Attingendo alla teoria della valutazione cognitiva dello stress, un recente studio pubblicato dall'American Psychological Association suggerisce che i lavoratori a contatto quotidiano con i robot riporterebbero un maggiore senso di precarietà del lavoro, a sua volta correlato a una serie di atteggiamenti negativi.
Sulla presenza dei robot nei luoghi di lavoro esiste ormai un’ampia letteratura, che tratta l’argomento focalizzandosi, in particolare, sui vantaggi della collaborazione uomo-macchina dal punto di vista della produttività e dell’efficienza, esaltandone l’elemento profondamente innovativo e trasformativo.
Relativamente pochi, invece, sono gli studi che assumono il punto di vista del lavoratore, analizzando la percezione che egli ha dell’agente robotico al suo fianco, l’atteggiamento nei suoi confronti e le sue reazioni sotto il profilo psicologico.
Giuseppe Riva, ordinario di Psicologia generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore dell’Humane Technology Lab presso lo stesso Ateneo, spiega come, tra le problematiche della collaborazione lavoratore-robot, la prima riguardi la decisionalità: «chi prende la decisione finale nello svolgimento di un dato compito? Accade spesso che le aziende incarichino di questo la macchina, perché considerata oggettiva. E questo ha come conseguenza un senso di demotivazione da parte del lavoratore, il quale tende a sentirsi meno importante del robot».
E questo è un primo punto. Un’altra tesi, invece, suggerisce che «i dipendenti esposti ai robot, sia fisicamente che psicologicamente, riporterebbero un senso di precarietà e di insicurezza nei confronti del lavoro, a sua volta correlato alla sindrome da burnout, derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo».
A sostenerla, uno studio corale – che vede protagoniste la National University di Singapore, la Texas A&M University, le Università della Georgia e del North Carolina, la Northwestern University, nell’Illinois, e la Sun Yat-sen University, in Cina – dal titolo “The Rise of Robots Increases Job Insecurity and Maladaptive Workplace Behaviors: Multimethod Evidence”, pubblicato dall’American Psychological Association, in cui si esaminano gli effetti psicologici e comportamentali del robot nei luoghi di lavoro.
«Anche se i posti di lavoro non sono minacciati dai robot, prevediamo che la prevalenza della retorica sociale pessimistica, insieme a quella della superiorità attribuita ai robot all’interno di un ristretto dominio di compiti, porteranno l’essere umano a vedere la macchina come una minaccia al proprio lavoro, con conseguente accresciuto senso di precarietà» si legge nel documento [per approfondimenti, consigliamo la lettura della nostra guida alla robotica, che spiega come funziona e quali sono gli esempi applicativi – ndr].
Le ipotesi di partenza e le teorie di riferimento
Lo studio corale in tema di robot nei luoghi di lavoro considera la definizione che, del “senso di precarietà del lavoro”, dà la psicologia, ossia «un processo percettivo, risultato di una valutazione soggettiva degli stimoli ambientali circostanti»
Secondo la “teoria della valutazione cognitiva dello stress”, quando un individuo incontra uno stimolo auto-rilevante, si impegnerà in processi di valutazione: «le valutazioni congruenti agli obiettivi danno luogo a reazioni positive, mentre le valutazioni incongruenti innescano reazioni negative, come lo stress».
In linea con questa teoria, gli stimoli ambientali dati dall’essere esposti ai robot potrebbero influenzare le valutazioni dei dipendenti sulla precarietà del lavoro, portandoli a valutare le macchine come “incongruenti” con i propri obiettivi.
Questo perché – osserva il team di studio – è ormai opinione dominante quella in base alla quale i robot sono già più efficienti e competenti degli umani in alcuni lavori, ad esempio quelli manuali:
«La chirurgia robotica consente di eseguire interventi chirurgici con risultati eccellenti. Il che ci porta a immaginare un ritmo di innovazione tale da indurre l’ascesa dei robot come una minaccia per il lavoro dell’essere umano, portando a una valutazione incongruente dell’obiettivo, che si traduce in precarietà del lavoro»
A questo si aggiunge la previsione che vuole i robot sempre più integrati nelle aziende, quale tendenza futura inevitabile. Da qui la linea di pensiero dei ricercatori, i quali hanno teorizzato la valutazione dell’esposizione ai robot come un ostacolo alla futura carriera lavorativa da parte dei dipendenti.
Robot nei luoghi di lavoro: il vissuto di precarietà dei dipendenti è associato alla tendenza a cercare altre occupazioni?
Le ipotesi sugli impatti psicologici legati alla presenza dei robot nei luoghi di lavoro sono state testate dal team di ricerca attraverso una serie di test.
Uno di questi aveva come obiettivo quello di verificare se la prevalenza (con diverse intensità) di robot industriali in ben 185 aree degli Stati Uniti potesse essere direttamente correlata agli sforzi dei lavoratori di quelle zone nel salvaguardare la sicurezza del proprio status cercando altre occupazioni online, presso siti di reclutamento.
In sostanza, gli autori hanno misurato il vissuto di precarietà dei lavoratori di quelle 185 aree attraverso la frequenza con cui questi cercavano altri lavori sui più popolari motori di ricerca USA.
In particolare, sono stati raccolti (in modalità anonima) i dati relativi alla frequenza delle ricerche di lavoro, effettuate in quelle determinate aree, sui cinque siti di reclutamento più popolari negli Stati Uniti – LinkedIn, Glassdoor, ZipRecruiter, Indeed e Monster – ogni anno, dal 2010 al 2015.
Per le aree considerate, sono stati raccolti anche i dati sulla disoccupazione dal Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti, per poi incrociarli con le analisi effettuate. «Questo perché – fanno notare i ricercatori – il tasso di disoccupazione è un fattore cruciale nel considerare la condizione economica di una determinata località e il suo controllo aiuta a escludere la spiegazione per la quale l’aumento della prevalenza di robot e la ricerca di lavoro siano entrambi guidati dalla crescita economica».
«Invece, anche senza questo controllo incrociato, i risultati sono rimasti identici», fanno sapere. Confermando l’ipotesi iniziale, ovvero che in quelle aree in cui la presenza di robot industriali è più alta (“colonna M” nella tabella sotto riportata, contro i dati della “colonna SD” riferita a quelle zone dalla minore densità di robot nei siti industriali), i dipendenti sono maggiormente spinti a cercare altri lavori.
Il circolo vizioso tra impiego di robot, senso di precarietà e stress lavorativo
In tema di robot nei luoghi di lavoro, il test descritto – pur rivelando che l’intensificarsi dei ruoli delle macchine all’interno delle aziende può aumentare il senso di precarietà del lavoro – lascia, però, aperte alcune questioni.
In primo luogo, non è chiaro se gli effetti citati siano riferibili alle sole persone che interagiscono direttamente con i robot. Inoltre, non si deduce se tali effetti siano generalizzabili solo a coloro che svolgono compiti altamente tecnici e se i maggiori vissuti di precarietà si traducano in risultati comportamentali. Il secondo test condotto dal team si prefigge di fare luce su questi punti.
I partecipanti (118 ingegneri) sono stati reclutati da una delle più grandi aziende produttrici di automobili dell’Asia, con sede nell’India occidentale. In dieci giorni lavorativi consecutivi, gli autori hanno inviato ai partecipanti sondaggi giornalieri in tre fasce orarie fisse: prima del lavoro, a metà giornata e alla fine del lavoro.
L’indagine prima del lavoro includeva variabili di controllo; l’indagine a metà giornata lavorativa mirava, invece, a misurare l’impiego quotidiano di robot al lavoro e il senso di precarietà che ne conseguiva; l’indagine di fine lavoro prevedeva la misurazione del livello di stress (sindrome di burnout) accumulato durante tutta la giornata.
I dati raccolti a fine test dimostrano che la relazione tra l’impiego quotidiano di robot e l’aumento del senso di precarietà e di insicurezza lavorativa quotidiana è significativa.
«Troviamo anche importante l’associazione tra vissuto di precarietà quotidiana e burnout, così come tra quest’ultimo e l’atteggiamento volto a maltrattare o a indebolire i propri colleghi – visti come rivali – da parte di coloro che hanno preso parte al test».
Robot nei luoghi di lavoro: l’autoaffermazione come intervento per ridurre l’insicurezza
«I robot nei luoghi di lavoro possono suscitare sentimenti di precarietà e di insicurezza, a loro volta causa di atteggiamenti e di comportamenti negativi. Tuttavia, tali sentimenti e conseguenze possono essere mitigati dall’autoaffermazione, rendendo il sé più resiliente alle potenziali minacce» sottolinea il team di studio.
La teoria psicologia della valutazione cognitiva dello stress – alla quale si è accennato – sostiene che «gli eventi sono stressanti quando le persone valutano di non avere la capacità di affrontarli». La teoria dell’autoaffermazione, invece, sostiene che i lavoratori possono fare fronte agli eventi stressanti affermando la propria autostima e la propria capacità di affrontare i cambiamenti sul lavoro».
Una tecnica comune di autoaffermazione – ricordano gli autori – è data dai i cosiddetti “saggi di valore”, in cui le persone riflettono sulle proprie caratteristiche e sui valori più importanti, inclusi amici, famiglia, abilità sociali e relazionali, fede religiosa e altro ancora.
Gli psicologi sostengono che gli esercizi di autoaffermazione riducano i livelli di cortisolo, ossia (il marker dello stress biologico) dopo un evento stressante.
L’autoaffermazione, dunque, costituisce uno strumento in grado di aiutare a costruire un “sistema del sé flessibile” che, in caso di esposizione prolungata ai robot, porti a valutazioni cognitive dello stress meno minacciose e, dunque, a un indebolimento della relazione tra macchina, precarietà del lavoro e sindrome di burnout.
Le direzioni future della ricerca
Lo studio sugli impatti psicologi dei robot nei luoghi di lavoro, pur con i suoi limiti e la sua non esaustività, lancia un monito ai vertici aziendali che decidono di introdurre una forza lavoro robotica all’interno delle aziende, ovvero l’essere consapevoli dei suoi effetti negativi – nel tempo – su alcuni aspetti psicologici dei dipendenti che vi dovranno interagire.
Tra i limiti del lavoro illustrato – rimarcano gli stessi autori – il fatto di essersi concentrato principalmente su un unico costrutto: la precarietà del lavoro, con due conseguenze a valle, vale a dire burnout e “inciviltà”, intesa – quest’ultima – come atteggiamento teso a maltrattare o a indebolire i propri colleghi, considerati rivali con cui competere per posizioni limitate.
La ricerca futura dovrà poter esplorare altri meccanismi, tra cui – ad esempio – la collaborazione con i robot al fine di aiutare i dipendenti a migliorare lo sviluppo delle proprie competenze e il livello di soddisfazione, riducendo così il loro burnout.
Nessuno pone in dubbio il fatto che i robot, all’interno di un’industria, possano effettivamente elevare la produttività dell’azienda e l’efficienza delle prestazioni lavorative dei dipendenti. Ciò su cui il team di studio ha posto l’accento è che questa maggiore efficienza potrebbe essere compensata da una maggiore precarietà del lavoro e un maggiore stress da parte dei dipendenti.
«Nessuno sa con certezza come i robot daranno forma alla nostra società futura e questa stessa incertezza può essere snervante. La tecnologia può avere cambiato radicalmente la natura del lavoro, ma le persone sembrano fondamentalmente immutate: temiamo ancora che un posto di lavoro con robot sia un posto di lavoro senza di noi» concludono i ricercatori.