Intervista a Francesco Brunori, futurista e Marketing & Sales Director di -skopìa

I Futures Studies sono una metodologia, una scienza “vecchia” di 70 anni, nata in ambito militare, anche se ormai sono in molti ad attribuire una natura di “paternità” degli studi di futuro a Herbert George Wells, scrittore britannico tra i più popolari tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, che nel 1902 pubblicò “The Discovery of the Future”, una sorta di primo manifesto di futurologia che ambiva a dare una definizione metodica e analitica degli studi di futuro, un campo di studi tanto incerto quanto affascinante: il futuro.

Con la nostra rubrica Futures4Business da tempo contribuiamo a diffondere la conoscenza e la cultura dell’anticipazione, che trova le sue fondamenta scientifiche proprio nei Futures Studies, attraverso la voce di futuristi professionisti (che nulla hanno a che fare con il manifesto futurista ed il movimento letterario fondato nel 1909 a Parigi da Filippo Tommaso Marinetti), come quella di Francesco Brunori, futurista e Marketing & Sales Director di -skopìa.

«Il lavoro che faccio è il più bello del mondo. Mi costringe a mantenermi aggiornato, a dover acquisire sempre nuove informazioni e stare al passo con le notizie… ed ha a che fare con qualcosa cui l’uomo ha sempre studiato e cercato di comprendere: il futuro. Gli esseri umani sono sempre stati incuriositi dal futuro, hanno sempre voluto cercare di capire la direzione verso la quale poter andare. Immaginare il futuro, creare il futuro o costruire il futuro è, forse, il lavoro più antico del mondo. Per me… il più bello!».

Come nascono i Futures Studies e a cosa servono

I Futures Studies rappresentano una meta-disciplina, un campo di ricerca scientifica che permette una metodica e sistemica esplorazione dei futuri possibili, probabili e preferibili per gestire le incertezze e anticipare i cambiamenti (che non significa affatto predire il futuro!).

Nella loro accezione di strategic foresight (sono in molti ad associare gli studi di futuro al foresight ma, va ricordato, quest’ultimo rappresenta solo uno dei livelli che compongono i Futures Studies), spesso si associa la loro “nascita e diffusione” al campo militare.

«Verso la metà del ‘900 i militari americani si erano accorti che gli strumenti, le dinamiche, le metodologie che utilizzavano non erano più “al passo con i tempi” e non riuscivano a capire effettivamente quale poteva essere il terreno di scontro o gli armamenti messi da parte dai nemici. Avevano dunque bisogno di nuovi strumenti per poter capire l’evoluzione – anche eventuale – dei possibili scontri», spiega Brunori.

Ripercorriamo la storia. Nel 1944, il Generale Arnold ordinò la stesura di un rapporto per la United States Air Force sulle capacità tecnologiche future che avrebbero potuto essere utilizzate dall’esercito. Due anni dopo, la Douglas Aircraft Company ideò il progetto RAND per studiare il conflitto intercontinentale in modo diverso da quello apparente (applicando modelli matematici basati per lo più sulla teoria dei giochi per l’elaborazione di proiezioni future). Quel progetto divenne poi un vero e proprio “istituto di ricerca non profit”, ancora oggi considerato tra i più importanti “think tank” negli USA. Fu infatti nel 1946 che la United States Army Air Forces costituì la RAND Corportaion (partendo proprio dal progetto della Douglas Aircraft Company) per sviluppare analisi e ricerche per le forze armate statunitensi, utili a definire con più efficacia le strategie militari (ampliando poi i propri campi di ricerca ed azioni anche ad altri settori, come l’industria sanitaria, il settore aerospaziale, l’education, ecc.).

«È in questo momento storico che nascono i cosiddetti “scenari strategici” ed il “metodo Delphi” [sviluppato proprio dalla RAND Corporation a partire dall’inizio della Guerra Fredda per pre-vedere l’impatto della tecnologia nel warfare] che, a partire dagli anni ’50, iniziarono a diffondersi anche nella aziende, sia pubbliche sia private», ricorda Brunori.

