Esiste la possibilità, per gli idrofluorocarburi di tipo 134a contenuti in apparecchiature giunte a fine vita, di un abbattimento a ridotto impatto ambientale che sfrutta l’impiego di un materiale di scarto della produzione di alluminio.
Il calore intrappolato nell’atmosfera, quasi a formare «una coperta che avvolge il pianeta», definisce il cosiddetto “effetto serra”, i cui impatti nefasti sono responsabili dei fenomeni legati al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici.
Tra i gas serra responsabili – con contributi diversi – di tale processo, oltre all’anidride carbonica (CO2), al metano e al protossido di azoto, anche i gas fluorurati, comprendenti gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC), l’esafluoruro di zolfo e il trifluoruro di azoto.
I fluorurati non sono materia naturale di scarto, bensì gas sintetici prodotti intenzionalmente, impiegati in attività domestiche, commerciali e industriali coinvolte nella refrigerazione (frigoriferi), nel condizionamento d’aria, nelle pompe di calore, negli impianti antincendio, nelle apparecchiature che contengono solventi e nella produzione di semiconduttori. Connotati da un potenziale di riscaldamento globale elevato (in inglese Global Warming Potential o GWP), assorbono – rispetto alla CO2 – più energia per tonnellata emessa e, dunque, intrappolano più calore, oltre a rimanere nell’atmosfera per periodi di tempo che vanno da pochi a migliaia di anni [fonte: United States Environmental Protection Agency].
Takeaway
Idrofluorocarburi, tra i più potenti gas serra del pianeta
Tra i gas fluorurati, gli idrofluorocarburi (HFC) sono quelli maggiormente noti. Introdotti come alternativa ai vecchi clorofluorocarburi (CFC) e idroclorofluorocarburi (HCFC) – gradualmente eliminati a livello globale, a partire dal 1989, dal Protocollo di Montreal (a cura dell’UNEP – United Nations Environment Programme) perché altamente dannosi per lo strato di ozono stratosferico – sono, sì, privi di cloro (e, dunque, non lesivi nei confronti dell’ozono) ma, contenendo comunque carbonio, contribuiscono all’effetto serra, al punto che il Protocollo di Kyoto (entrato in vigore a febbraio 2005) li ha classificati tra i sette più potenti gas serra da ridurre, insieme a CO2, metano, protossido di azoto, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo.
A proposito del Global Warming Potential degli idrofluorocarburi, in “Hydrolysis of HFC-134a using a red mud catalyst to reuse an industrial waste” – (Journal of Industrial and Engineering Chemistry, in uscita sul numero cartaceo di agosto 2024), un gruppo di ricerca del Korea Institute of Energy Research e della Korea University, a Seul, sottolinea come questo sia di 140-11.700 volte superiore rispetto a quello dell’anidride carbonica e come la durata massima nell’atmosfera degli HFC sia di 270 anni.
Eppure – commentano gli autori – nonostante tali evidenze, «in tutto il mondo, il consumo di idrofluorocarburi è in aumento, specie nei prodotti automobilistici ed elettronici, in cui, in particolare, a essere ampiamente utilizzato come refrigerante è l’HFC-134a».
Da qui l’urgenza di mettere a punto un processo di trattamento appropriato per questa tipologia di HFC, al fine di ridurne il pericoloso effetto serra a fine ciclo di vita.
Ma prima soffermiamoci sui quadri normativi che, a livello europeo e internazionale, ne regolamentano l’uso.
Accordi internazionali e normative di riferimento
Nel 2016, il Protocollo di Montreal viene modificato dall’Emendamento di Kigali (sempre ad opera dei delegati UNEP), entrato poi in vigore nel 2019, che impone a tutti gli Stati membri ONU – entro il 2050 – la riduzione delle emissioni di idrofluorocarburi di oltre l’80% rispetto ai livelli storici.
Per quanto concerne, nello specifico, lo scenario europeo, l’11 marzo 2024 è, di fatto, entrato in vigore il Regolamento (UE) n. 573 sui gas fluorurati a effetto serra, che annulla il vecchio Regolamento (UE) n. 517/2014 e modifica la direttiva (UE) 2019/1937. L’obiettivo è limitare ulteriormente le emissioni di tali gas, in linea con l’accordo UE sulla neutralità climatica entro il 2050 e con i trattati internazionali menzionati.
Nel dettaglio, il nuovo Regolamento dell’Unione prevede l’eliminazione graduale e definitiva di tutti i fluorurati – compresi gli HFC – introducendo condizioni precise, da qui al 2050, per la loro produzione, importazione e immissione sul mercato, insieme a quei prodotti e a quelle apparecchiature che li contengono. Lo scopo è arrivare ad abbandonarne del tutto l’utilizzo entro i prossimi venticinque anni.
Sul fronte americano, la legge in materia è l’American Innovation and Manufacturing Act, promulgata nel 2020 dal Governo federale USA, che disciplina la limitazione degli idrofluorocarburi dell’85% entro il 2036, riducendone a poco a poco produzione e consumo, massimizzandone il recupero, minimizzando il rilascio dalle apparecchiature e facilitando la transizione verso tecnologie di nuova generazione.
Un rapido sguardo a Cina e India, dove, in generale, l’approccio al problema della nocività degli HFC si fonda sul rafforzamento e sull’accelerazione dell’attuazione dell’Emendamento di Kigali al protocollo di Montreal.
In particolare, la Cina, con l’inizio del 2024, ha dato un giro di vite al suo Regolamento – Ozone Depleting Substances (ODSs) – in tema di riduzione progressiva degli idrofluorocarburi, mentre l’India – da qui al 2047 – si è data una puntuale tabella di marcia scandita in quattro fasi, che vede una diminuzione cumulativa degli HFC del 10, del 20, del 30 e dell’85 per cento.
Le attuali metodologie di abbattimento degli idrofluorocarburi
È l’articolo 8 del già citato Regolamento (UE) n. 573/2024 a stabilire che «gli operatori di apparecchiature che contengono gas fluorurati a effetto serra, non contenuti nelle schiume, garantiscano che tali sostanze sianorecuperate e, dopo la disattivazione dell’apparecchiatura, siano riciclate, rigenerate o distrutte».
Relativamente, invece, alle apparecchiature contenenti schiume con all’interno gas fluorurati a effetto serra, dal 1° gennaio 2025 – recita il Regolamento UE – il loro trattamento dovrà avvenire «evitando il più possibile le emissioni e manipolando le schiume in modo da garantire la distruzione dei gas in esse contenuti. In caso di recupero di tali gas, questo dovrà essere effettuato solo da persone adeguatamente qualificate».
Nel caso specifico del gas refrigerante HFC-134a, di cui tratta lo studio coreano al quale si è accennato all’inizio, la distruzione (a fine ciclo di vita delle apparecchiature che lo contengono) richiede una grande quantità di energia. Il motivo è dato dal fatto che, tra tutti gli HFC, il 134a è quello che «mantiene uno stato chimicamente stabile nel tempo», spiega il team. E aggiunge:
«Inoltre, durante la sua decomposizione si genera acido fluoridrico, con conseguente corrosionedell’impianto di trattamento. Pertanto, sono in corso studi su diverse tecniche per distruggere efficacemente questa tipologia di HFC».
Le attuali tecnologie per l’abbattimento di questo gas fluorurato – illustrano i ricercatori del Korea Institute of Energy Research e della Korea University – includono:
- combustione
- decomposizione termica
- decomposizione del plasma
- decomposizione catalitica
Nel passarle in rassegna, il gruppo di studio ne rimarca le criticità, correlate alle peculiarità proprie dell’HFC-134a.
