Una biostampante 3D in grado di realizzare in modo rapido un numero elevato di lotti di tessuti biologici sui quali testare nuovi ritrovati della ricerca farmacologica, potrebbe contribuire a rendere lo sviluppo dei farmaci più veloce, meno costoso e senza la necessità di sperimentazioni sugli animali.
TAKEAWAY
- La sperimentazione preclinica dei farmaci è fatta di lunghi esperimenti condotti su modelli cellulari e animali che possono richiedere fino a quindici anni e costare fino a 2,6 miliardi di dollari.
- L’impiego del bioprinting nella sperimentazione farmacologica – con la realizzazione di modelli viventi di tessuti e di organi danneggiati da determinate malattie, col fine di studiarli e usarli come “cavie” per testare nuovi farmaci – promette numerosi vantaggi.
- E se, in Europa, il progetto Enlight si prefigge di realizzare un modello vivente di pancreas sul quale testare nuovi principi attivi per il trattamento terapeutico del diabete, dall’Università di San Diego arriva una tecnologia di biostampacapace di produrre in tempi brevissimi una serie di campioni di tessuto umano destinati alla sperimentazione farmacologica.
L’impiego del bioprinting nella sperimentazione farmacologica promette numerosi vantaggi, complice l’evoluzione delle tecniche e delle metodologie che vi sono alla base. Ricordiamo, infatti, che il bioprinting – detto anche, in forma estesa, “biostampa 3D” o “3D bioprinting” – oggi si serve di cellule staminali dalle quali, per mezzo di tecniche di stampa 3D e sulla base di immagini rilevate attraverso TAC o risonanza magnetica, prendono forma strutture biologiche tridimensionali che danno vita a organi, tessuti, ossa e muscoli assai fedeli ai modelli reali.
Tali strutture, oltre a essere impiegate nella medicina rigenerativa – focalizzata sulla riparazione e ricostruzione di tessuti e di organi compromessi da difetti congeniti, patologie, traumi o invecchiamento – trovano sempre più utilizzo anche nella realizzazione di modelli viventi di tessuti o di organi danneggiati da determinate malattie, col fine di studiarli e usarli come “cavie” per testare nuovi farmaci.
Il momento più critico di ogni processo di sviluppo e produzione di nuovi ritrovati della ricerca farmacologica sta proprio nella sua fase di sperimentazione preclinica, fatta di lunghi esperimenti condotti su modelli cellulari e animali, con l’obiettivo di selezionare, alla fine, le molecole da testare sull’uomo.
Il processo può richiedere fino a quindici anni e costare fino a 2,6 miliardi di dollari, come riportano in un recente lavoro i nanoingegneri dell’Università di San Diego, in California. I quali aggiungono:
“Generalmente l’iter inizia con lo screening di decine di migliaia di farmaci candidati. Quelli prescelti vengono, quindi, testati sugli animali e quelli che superano questa fase passano alle sperimentazioni cliniche. E, con un po’ di fortuna, uno di questi entrerà nel mercato come ‘farmaco approvato’”
Le lunghe tempistiche, i costi elevati e – in ultimo – gli aspetti etici legati all’impiego di animali da laboratorio, sono tre punti sui quali la comunità scientifica si interroga da tempo, alla ricerca di possibili alternative. E il bioprinting è tra queste.
Ne è un esempio il recente progetto europeo Enlight, chiamato a realizzare un “modello vivente” di pancreas – che integra cellule staminali specializzate (ossia capaci di differenziarsi tra i diversi tipi cellulari presenti all’interno dell’organo), studiate dal Politecnico di Zurigo e dall’Università Federico II di Napoli – su cui testare nuovi principi attivi per il trattamento terapeutico del diabete.
E dall’Europa voliamo in California, per osservare da vicino un altro esempio di bioprinting nella sperimentazione farmacologica. Protagonista il già citato Ateneo di San Diego, con la messa a punto di una tecnologia di biostampa “ad alta produttività”, ovvero capace di produrre una serie di 96 pozzetti di campioni di tessuto umano vivente in soli 30 minuti.
Il bioprinting nella sperimentazione farmacologica: la tecnologia sviluppata dall’Università di San Diego
“Lavorando direttamente sui tessuti umani, è possibile ottenere dati reali su come, nel concreto, agirà il farmaco” osserva Shaochen Chen, professore di Nanoingegneria presso la Jacobs School of Engineering della Università di San Diego. Ma in che cosa differisce la tecnologia sviluppata dal team del professor Chen rispetto alle metodologie di bioprinting 3D già esistenti?
Innanzitutto – spiega il gruppo di studio – nell’elevata risoluzione, in quanto capace di stampare strutture realistiche dalle intricate caratteristiche microscopiche, tra cui ad esempio, tessuti umani che riproducono fedelmente masse tumorali al fegato, contenenti complesse reti di vasi sanguigni.
Ma non solo. Oltre all’elevata risoluzione di stampa, un altro tratto distintivo di tale tecnologia di bioprinting nella sperimentazione farmacologica è dato dalla velocità: mediante test di prova, è stato dimostrato che la stampa di un solo campione di tessuto umano richiede – col metodo di Chen – circa 10 secondi.
Inoltre, possiede l’ulteriore vantaggio di stampare automaticamente i campioni direttamente nelle piastre per pozzetti industriali. Il che significa che i campioni non devono essere trasferiti manualmente uno alla volta dalla piattaforma di stampa alle piastre a pozzetti per lo screening.
I tessuti prodotti sono, poi, caratterizzati da strutture altamente organizzate, che li rendono facilmente riproducibili – in futuro – per lo screening farmacologico su scala industriale. E, relativamente a questo ultimo punto – fa notare Chen – l’approccio è diverso rispetto alla coltivazione di organoidi per lo screening dei farmaci:
“Uno dei limiti nella produzione in laboratorio – a partire da poche cellule di tessuto prelevate dal paziente – di versioni miniaturizzate e tridimensionali di organi umani attraverso tecniche di coltura cellulare in 3D, è dato dal formare strutture non ben controllate e soggette a variazioni da un esperimento all’altro. Pertanto, non sono riproducibili per la stessa proprietà, struttura e funzione. Con questa nuova tecnica di bioprinting 3D, invece, siamo in grado di specificare esattamente ‘dove’ stampare i diversi tipi di cellule, in quali quantità e con quale microarchitettura“
Come funziona il metodo californiano
Per stampare i campioni di tessuto, i ricercatori dell’Ateneo di San Diego dapprima progettano modelli 3D di strutture biologiche su un computer, che li suddivide in istantanee 2D e le trasferisce su milioni di specchi di dimensioni microscopiche, ognuno dei quali è controllato digitalmente per proiettare modelli di luce viola a 405 nanometri di lunghezza d’onda.
I modelli di luce vengono, a loro volta, proiettati su una soluzione contenente colture cellulari vive e polimeri fotosensibili, che si solidificano dopo l’esposizione alla luce. La struttura viene, quindi, stampata rapidamente uno strato alla volta in modo continuo, creando un’impalcatura polimerica solida 3D che incapsula cellule vive che cresceranno e diventeranno tessuto biologico.
I microspecchi a controllo digitale sono fondamentali per l’alta velocità della stampante. A tale riguardo, precisa Henry Hwang, studente presso il laboratorio di Chen e parte del team di ricerca:
“Per comprenderne l’importanza, è utile l’analogia con la differenza che esiste tra un disegno eseguito a matita e un timbro, dove, con la matita, è necessario tracciare ogni singola linea fino a completare la forma, mentre con il timbro l’intera forma viene tracciata in una volta sola. Questo è ciò che fa il dispositivo digitale a microspecchi in seno alla tecnologia che abbiamo sviluppato”
Questo recente lavoro in tema di bioprinting nella sperimentazione farmacologica si basa, in realtà, sulla tecnologia di biostampa tridimensionale che il team di Chen ha ideato nel 2013 come piattaforma per la creazione di tessuti biologici viventi per la medicina rigenerativa.
I progetti passati includono la stampa 3D di tessuti epatici, reti di vasi sanguigni, tessuti cardiaci e impianti del midollo spinale, solo per citarne alcuni. Negli ultimi anni, il laboratorio californiano ha ampliato l’uso della tecnologia arrivando a stampare strutture ispirate ai coralli, che gli scienziati marini possono utilizzare per studiare la crescita delle alghe e lavorare a progetti di ripristino della barriera corallina.
Vantaggi e prospettive del bioprinting nella sperimentazione farmacologica
Al di là dello studio condotto dal team dell’Università di San Diego, l’impiego del bioprinting nella sperimentazione farmacologica, oltre a rappresentare – come si è visto – una pratica più rapida, più economica (e più etica) rispetto alla sperimentazione sugli animali e alla tecnica degli espianti di tessuto, permette uno screening dei farmaci flessibile e modulare, con la possibilità di modificare, durante la progressione dello studio, le concentrazioni dei principi attivi e di avere a disposizione un ampio range di dosaggi.
Il piano sul quale si muove è quello della personalizzazione del trattamento farmacologico in base alle esigenze del singolo paziente, arrivando, in futuro, alla “creazione artigianale” del farmaco, producendo piccole quantità di medicinali, ciascuna con diverse formulazioni e proprietà di rilascio dei principi attivi.
Oppure, laddove occorre, alla produzione di farmaci multipli, ossia in grado di offrire una molteplicità di principi attivi in un’unica pillola, evitando errori in fase di assunzione, semplificando la somministrazione e offrendo l’esatto dosaggio con i minori effetti collaterali possibili. Questa sembra essere la strada della nuova sperimentazione farmacologica.