Una delle prime aziende private ad utilizzare i metodi che diedero poi vita ai più moderni Futures Studies fu la Shell che ricorse al metodo della “costruzione di scenari strategici” allo scopo di comprendere meglio (e pre-vedere, non nel senso di predire ma riuscire a vedere in anticipo) il suo futuro nel mercato dell’Oil&Gas. La Shell, così come moltissime altre multinazionali, utilizzava già le metodologie di forecasting ma fu la prima azienda ad accorgersi dei limiti di quei tipi di rilevazioni e proiezioni: avevano – ed hanno tutt’ora – un orizzonte temporale limitato (non riescono ad andare oltre i 5-6 anni). L’azienda decise allora di dare vita ad un programma, il “Long-Terming Studies” che iniziò a sperimentare nuovi metodi per guardare al futuro con un orizzonte temporale di lungo termine, concentrandosi in particolare sulla ricerca di futuri possibili e la costruzione di scenari alternativi. La “potenza” della metodologia si rivelò al mondo con la crisi energetica del 1973 (con la carenza di petrolio quale conseguenza diretta della Guerra del Kippur e l’arrivo della prima Austerity internazionale): la Shell era riuscita a preparare in anticipo strategie alternative che le consentirono non solo di sopravvivere alla crisi ma addirittura di crescere rispetto ai competitor.

Con il metodo della costruzione di scenari, la Shell cambiò il suo approccio alla previsione strategica abbandonando i metodi che si basavano sui gradi di probabilità (come il forecasting) per abbracciare quelli più focalizzati sul concetto di plausibilità (esplorazione di tutti gli scenari plausibili con un approccio orientato al “cosa accadrebbe se…”).

«Quando facciamo un esercizio di futuro, non sappiamo cosa accadrà. I futuristi non fanno predizioni, sono per lo più dei facilitatori – o almeno io mi vedo così – che guidano le persone attraverso i metodi e le fasi di un esercizio di futuro, come lo è, per esempio, la costruzione di scenari strategici», ci tiene a ribadire Brunori. «L’elemento distintivo del caso Shell sta nel fatto che l’azienda non definì una strategia sulla base della probabilità di successo di una previsione, ma abbozzò diverse opzioni – diverse “bozze” di strategie, non la strategia migliore – per poter essere “pronta” nel momento in cui si sarebbe potuto verificare uno degli scenari plausibili presi in esame». 

«Ci sono tantissimi altri esempi che dimostrano la validità dei metodi dei Futures Studies – prosegue Brunori -. L’evacuazione delle persone da Manhattan via acqua, post attacco dell’11 settembre 2001, fu agevolato dal fatto che diversi anni prima, in un esercizio di futuro, la Guardia Costiera americana tenne conto di un particolare approccio interpretativo nei confronti del terrorismo internazionale (basato proprio sull’idea di futuri alternativi possibili e plausibili)». 

«Sempre in ambito pubblico, l’esercizio Mont Fleur Scenarios intrapreso in Sudafrica nel 1991-92 è stato innovativo e importante perché, nel bel mezzo di un profondo conflitto, ha riunito persone di tutte le organizzazioni per pensare in modo creativo al futuro del loro Paese, consentendo l’inizio dei negoziati per la fine dell’apartheid».

Club di Roma, l’occasione persa dell’Italia

In Italia, nel 1968, l’imprenditore Aurelio Peccei e lo scienziato scozzese Alexander King riunirono a Roma – presso la sede dell’Accademia dei Lincei alla Villa Farnesina – un gruppo di leader politici, intellettuali, scienziati e premi Nobel da tutto il mondo (da cui deriva poi il nome stesso dell’associazione non governativa e non-profit che nacque in quell’occasione, il Club di Roma). Ma l’Italia non seppe “approfittare” di quell’occasione per posizionarsi tra i pionieri dei Futures Studies, rimanendo invece tra gli epigoni successivi.

Con sede in Svizzera, il Club di Roma è una associazione di scienziati, economisti, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato di tutti e cinque i continenti. La sua missione di “osservatorio” dei megatrend per individuare e comprendere i problemi che l’umanità si troverà ad affrontare (analizzandoli in un contesto globale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili) ha nel 1972 la sua pietra miliare. Fu l’anno in cui il Club di Roma ebbe su di sé gli occhi del mondo per via dell’ormai notissimo “Rapporto sui limiti dello sviluppo” (più noto a livello internazionale come Rapporto Meadows) dal quale emersero alcune considerazioni che oggi – con il senno di poi – diremmo “anticipatorie”: nel 1972 fu ipotizzato (o meglio, fu anticipato) che la crescita economica non potesse continuare all’infinito per via di una serie di “variabili”, dalla limitata disponibilità di risorse naturali (specialmente il petrolio), alla limitata capacità di assorbimento degli inquinanti da parte del pianeta (non si parlò espressamente di crisi climatica e sostenibilità ma, leggendolo oggi, i riferimenti sono chiarissimi).

«L’Italia riuscì a ritagliarsi uno spazio nella storia della disciplina dei Futures Studies grazie al contributo di Eleonora Barbieri Masini (sociologa riconosciuta tra le fondatrici della moderna futurologia, full member del Club di Roma e, tra il 1980 ed il 1990 Presidente della World Futures Studies Federation). Anche se il suo lavoro fu particolarmente orientato e declinato solo sulla previsione sociale, il suo impegno per strutturare la disciplina, per delinearne il quadro teorico e metodologico, è stato fondamentale», ricorda Brunori.

Padroneggiare la scienza dei Futures Studies

«Oggi i Futures Studies sono una scienza – rimarca Brunori – hanno basi scientifico-metodologiche ed uno scopo ben preciso, aiutare le persone e le organizzazioni (azienda pubbliche e private, associazioni, enti, policy maker e istituzioni) a mitigare gli impatti di un cambiamento o, ancora meglio, coglierne le opportunità. Partendo dalla consapevolezza che non sono i cambiamenti il problema ma la velocità con la quale ormai avvengono. I cambiamenti ci sono sempre stati; la velocità con la quale avanzano e il numero stesso di cambiamenti che si stanno verificando negli ultimi anni ci costringono ad avere un nuovo approccio, una nuova forma mentis, non solo per “reagire” ma per meglio prepararci (in ottica di anticipazione) rispetto a qualcosa che non conosciamo e nei confronti del quale le strategie del passato, anche se vincenti, non funzionano più».

Guardare al passato rimane un esercizio molto utile, ma solo per acquisire una parte di conoscenza. Non è nel passato che si trovano le soluzioni a problemi nuovi (che a volte nemmeno riusciamo ad intuire, se non grazie alla pratica dei Futures Studies), per i quali non esiste storicità.

«Dobbiamo sperimentare. Dobbiamo cioè immaginare qualcosa di totalmente nuovo per trovare il coraggio di sperimentare nuove strategie, nuovi piani, nuovi modi di comportarci…», enfatizza Brunori. «Ma l’approccio sperimentale va guidato, altrimenti si corre il rischio di disperdere energie e non arrivare ad alcun risultato. I metodi e gli esercizi di futuro sono molteplici e ciascuno ha la sua specificità».

“Lavorare con i futuri” implica, dunque, una profonda conoscenza della scienza dei Futures Studies, intesa come padronanza della teoria e dimestichezza/esperienza dei metodi.

«Esistono diversi metodi “tipici” dei futuristi – spiega Brunori – ma possono essere integrati con metodologie provenienti da altre discipline (come l’ambito del Design Thinking, per esempio). A patto che ci sia una consolidata conoscenza delle teorie e dei metodi, altrimenti si rischia l’accozzaglia di strumenti senza padroneggiarne davvero il potenziale».

Il timido avvicinamento delle aziende e delle istituzioni pubbliche

Sono molte le aziende e le organizzazioni pubbliche che, seppur con vari livelli di maturità e approcci, iniziano ad avvicinarsi ai Futures Studies, ma la strada che dovrebbe portare alla previsione strategica come vera e propria unità centrale per la definizione delle politiche pubbliche (così come vuole la Commissione Europea) – nelle istituzioni – oppure delle strategie aziendali (affinché le iniziative a breve termine siano fondate su una prospettiva a lungo termine) è ancora tutta in salita.