Riguardo alla combustione, ad esempio, ne viene messo in evidenza il rischio di generare inquinanti come diossine fluorurate, CO2 e ossido di azoto.
La tecnica basata sulla decomposizione termica, invece, «presenta lo svantaggio di un elevato consumo energetico. Si pensi che, adottando questo metodo, per realizzare una conversione di circa l’80% dell’HFC-134a, è necessaria una temperatura di almeno 900 °C».
Anche la decomposizione del plasma reca con sé elevati costi energetici e di investimento iniziale per generare il plasma. Inoltre, più il reattore è grande, maggiori dovranno essere la densità del plasma e l’efficienza di decomposizione.
La decomposizione catalitica (ossia per mezzo di catalizzatori), al contrario, è un approccio in grado di garantire elevata efficienza di decomposizione degli idrofluorocarburi 134a a temperature relativamente basse, di massino 600 °C, sottolineano gli autori.
Sull’impiego dei catalizzatori nel trattamento dell’HFC-134a, vi sono, al momento, numerosi studi in corso, tra cui quelli focalizzati sull’uso di materiali di scarto, di materiali a base di ossido di alluminio, di ossidi metallici e fosfati metallici, tutti finalizzati alla riduzione del consumo di energia durante il processo di decomposizione, con una generazione minima di sostanze inquinanti.
Idrofluorocarburi 134a: decomposizione catalitica basata su materiali di scarto
Il gruppo di lavoro coreano, si è soffermato, in particolare, sull’utilizzo di catalizzatori derivati da materiali di scarto, considerati meno costosi e più sostenibili dal punto di vista ambientale.
Sul tema, una ricerca giapponese (“Simultaneous Decomposition and Fixation of F-Gases Using Waste Concrete”), già nel 2011, sperimentò le reazioni di decomposizione dell’HFC-134a in seguito all’uso di un catalizzatore dato da calcestruzzo di scarto, capace di abbassare la temperatura dell’intero processo fino a 500 °C, con fissaggio dell’acido fluoridrico – sotto forma di fluoruro di calcio – nel calcestruzzo stesso.
Il già menzionato studio illustrato sul Journal of Industrial and Engineering Chemistry prende, invece, in esame uno scarto dell’industria metallurgica come il fango rosso, per farne un catalizzatore dall’utilizzo a lungo termine.
Che cos’è il fango rosso? Si tratta di un rifiuto generato dalla produzione di alluminio, composto da ossidi di ferro, alluminio e titanio e da una piccola quantità di ossidi di silicio, calcio e sodio, elementi che, insieme, danno origine all’attività catalitica.
«Il fango rosso possiede anche un’eccellente distribuzione granulometrica, con il 90% del volume di dimensioni inferiori a 75 μm. Il che, unitamente alla presenza di metalli attivi, lo rende vantaggioso come catalizzatore per l’idrolisi dell’HFC-134a» precisa il team.
Proprietà positive a parte, non dobbiamo dimenticare che il fango rosso è una sostanza fortemente alcalina e ricca di metalli pesanti che, se immessa nell’ambiente naturale senza essere stata trattata, è tossica per il suolo, le acque e la salute umana. [fonte: “Leaching of metals from red mud and toxicity in human cells in vitro” – Chemosphere, agosto 2023].
«Quando viene prodotta una tonnellata di alluminio, come sottoprodotto vengono generate da 1 a 1,5 tonnellate di fango rosso, che vengono poi raccolte nelle acque di scarico industriali» fanno notare gli autori.
Dunque, il metodo di decomposizione catalitica basato su un materiale di scarto come il fango rosso possiede una duplice vocazione: abbattere in maniera green i più potenti gas serra e riciclare un rifiuto industriale pericoloso per l’ambiente.
Preparazione e prestazioni del catalizzatore di fango rosso
I catalizzatori di fango rosso per la decomposizione degli HFC-134a sono stati ottenuti ricorrendo allo stampaggio a compressione.
Per la precisione, il fango rosso – scaricato sotto forma di impasto liquido in seguito al processo di lavorazione dell’alluminio – è stato prima essiccato a 80 °C per 24 ore, col risultato di un materiale solido che è stato, poi, frantumato e setacciato, fino a una dimensione inferiore a 500 µm. La polvere ricavata è stata, quindi, pressata.
«Per l’esperimento, il fango rosso compresso è stato suddiviso in pezzi dalla dimensione media di circa 5 mm. A eccezione dei trattamenti fisici per la sua solidificazione e compressione, non sono stati eseguiti interventi chimici» specificano i ricercatori coreani, a enfatizzare l’ecocompatibilità della soluzione messa a punto.
I primi test di idrolisi dell’idrofluorocarburo 134a hanno dato prova di ottime prestazioni, mantenendo un tasso di decomposizione superiore al 99% per 100 ore di processo, con un intervallo di temperature compreso tra 550 e 700 °C, utilizzando 10.000 ppm (parti per milione) di gas fluorurato.
In merito alle temperature, quello che è stato osservato dal team è che il tasso di decomposizione del gas aumentava con l’aumentare dei gradi centigradi, raggiungendo circa il 93% a 650 °C. Per confermare tale fenomeno, l’idrolisi è stata eseguita a temperature diverse:
«Quando la temperatura era di 700 °C, in realtà la decomposizione era simile a quella ottenuta a 650 °C, indicando che l’effetto della temperatura era trascurabile a temperature superiori a 650 °C»
Un’altra osservazione riguarda l’acido fluoridrico normalmente prodotto durante il processo di abbattimento dell’HFC-134a e da sempre una questione spinosa, in quanto esso corrode qualsivoglia impianto di trattamento.
Ebbene, reagendo con l’ossido di calcio del fango rosso, l’acido fluoridrico forma fluoruro di calcio che, a sua volta, crea una pellicola sottile sulla superficie del catalizzatore, proteggendolo da interferenze esterne.
Glimpses of Futures
L’obiettivo dello studio descritto, ovvero fare di un rifiuto dell’industria metallurgica un catalizzatore ambientale efficace per l’idrolisi dell’idrofluorocarburo 134a, è stato raggiunto. E i primi esperimenti ne hanno convalidato l’idoneità.
Non ci resta, ora, che anticipare possibili scenari futuri, analizzando – attraverso la matrice STEPS – gli impatti che l’evoluzione della tecnica di decomposizione catalitica degli HFC-134a basata su materiali di scarto, potrebbe avere su più fronti.
S – SOCIAL: sappiamo che, a livello globale, tra il 2040 e il 2050, tutte le tipologie di idrofluorocarburi (compreso il gas refrigerante 134a) saranno definitivamente eliminate dalla faccia della Terra, sia in termini di produzione ed esportazione, che di importazione e immissione sul mercato, incluse le apparecchiature che le contengono. Scenario – questo – che prefigura un passo avanti epocale verso la neutralità climatica. Ma, in attesa della totale uscita di scena degli HFC, metodologie di smaltimento come quella sviluppata dal Korea Institute of Energy Research e dalla Korea University supportano il contenimento dei danni a fine ciclo di vita di questi potenti gas serra, incidendo positivamente – rispetto ad altri metodi – sui consumi di energia necessari al loro processo di distruzione e sulla generazione di inquinanti (specie acido fluoridrico) sprigionati dalla loro decomposizione.
T – TECHNOLOGICAL: il fango rosso è un materiale di scarto oltremodo complesso, composto da molteplici elementi. Motivo per cui la sua attività catalitica potrebbe essere diversa a seconda del procedimento di preparazione, stampaggio e compressione e delle dinamiche in corso durante le prestazioni. Per tale ragione, il team di ricerca ne ha testato le funzioni catalitiche ricorrendo a tre differenti campionature, in cui i tre catalizzatori sono stati approntati seguendo le medesime operazioni, ma con un confronto dell’attività catalitica a differenti temperature, comprese tra 600 e 650 °C. Le differenze nel processo di distruzione dell’HFC-134a sono state davvero minime (comprese tra 3-4 punti percentuale a 600 °C e tra 3-8 punti percentuale a 650 °C). In ogni caso, in futuro sarà utile sondare il rendimento di catalizzatori di fango rosso ottenuti attraverso procedimenti diversi, per poi valutarne le performance. Ma non solo. Se, negli anni a venire, la tecnica di decomposizione catalitica degli HFC-134a basata sul fango rosso dovesse essere convalidata, si potrebbe studiare la sua applicazione anche nell’ambito dello smaltimento di altri gas serra o di altre sostanze dannose per il clima e l’ambiente.
E – ECONOMIC: in futuro, l’impatto economico di una soluzione che vede la decomposizione degli idrofluorocarburi 134a per mezzo di catalizzatori ottenuti dal fango rosso proveniente dalla produzione di alluminio, è rappresentato dall’abbattimento dei costi per il trattamento di questo rifiuto industriale. Ricordiamo che, nel mondo, sono 180 milioni le tonnellate di fango rosso prodotte all’anno, «… accumulato al punto da diventare uno dei più grandi prodotti di scarto pericolosi per l’ambiente, con l’incredibile quantità di 4 miliardi di tonnellate accumulate su scala globale» [fonte: “Green steel from red mud through climate-neutral hydrogen plasma reduction” – Nature, gennaio 2024], e che la spesa per il suo smaltimento rappresenta circa il 2% del valore totale della sua produzione. «A puro titolo di esempio, i brasiliani spendono ogni anno circa 106 milioni di dollari per garantire lo smaltimento sicuro dei fanghi rossi» [fonte: “Utilization of red mud in road base and subgrade materials: A review” – Science Direct].
P – POLITICAL: come accennato in precedenza, accordi internazionali quali il Protocollo di Montreal e l’Emendamento di Kigali – voluti dall’United Nations Environment Programme – così come la normativa europea e il quadro legislativo americano in materia, vanno tutti nella direzione del globale abbandono definitivo, passo dopo passo, degli idrofluorocarburi, nell’ottica della salvaguardia dell’ambiente e della lotta contro il cambiamento climatico. Il 2050 è la data ultima fissata. Nell’arco dei prossimi venticinque anni, la futura, eventuale, adozione di tecniche volte ad abbattere gli HFC senza l’impiego di risorse energetiche eccessive (come, invece, accade con i metodi della decomposizione termica e della decomposizione del plasma), né generando ulteriori inquinanti (come avviene con la combustione), ma sfruttando una sostanza destinata alla discarica e assai critica per l’ecosistema, come è il fango rosso, dovrebbe potersi inserire in una più chiara e puntuale politica europea di smaltimento di questo prodotto dell’industria dell’alluminio, tanto accumulato quanto rischioso per le nostre terre e le nostre acque.
S – SUSTAINABILITY: la sostenibilità ambientale è, da decenni, a livello globale, il filo rosso che lega tutte le azioni relative a scelte politiche, provvedimenti legislativi, ricerche e studi attorno all’utilizzo degli idrofluorocarburi e, più in generale, dei gas fluorurati e dei gas serra. Il lavoro illustrato ne è l’ennesimo esempio. Sul tema, quanto emerso dalla ventottesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28) – tenutasi dal 30 novembre al 13 dicembre 2023 a Dubai – è assai chiaro: «… raggiungere il picco delle emissioni globali di gas serra entro il 2025, per poi ridurli con azioni concrete del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019, al fine di limitare il riscaldamento globale a 1,5 ºC». È un imperativo morale, ormai improrogabile. E il riciclo del fango rosso per l’abbattimento degli HFC-132a, se diventasse realtà, sarebbe – in attesa del 2050 – un tassello del grande mosaico della sostenibilità.