di più la conoscenza tecnologica, indispensabile per trovare soluzioni ai problemi. Un nostro celebre partner una volta ci disse che non c’è una crisi di tecnici, ma c’è una crisi di ispirazione e di idee. Sulla base della nostra esperienza, sono convinto che la verità stia nel mezzo. Bisogna cercare di migliorare sia sul fronte culturale che su quello puramente tecnologico, rendendo appunto la tecnologia stessa sempre più accessibile.
Credo che lo scenario sia assolutamente promettente. Su Youtube e sulle piattaforme di e-learning free o a basso costo troviamo ormai tantissime risorse per la formazione. La motivazione e l’ispirazione fanno la differenza, ma è necessario che progredisca anche la tecnologia. Vent’anni fa nei Fab Lab venivano certamente sviluppati molti concept, ma quanti risultavano fattibili? Oggi le tecnologie sono molto più evolute, per cui la creatività del Fab Lab riesce a tradursi in risposte decisamente più concrete. Questo fattore credo sia essenziale per il loro successo.
Un CAD attuale non è il CAD di 20 anni fa. Gli strumenti e le interfacce sono molto più collaborativi. Il software moderno è concepito per stimolare la multidisciplinarità dei progetti grazie a piattaforme che integrano strumenti capaci di soddisfare tutte le esigenze del ciclo di vita del prodotto. La conoscenza entra direttamente a far parte di questo sistema, grazie alla collaborazione di più tecnologie.
Il 3D printing ha aperto un nuovo filone di ricerca nella scienza dei materiali, anche quando si rende necessario trovare soluzioni più sostenibili a problemi già noti. Impiegando gli smart materials possiamo, ad esempio, ridurre sensibilmente il numero dei tradizionali attuatori. C’è uns grandissimo interesse nei confronti dei materiali organici e nella ricerca di nuove batterie, soprattutto ora che è esplosa la crisi energetica.
Un tema tornato prepotentemente in auge è quello del nucleare, con le novità in merito alla fusione, con tante proposte sviluppate dalle start-up. Una di queste, particolarmente curiosa, vede un reattore nucleare per automobile. Si tratta di un sistema miniaturizzato capace di trasformare l’auto in un potente generatore di energia mobile. Sul nucleare si è probabilmente perso mezzo secolo, ma ora i presupposti per renderlo sicuro e sostenibile ci sono. Le tecnologie possono consentirlo.
Tornando al concetto di Fab Lab 2.0, sono in lavorazione nuovi modelli oltre a quelli nelle realtà emergenti nelle condizioni più remote?
Si sta sviluppando anche il concetto opposto, relativo al Fab Lab di prossimità, che gravita sempre sul concetto di Fab Lab 2.0 inteso quale Fab Lab in grado di replicare se stesso per ottenere la maggior capillarità possibile.
L’idea è quella di implementare delle micro-strutture, dei veri e propri Fab Lab di quartiere al servizio delle comunità locali, in cui coinvolgere anche le scuole e tutte le risorse creative che possono offrire un contributo in termini di innovazione dal basso. Anche in questo caso, la prospettiva è quella di generare una rete di nodi interconnessi sul territorio, valorizzando le relazioni su scala locale, per favorire l’inclusione sociale e la sostenibilità dello sviluppo attraverso la open source innovation.
La capillarità, oltre a offrire soluzioni puntuali ai problemi locali, consente anche di acquisire dati molto utili per elaborare strategie innovative. Questo modello sarà utile anche nella prospettiva dello sviluppo delle Smart City?
La visione del Fab Lab come collettore di dati e informazioni è stata probabilmente una delle lezioni più importanti tra quelle apprese nel contesto dei Fab Lab nelle realtà emergenti. Non possiamo dare per scontate certe situazioni. Anche la scelta di localizzazione del Fab Lab è il risultato di un’analisi dei dati utile a capire dove vi è una maggior esigenza e dove insistono le condizioni più favorevoli.
Con altre finalità, questi aspetti possono certamente essere trasferiti con successo anche in un contesto urbano, dove insistono relazioni molto forti tra i vari sistemi, che vanno tuttavia sviluppate per garantire servizi efficienti alla cittadinanza. Anche in questo caso è indispensabile disporre di un’elevata consapevolezza tecnologica.
Il passo successivo all’insediamento dei Fab Lab di quartiere dovrebbe essere quello di fornire un supporto specifico da parte di Fab Academy. In questo caso, oltre alle competenze utili alla fabbricazione, bisogna focalizzarsi sugli aspetti sociali, in modo da valorizzare quei percorsi di sviluppo che non sono finalizzati esclusivamente alla produzione. Occorre quella che viene chiamata una “academy of everything”.
L’obiettivo della capillarità coincide pienamente con l’analisi dei dati per supportare decisioni più informate e consapevoli, a cui assistiamo ormai da tempo in molti ambiti di business. La rete dei Fab Lab locale deve favorire che ciò avvenga in tempi rapidi, attraverso soluzioni mirate e sostenibili, in primo luogo da punto di vista sociale ed economico.
Negli Stati Uniti la situazione è migliore rispetto a quella europea?
Non avrebbe senso generalizzare. Ma sicuramente ritroviamo una situazione differente, in cui i problemi non mancano di certo, ma si manifestano sotto altre forme. Potremmo fare infiniti esempi, ma uno degli aspetti più evidenti è dato dalla progressiva scomparsa di alcune professionalità che sono, in realtà, sempre più richieste sul mercato.
Anche in questo caso, l’educazione, nello specifico l’orientamento professionale, risulta fondamentale. Negli Stati Uniti vediamo tantissimi ragazzi indebitarsi per ottenere un prestigioso titolo di studio presso le più importanti università. Molti di loro non riescono tuttavia a realizzarsi professionalmente, finendo inevitabilmente per svolgere ruoli secondari. La disillusione crea un inevitabile sentimento di frustrazione sociale, di persone che perdono entusiasmo nel fare le cose. Questo scenario non favorisce l’innovazione.
Al tempo stesso, vediamo che non c’è più nessuno in grado di piantare un chiodo. Mi riferisco alla cronica lacuna di carpentieri nel mercato delle costruzioni. È venuto meno l’appeal per certi lavori, per la manualità, ma sono contesti in cui, grazie alla tecnologia, sarebbe possibile lavorare molto bene e avere grandi soddisfazioni economiche, facendo leva sulla scarsità dell’offerta.
Alcune start-up innovative stanno sviluppando modelli di business proprio in questo ambito, per cercare di dare una risposta tecnologica a uno skill gap sempre più marcato. Sono le ragioni per cui ritengo che occorra un corretto bilanciamento tra creatività imprenditoriale ed evoluzione tecnologica. Mai come ora queste due componenti devono essere viste e concepite in maniera sinergica.