«Capita spesso di sentire le aziende obiettare quando si parla di strategia di lungo termine – invita a riflettere Brunori -. Molte redigono piani industriali a 3-5 anni, qualche volta avvicinandosi al foresight (anche se spesso è un forecasting leggermente evoluto), ma il pensiero e l’approccio anticipatorio non hanno nulla a che vedere con quel tipo di pianificazione aziendale (innegabilmente importante), e non solo per il fatto che gli esercizi di futuro sono impostati su un arco temporale che, solitamente, supera i 10 anni, ma anche – e soprattutto, è bene ribadirlo – per la metodologia. Gli esercizi di futuro consentono di mettere a frutto l’intelligenza collettiva non limitata ai board aziendali o a coloro che, solitamente, si occupano della pianificazione strategia in azienda. Anzi, sarebbe un grave errore svolgere un esercizio di futuro coinvolgendo solo le figure apicali di un’azienda».

«Non solo, un esercizio di futuro non contempla il demandare alle tecnologie la capacità previsionale; innanzitutto, perché come già ampiamente ribadito gli esercizi non si fanno per predire il futuro, in secondo luogo perché servono capacità immaginative e creative (nella fase divergente di un esercizio) che tengano conto della vista di tutte le persone coinvolte e di elementi che, solitamente, le tecnologie non riescono ad analizzare. Ne sono un esempio i cosiddetti segnali deboli, fenomeni “sommersi”, ancora troppo poco sviluppati dei quali non si conoscono i possibili impatti che potrebbero avere (e nemmeno le possibili evoluzioni), per la cui “lettura ed interpretazione” serve la sensibilità delle persone».

Non a caso, il Copenhagen Institute for Futures Studies che, tra le altre cose, raccoglie e analizza segnali, si avvale del supporto di futuristi freelance da tutto il mondo ma ingaggiandoli per periodi brevi, non oltre i 4 mesi consecutivi, per evitare il rischio che possano cadere vittime dei propri pregiudizi non riuscendo a riconoscere e valutare segnali di cambiamento.

«L’uso delle tecnologie (anche dell’intelligenza artificiale generativa, per esempio) può essere molto utile per la cosiddetta fase di documentazione, quella necessaria a raccogliere informazioni e maturare conoscenza utile per poi svolgere l’esercizio di futuro», ci tiene però a sottolineare Brunori. «Vedo le tecnologie come strumento di supporto, per esempio per quello che chiamiamo “environmental scanning”, la scansione di quello che potrebbero essere i fenomeni emergenti, oppure per l’analisi dei testi scientifici accademici, che possono essere sempre il primo punto per cominciare ad analizzare o cominciare a capire se c’è qualche fenomeno che sta emergendo. E, dato che un esercizio di futuro deve sempre concludersi con una fase convergente, di azione (cioè con la definizione di una strategia attuativa), le tecnologie tornano utili per il monitoraggio, per esempio per aiutare le persone a capire se ci si sta avvicinando ad uno dei futuri / degli scenari immaginati in modo da attuare per tempo le strategie ipotizzate».

Il cuore centrale dell’esercizio di futuro, però, richiede l’intelligenza collettiva e le capacità creative e immaginative degli esseri umani.

Qualche esempio…

Non possiamo chiudere la nostra lunga chiacchierata con Brunori senza chiedergli di condividere qualche esempio pratico di applicazione dei Futures Studies.

«Il primo esempio che condivido riguarda la Strategia provinciale per lo Sviluppo Sostenibile (SproSS) della Provincia Autonoma di Trento, frutto di un lungo esercizio di futuro fatto con il metodo dei Tre Orizzonti, esperienza che oggi viene portata anche come best practice da ASviS, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile per dimostrare come i metodi degli studi di futuro possono effettivamente aiutare la pianificazione della pubblica amministrazione», condivide e conclude Brunori. «In ambito privato, invece, riporto l’esperienza di una azienda che ha utilizzato alcuni esercizi di futuro per capire come compensare una potenziale perdita del 50% del proprio business (potenziale, non già assodata) immaginando differenti scenari con bisogni, domande di mercato, impatti delle generazioni, canali di proposta, ecc. differenti. Grazie all’esercizio l’azienda è riuscita a capire come muoversi nel breve periodo e come “attrezzarsi” nel medio periodo per prepararsi, in tempo, ai possibili cambiamenti. Ed è proprio questo lo scopo finale di un esercizio di futuro».

Scritto da:

Nicoletta Boldrini

Futures & Foresight Director | Direttrice Responsabile Tech4Future Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin