Abbiamo di fronte un problema che presenta, però, anche delle caratteristiche di opportunità. È la necessità di decolonizzare i futuri, che oggi vengono percepiti e immaginati sempre più spesso come figli dell’immaginario attuale: proiezioni dell’oggi, soprattutto tecnologico, verso un domani in cui sostanzialmente non cambia niente. Proiezioni del presente che hanno una dimensione consolatoria, soprattutto per chi le immagina. Questi futuri colonizzati dal presente, invece, devono essere decolonizzati.

Sylvain Cottong di formazione è un economista ma è diventato molto rapidamente un futurista. Come consulente strategico, con la sua Exploring Futures, si occupa di previsioni strategiche e System Thinking, di Futures Literacy e di Futures Thinking. Opera dal Lussemburgo, ma si muove in tutta l’Europa continentale, a breve anche in America Latina. Durante l’intervista, con un collegamento video tra Milano e il Granducato di Lussemburgo, parla di molte cose. Qui cominciamo con un tema, in particolare: la fantascienza.

La fantascienza nel Futures Thinking

«Nel Futures Thinking la fantascienza ha sempre avuto un ruolo importante, perché gli autori più bravi di questo settore hanno costruito mondi che lavorano in modi completamente diversi dai nostri. La fantascienza ha anche cambiato velocità rapidamente: dai tempi di Jules Verne, che scriveva del suo viaggio sulla Luna più di cento anni prima che questo avvenisse realmente, le proiezioni hanno accelerato e sono diventate molto più vicine. La fantascienza che va su Netflix racconta futuri colonizzati, soprattutto da tecnologie contemporanee, che evolvono senza però provocare un vero cambiamento sistemico. Abbiamo telefonini più potenti e magari trasparenti, ma non cambia altro: sono sempre telefonini».

«Tuttavia – prosegue Sylvain Cottong – il ruolo della fantascienza è rilevante su più piani. Da un lato perché la narrativa e lo storytelling sono molto importanti per i Futures Studies: quando si costruiscono gli scenari bisogna mettere assieme una narrazione con una storia ben fatta perché le persone devono vedersi e sentirsi in quello scenario. Bisogna saper raccontare. Il Futures Thinking come processo è legato allo storytelling e alla narrazione: gli autori di fantascienza sono molto bravi a fare questo».

I tempi delle previsioni che accelerano, il ruolo della fantascienza, ma anche il costante cambiamento degli scenari, che devono essere decolonizzati. Quello che emerge fin dalle prime battute della conversazione con Sylvain Cottong sono una serie di suggestioni che scorrono parallele e si intrecciano. Proviamo a rimetterle in un ordine lineare, pur tenendo come nota mentale che molti dei discorsi si intersecano e si legano tra loro in momenti diversi. La ragione, come vedremo, è legata a una particolarità dell’approccio di Cottong, cioè il pensare la complessità, che il futurista chiama System Thinking, e che si riflette anche in questa intervista, nel suo piccolo.

«Per me è difficile definirmi in modo stabile: cambio idea tutti i giorni, perché se ti definisci in un certo modo poi devi restare coerente e fare quella determinata cosa tutti i giorni. Sono un economista, certamente, ma come molti economisti che hanno scoperto il forecasting, e soprattutto che hanno scoperto che funziona, anche io ho visto che le tendenze dell’economia e della società in generale potevano essere affrontate anche da altri punti di vista non economici, come ad esempio gli aspetti sociologici».

Il match naturale tra Design Thinking e Futures Studies

Negli ultimi anni le università europee hanno cominciato a costruire dei programmi di Foresight, nota Sylvain Cottong, che permettono con una laurea di tre o quattro anni di entrare dentro questo ambito di studi. Ma c’è anche chi proviene da un altro modello di pensiero: quello del Design Thinking, ad esempio. Un modello nel quale sempre più praticanti ed esperti avvertono una mancanza prospettica: per questo l’incontro tra Design Thinking e Futures Studies è, secondo Cottong, un match naturale.

«Sono un economista, un consulente strategico, un pensatore sistemico e un praticante del Foresight: aiuto aziende, organizzazioni, comunità e individui e costruire la loro capacità di essere resilienti, ovviamente una capacità proiettata nel futuro. Come consulente faccio spesso workshop sul Futures Thinking per facilitare l’espressione dei bisogni e poi riporto questo lavoro su progetti di azione. In questo modo si spostano consulenza e facilitazione. Uno degli obiettivi che mi sono dato come consulente è lavorare in maniera tale che i miei clienti, in futuro, non abbiano più bisogno di me. Questo perché devono poter mettere in piedi e avviare un processo interno che consenta loro di gestire il futuro. Ma ci sono anche clienti che vogliono semplicemente un incontro isolato, perché vogliono fare solo determinate cose e non vogliono – o non sono pronti – per creare qualcosa di più complesso e trasformativo».

Sylvain Cottong
Sylvain Cottong, economista, futurista, founder di Exploring Futures

Certo è che la definizione che Cottong disegna dei Futures Studies è ampia e coglie aspetti diversi, sistemici, delle organizzazioni, degli individui e delle società. Il terreno comprende anche la filosofia, perché bisogna definire cos’è il tempo, cioè cosa è “adesso” e cosa è “futuro“. Ma è anche un terreno multidisciplinare, che tocca differenti aspetti della realtà, non solo quello centrale che l’azienda o la persona pensa di avere davanti a sé. È qui che compare per la prima volta il livello “sistemico”, che è quello della complessità e che, pensa Sylvain Cottong, riguarda quel che fanno i futuristi.

«Uno dei termini che oggi è molto usato è quello di “Futures Literacy“. Ma in inglese, come in altre lingue [compreso l’italiano, NdR] essere alfabetizzati ha due significati diversi. Indica le competenze di base da scuola elementare, ma indica anche avere competenze sofisticate, ad esempio di musica o di storia dell’arte, o di tecnologia. È questo secondo il significato che va in direzione della “Futures Literacy”, ed è un significato importante perché è stato introdotto nel 2012 dall’Unesco, che ha istituito il suo dipartimento e laboratorio di Futures Literacy. Ci sono molti futuri possibili da cui possiamo imparare e prendere delle novità da portare nel presente. Possiamo “viverli” e usare i ricordi di questi futuri per il nostro presente».

Andare “più in là” nel tempo

«Il lavoro del futurista non è predire il futuro, bensì quello di avere la capacità di capire come gestire il futuro, la complessità e l’incertezza, portando più resilienza nel presente grazie a quello che ha imparato e ha fatto imparare dai possibili futuri. Possiamo usare questo processo anche per trasformare il futuro, cioè per imparare come potrebbe essere e capire come muoversi per andare verso una determinata visione: anticipare delle cure, anticipare delle crisi, vedere delle opportunità di lavoro o di business».

I futuri hanno un problema a cui non si pensa spesso ma che è cruciale: capirne i confini. Quando iniziano? Cioè, quanto lontano bisogna guardare perché si possa guardare nel futuro? Quanto futuro si usa, quando si studiano i futuri? Non è una domanda peregrina, perché tocca e si interseca in realtà con gli altri temi della complessità e del System Thinking.

«Quanto futuro uso? Dipende dal tipo di consulenza che sto facendo, cioè dall’obiettivo del lavoro. C’è sempre una domanda da cui si parte, e poi un contesto, e poi un settore dove si muove l’entità con cui sto lavorando. Valgono alcune indicazioni generali, però. Ad esempio, il tempo minimo sono dieci anni, perché se non ci si sposta avanti di un decennio non si fa più futurismo ma ci si occupa semplicemente di strategia della pianificazione. Mentalmente è impossibile uscire dal proprio pensare per un futuro a così corto raggio: il futuro in questi casi è già pensato, è già previsto. Poi, dipende dall’organizzazione con cui si lavora e da cosa si vuol fare. Venti anni sono la base per cominciare a pensare come sarà il mondo e come fare a prepararsi. Perché in venti anni ci sono cambiamenti che avvengono in maniera più netta. Dipende anche dal tipo di settore nel quale ci si muove: ci sono settori industriali in cui si pianifica a venti, altri a quaranta anni. Dipende dal contesto: se le cose in un certo ambito si muovono più rapidamente, può avere senso avvicinare lo sguardo, se invece occorre esplorare più in profondità si può andare anche più in là».

Questo, tuttavia, osserva Sylvain Cottong, è un modo “ottico” di vedere il futuro: una specie di cannocchiale che serve a mettere a fuoco “oggetti” a distanze più o meno ravvicinate. In realtà, lo scopo è un altro. Esistono tecniche per andare più in là. Più in là della nebbia del tempo. Più in là della curvatura dell’orizzonte.

