L’utilizzo della realtà virtuale connette i movimenti della testa e del corpo con sistemi in grado di rilevare in maniera molto accurata le interazioni nell’ambiente immersivo. Una ricerca condotta dalla Stanford University ha dimostrato come meno di cinque minuti di movimento tracciato siano sufficienti per riconoscere l’utente. Mentre si apre il dibattito sull’utilizzo di questi dati e sulle questioni etiche connesse, le tecnologie di tracciamento in VR si dimostrano già oggi capaci di supportare le aziende a migliorare l’efficienza dei processi di sviluppo del prodotto, grazie alla qualità delle ricerche di mercato condotte mediante le simulazioni virtuali.

TAKEAWAY

  • I ricercatori della Stanford University ci dicono che cinque minuti di movimento in realtà virtuale sono sufficienti per riconoscere una persona.
  • Le policy d’uso dei sistemi di realtà virtuale in commercio sollevano legittime apprensioni sui termini legati alla privacy.
  • I motion data acquisiti in VR consentono di condurre ricerche di mercato interamente digitali, estremamente accurate, senza bisogno di realizzare costosi set e prototipi, con la possibilità di confrontare le proprie ipotesi progettuali con i prodotti della concorrenza.
  • La VR sta assumendo un ruolo rilevante nei processi di design review, capaci di coinvolgere anche in multipresenza tutti i decisori attivi sul progetto di sviluppo di un nuovo prodotto.

Realtà virtuale e sistemi di tracciamento: quale filo lega le due sfere?

L’analisi dei dati di utilizzo tracciati grazie alla realtà virtuale sta influenzando in maniera sempre più tangibile i processi di sviluppo, grazie alle capacità di rilevamento offerte dalle tecnologie immersive.

L’ennesima conferma arriva da una recente ricerca, condotta dalla Stanford University, il cui report scientifico è stato pubblicato su Nature nell’ottobre 2020. L’indagine, svolta su un campione di 511 persone di differente sesso ed età, ha consentito al sistema implementato per l’analisi dei dati di movimento di riconoscere in maniera univoca il 95% del campione rilevato.

Secondo i risultati pubblicati, sarebbero infatti sufficienti meno di cinque minuti di “allenamento” del sistema di machine learning per addestrare un’applicazione in grado di identificare in maniera pressoché certa una persona sulla base dei suoi movimenti.

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Realtà virtuale e sistemi di tracciamento: riepilogo del campione analizzato dalla ricerca. Un dato rilevante è caratterizzato dall’elevata percentuale di soggetti che non hanno mai vissuto esperienze immersive prima di aver eseguito il test, o di aver provato la VR in maniera assolutamente sporadica (credit: Stanford University).

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Il test è stato condotto con la visione di un video 360 dotato di una serie di attrattori forti e deboli, capaci di stimolare una serie di reazioni contestuali ad un survey in ambiente immersivo. La sequenza mostra un utente generico nelle due condizioni previste (credit: Stanford University).

Pur trattandosi di una valutazione contestuale a una ricerca originariamente finalizzata a valutare l’usabilità della realtà virtuale in base agli aspetti biometrici funzionali ad abitudini e disagi legati all’esperienza virtuale, i risultati in termini di qualità del tracciamento sono risultati sorprendenti al punto da spingere il gruppo di ricerca ad approfondire questi aspetti in un report specifico.

Le potenzialità del tracciamento dei movimenti aprono infatti una serie di considerazioni molto ampie in funzione del loro utilizzo. Si pensi soltanto alla creazione di profili di marketing e all’accuratezza che potrebbero raggiungere conoscendo abitudini e vulnerabilità di ognuno di noi nelle più svariate situazioni di utilizzo.

Se un test basato su un campione di sole 511 persone è stato in grado di restituire un esito tanto accurato, figuriamoci cosa potrà accadere qualora la realtà virtuale dovesse assumere una diffusione massiva, come attualmente avviene nel caso degli smartphone, dotati di un livello di coinvolgimento relativamente inferiore rispetto a quello ottenibile con una tecnologia puramente immersiva.

L’utilizzo combinato di un headset VR ed una serie di sensori basilari è già ora capace di acquisire in tempo reale una serie di informazioni biometriche molto accurate.

Realtà virtuale, sistemi di tracciamento e privacy: un futuro a rischio calcolato?

Il potere strumentale della realtà virtuale consiste in buona parte nello stabilire una relazione intima con il suo utilizzatore, immergendolo in una dimensione alternativa a quella che abitualmente lo circonda. Un particolare di cui sono perfettamente consapevoli sia Oculus (Facebook) che HTC Vive, i due produttori di riferimento nell’ambito dei device più diffusi per la realtà virtuale al di fuori dell’ambito puramente gaming.

Le rispettive policy d’uso, da accettare obbligatoriamente, prevedono che i provider possano condividere i dati di utilizzo “de-identified”, ossia non riconducibili direttamente all’identità dell’utilizzatore finale, senza che nulla impedisca di fatto la sua dettagliata profilazione.

Quando indossiamo un Oculus Quest, un Rift, piuttosto che un dispositivo della famiglia HTC Vive, in maniera più o meno consapevole ci connettiamo ad un sistema intelligente, capace di acquisire ed analizzare in tempo reale i nostri dati di tracciamento. Se oggi questi device sono relativamente poco diffusi, cosa succederà quando tra cinque, dieci o vent’anni la realtà virtuale diverrà disponibile e diffusa in a livello consumer?

Lecito chiederselo, all’alba di una generazione di dispositivi che, grazie all’implementazione delle nanotecnologie, prevede e promette connessioni uomo-macchina a livello neurale, capaci di intercettare letteralmente qualsiasi cosa ci passi per la testa, anche oltre il nostro livello cognitivo.

Consapevoli delle conseguenze che un livello di penetrazione così accurato potrebbe avere sulle comunità, gli stessi ricercatori di Stanford hanno pubblicamente espresso un incoraggiamento affinché i ricercatori in varie discipline inizino ad esplorare metodi in grado di “proteggere” il tracciamento dei dati effettuato in realtà virtuale.

In attesa di conoscere la risposte sulle principali questioni etiche relative all’utilizzo della realtà virtuale, concentriamo la nostra attenzione sugli scenari attuali, dove i sistemi di VR body tracking, in particolar modo quello oculare, possono dare alle aziende uno solido contributo basato sulla relazione tra l’utente e il prodotto, in tutte le fasi della sua implementazione.

Nuovi scenari di analisi dei dati per lo sviluppo di prodotto: il caso Electrolux

Nell’ambito dello sviluppo di prodotto, la realtà virtuale viene utilizzata soprattutto in due contesti: il supporto alla progettazione, in termini di design review e nelle ricerche di mercato. In entrambi i casi, la VR assume la valenza di uno strumento in grado di facilitare enormemente le decisioni, accelerando il time to market e di conseguenza i costi generali. E non solo.

Un caso studio tra i più interessanti tra quelli di recente pubblicati ci arriva da Electrolux. Il brand svedese, notoriamente specializzato nella produzione di elettrodomestici, si avvale della consulenza continuativa dell’agenzia Vobling per migliorare l’efficienza dei suoi processi grazie alle tecnologie immersive.

In prossimità del lancio di una nuova linea di prodotti per la cucina, il team di sviluppo XR ha creato per Electrolux un’esperienza in grado di sfruttare il tracciamento oculare integrato del visore per analizzare il livello di attenzione dei consumatori sui vari aspetti del design di un ambiente. Il test virtuale ha consentito di sottoporre il campione ad una serie di scenari alternativi, in grado di valutare, nella stessa situazione, anche i prodotti delle aziende competitor già presenti sul mercato.

Per quanto riguarda il contributo della realtà virtuale alla progettazione, durante un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del caso studio, Michael Forsberg, project portfolio manager di Electrolux, ha dichiarato:

La realtà virtuale e il tracciamento oculare stanno variando in molti modi il nostro modo di lavorare. Fare provare ai consumatori i nostri prodotti prima che vengano addirittura prototipati rappresenta per noi una grandissima opportunità. Crediamo profondamente nell’approccio customer-centric e la VR rappresenta l’esperienza più prossima alla vita reale per rilevare dati d’uso oggettivi

Da cui derivano una serie di oggettivi vantaggi per i designer: “Finalmente – prosegue Forsberg – possiamo lavorare in maniera iterativa sui nostri modelli 3D, facendo tutte le prove possibili, senza dover realizzare nemmeno un mock-up”. Un particolare particolarmente apprezzato della VR è la sua capacità di effettuare dei momenti di revisione collaborativa, in multipresenza: “Possiamo condividere internamente gli stati di avanzamento in qualsiasi fase del progetto, valutando puntualmente tutti gli aspetti del design con i vari team coinvolti”.

La vocazione collaborativa della VR risulta dunque fondamentale nel dare valore al contributo analitico delle ricerche di mercato. Anche gli specialisti del marketing possono infatti essere coinvolti nei processi creativi indirizzando, con indicazioni tangibili e misurabili, l’esito della progettazione. Un aspetto tutt’altro che trascurabile, soprattutto in termini di certezza dell’investimento.

Una ricerca di mercato condotta in realtà virtuale comporta al tempo stesso i vantaggi di un’esperienza digitale in termini di riduzione degli oneri legati alla logistica. Se un approccio tradizionale richiederebbe la costruzione di un set fisico, con reale disponibilità dei prototipi da valutare, in VR i tempi ed i costi possono essere drasticamente ridotti, raggiungendo contestualmente un pubblico molto più ampio, in quanto tutta l’esperienza di prova è concentrabile nello spazio digitale di un visore in grado di raggiungere facilmente i consumatori in moltissimi luoghi simultaneamente, in tutto il mondo.

Nel caso delle tecnologie utilizzate, va precisato che Vobling ha progettato l’esperienza virtuale per un sistema HTC Vive Eye Pro, che a differenza della versione normale integra un sistema sviluppato da Tobii, marchio leader nei dispositivi di tracciamento oculare. Le tecnologie VR iniziano ad essere sufficiente mature per ampliare il range di applicazioni in funzione di un incremento generale nella qualità dell’interazione. In altri termini, chi progetta un’esperienza immersiva, pur dovendo fare necessariamente i conti con una serie di ottimizzazioni, è finalmente consapevole di poter garantire livelli di usabilità e resa visiva soddisfacenti ai propri contenuti.

Quale domani per il VR body tracking?

Le aziende che stanno implementando la realtà virtuale all’interno dei processi di sviluppo e commercializzazione del prodotto sono in costante crescita, grazie agli evidenti vantaggi che l’esperienza immersiva comporta a tutti i livelli di fruizione

A livello tecnologico parliamo di un contesto con enormi margini di miglioramento. Se chi ha visto qualche film di troppo tende ancora a (de)scrivere e prospettare scenari di entusiasmo suggestivi per la fiction, nel mondo reale, in termini hardware e software, la realtà virtuale è attualmente collocabile poco oltre il livello primordiale.

Serve un approccio realista, che di fronte ad una presa d’atto che potrebbe apparire limitante, sia in grado di riconoscere con stima ampiamente favorevole i passi da gigante che i modelli usciti nel 2020 hanno mostrato in termini di precisione, resa ed ergonomia. Una nota di straordinario merito va senza dubbio a Oculus Quest 2, una tappa fondamentale di un processo evolutivo della VR che prima o poi ricorderemo quasi con tenerezza. Di quali tempi stiamo parlando?

In un talk nell’edizione 2019 della View Conference, Donald Greenberg, luminare della Cornell University, tra gli inventori della computer grafica così come la conosciamo ora, ha dichiarato che potrebbero servire addirittura 20 anni per poter finalmente disporre di una VR fotorealistica.

Ciò tenendo conto sia del livello di resa grafico che degli aspetti tangibili dell’esperienza visiva a livello sensoriale, ancor prima di entrare nel merito delle questioni legate all’interazione. Si tratta di tempi in linea con le prospettive di sviluppo concrete, per proiettare le esperienze immersive ad un livello paragonabile alla computer grafica attualmente disponibile nelle applicazioni su display.

Al netto di fuorvianti futurologie, perché ciò avvenga, la realtà virtuale dovrà assumere formati di fruizione in grado di sfruttare una potenza di calcolo oggi impossibile negli spazi di un semplice visore.

A prescindere dalla progressiva miniaturizzazione dell’hardware, il cloud computing sarà un’opportunità, appena le infrastrutture consentiranno risultati efficienti in tempo reale, ma servirà soprattutto quel livello di integrazione uomo-macchina, di aderenza periferica che farà della realtà virtuale un’estensione naturale del nostro corpo e della nostra mente, raggiungendo una simbiosi esperienziale senza discontinuità. Ci attendono anni di incessante evoluzione, fino a quando sarà finalmente (?) possibile tracciare ogni istante nella nostra vita.


Fonti consultate: Mixed, Road to VR, HTC Vive, Electrolux, tobii, nature, Stanford University

Per approfondimenti sulla ricerca “Personal identifiability of user tracking data during observation of 360-degree VR video”, svolta dalla Stanford University, suggeriamo la lettura del report scientifico pubblicato su Nature.

Scritto da:

Francesco La Trofa

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin