La plastica del futuro potrebbe derivare da un polimero supramolecolare resistente e vetroso, che si dissolve in acqua salata decomponendosi in tanti elementi metabolizzabili.
Il lento processo di frammentazione delle materie plastiche rilasciate nell’ambiente (in seguito alle operazioni di riciclo e smaltimento, alle perdite in mare durante il trasporto marittimo, all’usura dei pneumatici dei veicoli, al lavaggio di determinati tessuti sintetici, nonché alla distrazione e al comportamento incivile delle persone) è responsabile della formazione delle microplastiche, tra gli inquinanti sui quali è sempre più urgente intervenire a livello globale, in quanto causa di contaminazioni diffuse degli ecosistemi terrestri e marini, con forti impatti sugli organismi umani, animali e vegetali.
E se, come sostiene la National Geographic Society, potrebbero trascorrere centinaia o migliaia di anni prima che la plastica globale possa decomporsi completamente, entrando in contatto – attraverso il suolo e le acque – con pesticidi, inquinanti chimici, metalli pesanti e residui di antibiotici, le microplastiche arrivano addirittura a fungere da vettori per il trasporto di tali sostanze, diffondendole ovunque, anche nella catena alimentare [fonte: “Effects of microplastics on the terrestrial environment: A critical review” – Environmental Research, 2022].
La comunità scientifica internazionale è da sempre impegnata nella ricerca di materiali alternativi alla plastica tradizionale, a base vegetale, sostenibili e biodegradabili nell’ambiente. Eppure, rimane ancora un grosso problema: quello della perfetta e completa biodegradabilità, in linea con le normative vigenti.
Diverse materie plastiche bio-based oggi in circolazione (dette anche “bioplastiche”), infatti, seppure caratterizzate da una ridotta impronta di carbonio rispetto alle plastiche ottenute da petrolio e derivati, non sono solubili in acqua.
Takeaway
Bio-based ma non biodegradabile: l’esempio della bioplastica a base di acido polilattico
Innanzitutto, preme dire che, tra i principali riferimenti normativi riguardanti i requisiti in base ai quali un materiale plastico può definirsi “biodegradabile”, figura la UNI EN ISO 14855-1:2013, la quale fissa gli standard europei per determinare la «biodegradabilità aerobica finale dei materiali plastici in condizioni controllate di compostaggio», ossia la decomposizione del 90 per cento in almeno sei mesi.
Altri standard europei sono quelli dati dalle norme EN 13432:2000 in tema di plastica compostabile per gli imballaggi e dalla UNI EN 14995:2007 per tutti gli altri tipi di prodotti di plastica.
Tra le prerogative imposte dalle due norme, anche il superamento dei test di biodegradabilità (almeno del 90 per cento in sei mesi, come già accennato) e di disintegrazione, che deve avvenire dopo tre mesi e deve ridurre almeno il 90 per cento del materiale in frammenti di dimensioni inferiori a 2 millimetri.
Ebbene, proprio a proposito di tempistiche relative a biodegradabilità e disintegrazione delle materie plastiche compostabili, il lavoro illustrato in “Not so biodegradable: Polylactic acid and cellulose/plastic blend textiles lack fast biodegradation in marine waters” (PLOS One, maggio 2023) è assai critico nei confronti di quei materiali in commercio descritti come “biodegradabili”, ma che, per subire una rapida biodegradazione, richiedono condizioni specifiche, raggiungibili solo in ambienti industriali, a temperature assai elevate, e non in ambienti naturali.
È il caso della diffusa bioplastica a base di acido polilattico (PLA), derivata dagli zuccheri naturalmente. presenti nel mais e nella barbabietola, la cui biodegradabilità è stata testata dagli autori nelle acque marine, con risultati che attestano come tale materiale a base vegetale non riesca a degradarsi nell’ambiente marino per oltre 428 giorni, ben oltre quanto disciplinato dalle direttive citate.
In un lavoro più recente (“Rapid biodegradation of microplastics generated from bio-based thermoplastic polyurethane” – Scientific Report, 12 marzo 2024), lo stesso team di studio fa notare come, in realtà, il processo di biodegradazione, affinché si attivi e si completi, abbia bisogno che la struttura chimica del composto plastico contenga legami chimici fisicamente accessibili agli enzimi con i quali operano imicrorganismi presenti nell’ambiente (batteri e funghi), responsabili dei processi enzimatici che trasformano le plastiche in sostanze naturali, come acqua, anidride carbonica o sali minerali.
Materie plastiche supramolecolari, resistenti e totalmente disintegrabili
Una risposta concreta alla difficoltà nel conseguire la completa disintegrazione delle materie plastiche nell’acqua di mare, proviene dagli scienziati dell’Università di Tokyo e del RIKEN Center for Emergent Matter Science di Wako, sempre in Giapppne.
Focus del loro recente studio, dal titolo “Mechanically strong yet metabolizable supramolecular plastics by desalting upon phase separation” (Science, 21 novembre 2024), sono le “plastiche supramolecolari”, da loro sviluppate in laboratorio.
In particolare, spiegano gli autori, «le nuove plastiche sono state realizzate combinando due monomeri ionici del tutto atossici che formano ponti salini reticolati, i quali conferiscono alla struttura così ottenuta resistenza e flessibilità. Nei test iniziali, uno dei monomeri utilizzati era un comune additivo alimentare, ovvero un sale chiamato “esametafosfato di sodio”, mentre l’altro era uno dei numerosi monomeri a base di ioni di guanidinio».
L’aspetto saliente della plastica supramolecolare sta nel fatto che i due monomeri ionici che la compongono possiedono una struttura chimica tale da essere completamente metabolizzata dai batteri, garantendo, in questo modo, la totale biodegradabilità in acqua.
Nel dettaglio, nel materiale ottenuto, la struttura dei ponti salini reticolati formati dai due monomeri è irreversibile, a meno che non venga esposta a elettroliti, come quelli presenti nell’acqua di mare. Ma la scoperta chiave compiuta dal team ha riguardato la creazione di ponti salini reticolati “selettivamente” irreversibili, ossia tali da assicurare, da un lato, resistenza e, dall’altro, solubilità. Vediamo in che modo questo è reso possibile.
Nuove materie plastiche vetrose e metabolizzabili
Proprio come avviene quando si versa dell’olio nell’acqua – illustrano i ricercatori giapponesi – «dopo aver mescolato insieme i due monomeri in acqua, si osservano i due liquidi separati: uno denso e viscoso, contenente ponti salini reticolati, mentre l’altro acquoso e contenente ioni di sale».
A quel punto, l’intuizione degli scienziati: “spingere” il sale esametafosfato di sodio (denso e viscoso) nello strato acquoso. Il materiale plastico finale – alchile SP₂ – è stato prodotto proprio essiccando lo spesso strato di liquido viscoso ottenuto, poi sottoposto a processo di dissalazione, per far sì che – una volta esiccato – non si rivelasse un cristallo fragile, inadatto all’uso.
Successivamente, la plastica ottenuta (simile a un foglio di vetro) è stata risalata (immergendola in acqua salata) – causando così «l’inversione delle interazioni e la destabilizzazione della struttura nel giro di poche ore» – e testata per provarne la riciclabilità e la biodegradabilità.
«Dopo aver sciolto la nuova plastica in acqua salata, siamo stati in grado di recuperare il 91% dell’esametafosfato di sodio e l’82% del guanidinio sotto forma di polveri, indicando che il riciclaggio è facile ed efficiente» commentano gli autori.
Glimpses of Futures
Con l’inedito materiale introdotto, il gruppo di studio dell’Ateneo di Tokyo e del RIKEN Center for Emergent Matter Science di Wako ha gettato le basi per la definizione di una nuova famiglia di plastiche, al contempo resistenti, solubili, riciclabili, prive di emissioni di CO2 e – aspetto ancora più cruciale – non generanti microplastiche.
Proviamo, ora, ad anticipare possibili scenari futuri, cercando di prevedere – aiutandoci con la matrice STEPS – gli impatti che l’evoluzione della “nuova” plastica” potrebbe avere sotto il profilo sociale, tecnologico, economico, politico e della sostenibilità.
S – SOCIAL: perfezionate, rese duttili, adattate a tutti gli utilizzi delle plastiche tradizionali (ricavate da petrolio e derivati) e sottoposte a ulteriori test per accertarne la completa sicurezza (atossicità e non infiammabilità), in futuro, le materie plastiche descritte, non inquinanti e amiche dell’ambiente, potrebbero davvero segnare il passaggio, a livello globale, dall’era della “plastica-problema” all’era della “plastica-risorsa”. Basti pensare – riferisce il team – che, se posti sotto il terreno, i fogli della nuova plastica si degradano completamente nel corso di dieci giorni. Lasso di tempo in cui – è stato rilevato dai primi test eseguiti – nutrono la terra di fosforo e azoto, fungendo da fertilizzanti. Una rivoluzione, insomma.
T – TECNOLOGICAL: in futuro, grazie all’apporto delle biotecnologie, il materiale plastico (alchile SP₂) scoperto dal team giapponese potrebbe andare oltre la varietà di applicazioni oggi previste per le bioplastiche in uso, vale a dire l’imballaggio (attualmente il più grande segmento di mercato), la raccolta differenziata (sacchi e sacchetti per l’umido), il consumo di alimenti (film, posate, catering) e il trasporto merci (buste per la spesa, sacchi igienici per primo imballo alimentare). Inoltre, le tecniche di rimodellamento a temperature superiori a 120°C consentiranno alla “nuova” plastica di essere personalizzata, in base alle specifiche esigenze di utilizzo: da dura e resistente, alle plastiche simili al silicone, fino a quelle flessibili e a bassa resistenza.
E – ECONOMIC: dal punto di vista economico, l’impatto maggiore di una futura realizzazione, su larga scala, del materiale plastico alchile SP₂ è rappresentato dai suoi costi di produzione, specie se comparati con quelli della plastica derivata dal petrolio, che presenta, in generale, costi inferiori rispetto alle bioplastiche. Anche se, comunque, la produzione di queste ultime – secondo il Report 2024 di European Bioplastics sullo sviluppo del comparto – continua a crescere, tanto da essere destinata a passare – secondo le stime – dagli attuali 2,47 milioni di tonnellate a circa 5,73 milioni di tonnellate nel 2029, con il segmento degli imballaggi in testa (45% della produzione totale, pari a 1,12 milioni di tonnellate prodotte nel 2024).
P – POLITICAL: alla luce delle nuove misure UE sugli imballaggi (compresi quelli di plastica), approvate il 24 aprile 2024, al fine di renderli più sostenibili e ridurne i rifiuti, l’evoluzione delle materie plastiche messe a punto dagli autori, in futuro, potrebbe condurre a una soluzione strategica, in sostituzione degli attuali imballaggi inquinanti, generanti microplastiche, e a favore dell’ambiente e della salute di tutti gli organismi che abitano il pianeta. In particolare, le nuove norme vietano, nell’Unione, a partire dal 1° gennaio 2030, gli imballaggi di plastica per frutta e verdura e per i cibi e le bevande consumati in bar e ristoranti, le monoporzioni, i piccoli imballaggi monouso e le borse di plastica in materiale ultraleggero, al di sotto dei 15 micron. Ebbene, il materiale plastico a base di alchile SP₂, atossico, non inquinante e, soprattutto, metabolizzabile nell’ambiente, attuerebbe la politica dell’Unione Europea.
S – SUSTAINABILITY: la lotta contro l’inquinamento mondiale da plastica, in futuro, vedrebbe, nel materiale sviluppato dal gruppo di lavoro giapponese, un nuovo, potente alleato. La resistenza, l’atossicità, l’assenza di emissioni, la biodegradabilità, la solubilità e la riciclabilità delle inedite plastiche supramolecolari ne fanno materie che sposano completamente la causa ambientale e i suoi obiettivi di sostenibilità. Plastiche di questo tipo, se anche abbandonate nell’ambiente, non rilasciano nulla che non sia compatibile con esso.