«Ci sono dei processi per dei workshop che sono stati disegnati in modo particolare: possiamo chiedere alle persone che partecipano di disegnare un mondo tra 300 anni, che è figlio di un reset completo del mondo attuale. Quindi, un tempo sufficientemente lungo (trecento anni) per costruire uno scenario che è scollegato dal tempo presente (il reset). In questo modo le persone si liberano dalle ancore del presente. Se si pensa invece a scenari di 50 anni molte persone rimangono legate a quel che c’è adesso. In questo caso si prende qualcosa di passato, qualcosa di presente e qualcosa di futuro. Non si è completamente liberi se non si distrugge completamente quel che conosciamo. È uno sforzo fondamentale perché si gioca tutto attorno al framing: cosa pensiamo del futuro dipende dalle assunzioni che facciamo sul futuro, quel che le persone ritengono che siano dei fatti ma che in realtà non lo sono. Sono metafore, sistemi di valori, credenze. Tutte queste cose assieme creano le nostre idee di futuro e parte dei nostri studi invece è capire perché le cose sono come sono e immaginare come potrebbero essere differenti. Cosa potrebbe essere differente richiede di cambiare la direzione dove si va».

Disegnare scenari decolonizzati

A elaborare questo tipo di scenari sono molto bravi alcuni autori di fantascienza, per ritrovare il filo all’inizio di questo incontro con Sylvain Cottong. È il secondo piano al quale il futurista faceva riferimento: oltre a saper narrare bene le loro storie, molti autori di fantascienza sono bravi anche a disegnare degli scenari decolonizzati. A differenza di quel che succede, invece, quando si osserva cosa succede in altri mondi e modi. Con gli imprenditori-visionari nel mondo della tecnologia.

Un doppio esempio, legato all’attualità degli ultimi anni, entra in maniera prepotente della conversazione. Elon Musk e Mark Zuckerberg. Il primo ha immaginato più futuri che si intrecciano e producono senso dal punto di vista economico: dal “piccolo” (i prezzi decrescenti di una tecnologia consolidata per la costruzione di batterie elettriche per le auto che servono per abilitare una impresa industriale come Tesla) al “grande” (la devastazione del pianeta che richiede una migrazione su Marte e quindi una serie di tecnologie da mettere in piedi, dai razzi sino ai robot e agli impianti neuronali e alle AI, per poter rendere possibile il trasferimento su Marte e la sua colonizzazione).

Il secondo, invece, ha immaginato l’uso della rete come strumento di relazioni sociali e poi, quindici anni fa, ha ragionato in termini di vettori di sviluppo delle piattaforme, trasformando il primo Facebook da sito web desktop in una delle primissime app per smartphone quando nessuno riteneva che l’esperienza dei nascenti social potesse avere senso su uno smartphone. Adesso, Zuckerberg sta proiettando la sua azienda e il suo prodotto, il social media, verso una piattaforma completamente diversa, il metaverso, scommettendo su uno sviluppo in tempi più lunghi (almeno 10 anni).

«Musk e Zuckerberg sono certamente dei “tech futurist” ma non dei futuristi globali. E vivono limitati all’interno del loro bias, dei loro pregiudizi. Perché i “global futurist” considerano anche i cambiamenti di valori nella società del futuro. Considerano il cambiamento totale, di qualsiasi cosa. La fine del capitalismo, la fine della differenza tra i sessi, la fine dei rapporti tipici di una società patriarcale. Invece, Zuckerberg non considera questi cambiamenti. I suoi sono “futuri già usati” o per meglio dire “futuri colonizzati”, dove le loro idee in questo caso tecnologiche fanno tutto. Zuckerberg e Musk colonizzano il futuro e non lasciano spazio al cambiamento. Le persone non hanno spazio per cambiare idea. Le società non ce l’hanno per evolvere o trasformarsi. Il metaverso in cui Zuckerberg sta investendo assieme a migliaia di aziende, pagherà? Probabilmente sì, ma il ragionamento è fallato perché le persone e le società cambiano: cambiano le loro idee e i loro valori», invita a riflettere Sylvain Cottong.

«Per questo i futuristi globali guardano i piccoli cambiamenti anziché le grandi tendenze. I trend son un fenomeno del passato, perché sono basati sui dati, quindi qualcosa che è già successo. E a un certo punto si fermano, non sono più trend, perché interagiscono tra loro in modo complesso e non sai e non puoi prevedere quando e come cambieranno. La cosa che sai è che dentro una società i trend non vanno avanti per sempre. Quindi non direi che Zuckerberg o Musk sono realmente dei futuristi: dal punto di vista accademico sono qualcosa d’altro. Costruiscono tecnologia e capitalismo automatizzato, ad esempio con l’intelligenza artificiale. Sono cose che alimentano il capitalismo e lo rendono certamente più efficiente. Ma siamo sicuri che la forma corrente di capitalismo sarà il tipo di futuro che avremo tra dieci o cento anni?».

«Attenzione, non sono anticapitalista, sono un osservatore. I punti di vista cambiano e forse su Marte ci sarà davvero una economia di questo tipo, oppure no: non è scontato come sarà, se mai abiteremo il pianeta rosso. Molte tecnologie di oggi per funzionare assumono che il nostro sistema andrà avanti per i prossimi cento anni ma non è così. Non lo sappiamo, in realtà, perché nessuno conosce il futuro. Questa è l’essenza del Futures Thinking: ti permette di individuare le cose e pensarci, interrogarti. Fare assunzioni diverse porta a pensare cose differenti. Nel futuro non ci saranno gli stessi dilemmi morali che ci sono oggi. È tutto molto, molto più complicato che non pensare a come evolverà una tecnologia nei prossimi decenni. È la complessità che richiede un modo di pensare adeguato».

I Futures Studies sono uno sport di squadra

I Future Studies sono anche uno sport. Non uno sport per atleti singoli, però. Sono uno sport di squadra. Che, come tale, deve essere aperta e partecipata. Più punti di vista ci sono nella stanza e migliori saranno i risultati prodotti dal lavoro dei futuristi. Ovviamente, questo si può spiegare anche matematicamente: tutti fanno delle assunzioni sul futuro, e creano quindi un percorso verso il futuro. Insieme, mentre serve ad avere una visione più oggettiva, questo esercizio richiede che partecipino molte persone che hanno assunzioni e prospettive del futuro le più diverse possibili: bisogna integrare più persone con futuri diversi per non rimanere prigionieri di una “echo chamber”, una “camera dell’eco”, cioè uno di quei contesti in cui si crea uno stato di isolamento degli individui dal resto del mondo. Le stesse idee si riflettono e vengono fatte crescere fino a sovra rappresentare una parte della realtà.

Se si sta in una stanza dell’eco con delle persone che parlano solo di futuro della tecnologia, il futuro si trasforma in una forma di evoluzione solo tecnologica. Invece, è necessario mettere assieme una diversità di persone che provengono da mondi diversi e portino con sé delle visioni differenti. Dunque, la regola è l’eterogeneità mentre il metodo è quello della facilitazione. Bisogna incontrare (e interagire con) molti altri attori e ruoli presenti nella società per riuscire a dipingere i futuri possibili. Per questo lo sport del futurista è uno sport di gruppo che deve essere il più possibile aperto e partecipato: altrimenti, come non si stanca di ripetere Sylvain Cottong, è solo una stanza dell’eco, in cui si riflette lo stesso punto di vista che non porta a una reale evoluzione.

Il Futures Thinking come modello di apprendimento e lifelong learning

Ma il Futures Thinking è anche una forma di apprendimento, un tipo di formazione. Siamo passati da una società in cui c’era zero formazione dopo la scuola a una in cui ogni giorno si imparano cose nuove. È il “Lifelong Learning“, che in Europa è stato congelato nel 2000 dal libro bianco di Jacques Delors e dal trattato di Lisbona.

«Il mondo si muove sempre più velocemente e vediamo cambiamenti nel progredire della società più spesso che in passato. Per questo oggi c’è più interesse nei futuristi che non dieci o venti anni fa. Tuttavia, devono cambiare molte cose. Deve cambiare il modo in cui si apprende per far sì che le persone in azienda – e l’azienda stessa – diventino delle “Learning Organization”. Questo processo può essere alimentato in tanti modi: uno è il micro-learning, le occasioni molto numerose e che richiedono pochissimo tempo per potenziare la conoscenza. Tuttavia, il modo di imparare dai futuri possibili e plausibili, e non solo da quelli colonizzati e già attesi, è basato sulla capacità di aumentare lo spazio di apprendimento. Di solito, si impara dal passato e dal presente, quindi da esperienze già codificate. Invece, bisogna creare scenari e imparare da questi scenari: questo vuol dire espandere il proprio spazio di apprendimento personale e aziendale. Questo ruolo dei futuri come momento di apprendimento è fondamentale per generare valore, perché aumenta il capitale intellettuale di una azienda, che è quello che a sua volta dà valore alle sue azioni sul mercato. Quindi, quando le organizzazioni sono in grado di imparare in modo efficiente espandendo il proprio spazio di apprendimento fino a incorporare i futuri possibili, questo vuol dire che quelle organizzazioni stanno aumentando il loro capitale intellettuale e che questo a sua volta sta aumentando il valore dell’organizzazione stessa. Per arrivare a questo risultato bisogna lavorare sulle modalità di apprendimento in azienda: il Futures Thinking è una delle modalità che deve essere incorporata».

Tutto questo per un motivo di base incontrovertibile: il futuro è incerto e imprevedibile. In alcuni momenti, però, più che in altri. I Futures Studies sono sempre stati concentrati sui futuri possibili per il semplice fatto che, non essendo possibile definire quale sarà il futuro, non è possibile polarizzare il ragionamento e quindi non si possono fare delle previsioni ma solo degli scenari.

«Oggi quel che vediamo nel mondo è una multipolarità che è sia geopolitica che sociologica che politica. Ma c’è comunque il senso di un avanzamento che richiede a sua volta delle nuove narrazioni per il futuro dell’umanità. Lo si può decodificare guardando i cambiamenti in corso adesso. La domanda diventa: come si fa a trovare una nuova narrazione per una umanità multipolare se non si fanno esplorazioni in differenti direzioni? Possono esserci futuri positivi o negativi, possono essercene alcuni preferibili rispetto ad altri, ma come fenomeno è ovvio che il metodo sia quello di pensare una narrativa futura dell’umanità in modo aperto».

«Abbiamo tutti delle differenti assunzioni sul futuro. Poi abbiamo anche altre risorse a disposizione. Per esempio, si può attingere a un settore molto interessante che è quello della “Indigenous Wisdom”, la saggezza dei nativi (non solo americani, NdR). Sono persone che sanno fare previsioni del futuro che vanno avanti da generazioni e generazioni, e sono molto diverse da quelle nostre di europei o nordamericani, basate sulla scienza e con un approccio tutto occidentale. Invece, c’è molto da imparare dal modo con cui vivono queste persone e dal modo con cui si rapportano alle realtà che noi guardiamo con uno sguardo oramai unico. Oggi, c’è sempre più interesse per questa saggezza. Questo perché abbiamo bisogno di conoscenza che venga anche da fonti alternative: abbiamo bisogno di punti di vista alternativi che aumentino il capitale intellettuale e che aumentino il valore di quel che facciamo».

La complessità non è per tutti

Arriviamo al nodo della complessità. Il futurista, dice Sylvain Cottong, deve avere la mente aperta ed essere curioso. Deve piacergli la complessità e deve piacergli pensare la complessità. Ma non è così scontato, perché questa è una “cosa” che non è adatta a tutti.

«È necessario avere una predisposizione in questo senso: molte persone scappano dalla complessità perché è una cosa che non piace al cervello delle persone. Ad alcuni, come me, invece, interessa e piace. Occorrono curiosità, tolleranza, accettazione della diversità e dialoghi, non dibattiti. Tutti devono poter parlare e tutti devono riuscire ad ascoltare (il dibattito invece per me è conflitto, non ascolto). E bisogna pensare la complessità, abbracciare in modo naturale il pensiero complesso. Tutto questo ci permette di essere più disciplinati nelle previsioni ma ovviamente richiede molte competenze diverse. Bisogna saperne di tecnologia, di storia delle relazioni internazionali, di storia delle dottrine politiche, di come funziona il sistema alimentare, di quali sono le leggi e di come funzionano le grandi corporation così come le piccole aziende. E mille altre cose. Non devi essere uno specialista, invece devi avere una mente curiosa. Allora, se hai quel tipo di esercizio, disciplina ma anche predisposizione e competenze e cultura accumulata negli anni, cominci a vedere che le cose si allineano e capisci come funzionano i sistemi complessi. C’è bisogno di esperienza, ripeto. Non è l’unica linea di lavoro in cui è necessario questo tipo di approccio: anche i giornalisti, ad esempio, devono avere questo tipo di preparazione generalista e trasversale. Ma poi non raccontano il futuro».

«Oggi so, come mia storia personale, che ho sempre guardato al mondo come un futurista e che l’ho guardato dal punto di vista di un sistema complesso. Quel che non sapevo, mentre studiavo economia, era che ci sono dei metodi per organizzare questo tipo di attitudine. Che è quella attitudine che ti fa chiedere: perché le cose sono come sono? Perché non sono differenti? E se lo fossero, come potrebbero essere? Questo è sempre stato il mio modo di guardare tutto quel che è stato fatto dagli esseri umani. Sono passato attraverso la teoria e lo studio dei differenti approcci. Uno dei momenti fondamentali è stato l’incontro con un grande uomo, che ho conosciuto personalmente solo pochi giorni fa: Sohail Inayatullah, l’ideatore della Causal Layered Analysis (CLA), framework metodologico per la comprensione e l’analisi di questioni e problemi sociali complessi, oggi considerato uno strumento fondamentale nella pianificazione strategica, negli studi sul futuro e nella previsione per modellare più efficacemente il futuro».

«Nello strato più alto della CLA c’è quello di cui le persone parlano, quel che gira sui giornali. Poi, subito sotto, c’è il sistema che produce i discorsi che vanno sui giornali: ambiente politico, economico, sociale. Poi, scendendo ancora, ci sono i valori e le credenze che creano il livello superiore. E poi, alla base di tutto, ci sono le metafore, i valori che nessuno consapevolmente sa di avere ma che sono quelli che creano veramente il mondo in cui viviamo. Se ci poniamo la domanda “Perché le cose sono come sono?” è necessario arrivare alle metafore per capirlo. Se vogliamo cambiare il mondo, dobbiamo andare a toccare le metafore. Se non lo facciamo e cambiamo gli strati superiori, i cambiamenti non durano: sono le metafore che creano il cambiamento. Detto in un altro modo, per cambiare occorre ridefinire le metafore. Questo era anche il mio modo di pensare, ma senza conoscere lo strumento o questa struttura. In questo ragionamento il System Thinking è il modo con il quale guardare come si integrano tutte le cose. Ma è un modo di guardare che, senza una lente come quella del CLA, permette di pensare solo in maniera tradizionale. Servono entrambe le cose, e anche altre».

Anticipazione per il futuro vs anticipazione per l’emergenza

Ad esempio, nelle conversazioni in cui si esplora il futuro emerge costantemente l’idea di anticipazione per il futuro e di anticipazione per l’emergenza. Con la prima si pensa a una azienda che fa scenari su tendenze e segnali noti per cercare di costruire uno scenario certo e sviluppare un percorso ottimale per rafforzare i propri obiettivi. È un approccio con il quale si rafforza il proprio futuro senza mettere in discussione le proprie attività, il proprio settore, il proprio posizionamento: l’obiettivo è essere più resilienti. Si creano immagini del futuro ma non si mette in discussione la metafora del futuro.

Invece, nell’anticipazione per l’emergenza si usano altri strumenti: si pensano cose nuove senza che ci sia qualcosa che protegga la posizione di partenza. È un approccio profondamente trasformativo. Qui si entra ancora una volta in sovrapposizione con altri fili tesi dal ragionamento di Sylvain Cottong: tutti anticipiamo il futuro.

Tutti cerchiamo di capire se sta arrivando un’automobile mentre attraversiamo la strada, quanto è distante e a che velocità va per capire se possiamo attraversare la strada in sicurezza oppure no. Questa è l’anticipazione del futuro. Invece, l’anticipazione per emergenza cambia il quadro di riferimento: non c’è più bisogno di attraversare la strada ma si fa qualcosa di completamente diverso. Questo permette di prepararci per un altro mondo. E questo, spiega Cottong, non permette di definire i Futures Studies in un solo snodo, perché in realtà si può usare un metodo o l’altro, visto che servono a cose diverse e funzionano in maniera differente.

«Decolonizzare il futuro vuol dire riportare anche la capacità di agire delle persone. È un concetto fondamentale, perché abbiamo dei grandi problemi e delle grandi discussioni da affrontare. I big del Tech stanno avanzando a una tale velocità, ad esempio con l’intelligenza artificiale, che nessuno sa che cosa succederà tra due anni. Il futuro Tech viene colonizzato molto velocemente. Se vogliamo mantenere il controllo su quel succederà dal punto di vista della capacità di immaginare futuri diversi, dovremo decolonizzarli e liberarli da questo tipo di influsso da parte delle aziende Tech. Ma è complesso e richiede ancora più complessità riuscire a farlo».

Scritto da:

Antonio Dini

Giornalista Leggi articoli Guarda il profilo Linkedin