Ci sono molte applicazioni nel futuro della robotica, un termine che deriva dal ceco “robota”, termine che, a sua volta, rimanda al significato di “lavoro pesante“, di “lavoro forzato“. Espressioni, queste, che, di primo acchito, la mente associa all’immagine di qualcosa di fisso, di rigido, di sempre uguale. Insomma, tutto quello che non è, nel 2021, la robotica.

Sempre più terreno multidisciplinare – in cui si incrociano in modo fluido materie eterogenee, tra cui linguistica, matematica, psicologia, elettronica, fisica, informatica, biologia, meccanica – la robotica oggi è una scienza in evoluzione, capace di declinarsi in applicazioni appartenenti a contesti diversi, al punto che è possibile parlare di varie sotto-discipline, tra le quali è difficile porre una netta linea di demarcazione. E delle Tre Leggi della Robotica, enunciate nel 1942 dallo scrittore e biochimico sovietico Isaac Asimov all’interno di un racconto apparso su una rivista scientifica, a distanza di settantanove anni, resta inciso l’indirizzo della robotica quale scienza “positiva” per l’essere umano, che non gli reca danno ma che, al contrario, è in grado di essergli di aiuto:

  1. Un robot non può recar danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno
  2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla prima legge
  3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la prima e con la seconda legge

Esiste anche una quarta legge, presentata sempre da Asimov all’interno del libro “Io Robot”: “Un robot non può recar danno all’umanità e non può permettere che, a causa di un suo mancato intervento, l’umanità riceva danno“. Sulla scia dello scrittore, vediamo qual è il futuro della robotica, come “si muove” ed evolve e in che modo è sempre più di aiuto all’uomo, nell’ambito di pratiche e di utilizzi che ne segneranno il futuro.

Education nel futuro della robotica (la robotica educativa)

Ci sono l’Education e la formazione nel futuro della robotica. Strumento didattico tramite il quale sviluppare specifiche competenze: viene definita in questo modo la robotica educativa, alla base della quale c’è la teoria dell’apprendimento formulata, negli anni ’60, dal matematico, informatico e pedagogista Seymour Papert. Secondo questa teoria – detta “teoria del costruzionismo” – “l’apprendimento è più efficiente e proficuo se avviene mediante la produzione, da parte di chi apprende, di oggetti concreti e reali”.

Siamo di fronte alla robotica intesa quale mezzo pedagogico, metodo di insegnamento il cui fine ultimo è favorire l’apprendimento di materie matematico-scientifiche ed educare a nuovi stili di ragionamento, nonché a nuovi comportamenti.

Ed ecco allora la presenza, in aula, dei “robot educativi”, ossia di macchine programmabili pensate per essere “congegni didattici” adatti a tutte le età e alle diverse fasi dello sviluppo cognitivo ad esse associate. Si va dai semplici robot-Lego, robot giocattoli, studiati per i bambini delle scuole elementari, ai robot da assemblare per la scuola media, fino alla costruzione e programmazione di modelli robotici per i ragazzi delle scuole superiori.

Nell’ultimo decennio, le aziende che operano in questo settore hanno messo a punto numerose tipologie e kit robot. Un esempio noto è Poppy, robot umanoide stampato in 3D, nato da un progetto dell’Unione Europeautile in classe per comprendere meglio come funziona il corpo umano e i processi che segnano il suo sviluppo, per poi replicarli nella realizzazione di macchine intelligenti.

Ma come funziona un laboratorio di robotica educativa? Gli studenti lavorano in gruppi a un problema da risolvere, che ha come oggetto il robot-macchina, il suo funzionamento, il suo assemblaggio, la sua costruzione o la sua programmazione.

Il tempo a disposizione è limitato e il processo di risoluzione prevede fasi diverse, ruoli diversi per ciascuno all’interno del gruppo e diversi tentativi. Il docente fornisce solo alcune indicazioni, spiegando il punto di arrivo, il traguardo da raggiungere. E quali sono le regole. Ma sono gli studenti che devono lavorare al problema, con un grado di autonomia direttamente proporzionale all’età di ognuno.

Il problem solving perno del futuro della robotica educativa

Secondo la teoria di Papert, sono essenzialmente tre le abilità che vengono apprese lavorando con le macchine didattiche (oltre a una serie di competenze trasversali):

  • l’apprendimento mediante la scoperta
  • il problem solving
  • il riconoscimento del ruolo positivo dei tentativi e degli errori

Il problem solving rappresenta, tra quelle elencate, la capacità principe, il cuore del laboratorio di robotica educativa.Quello che impegna di studenti è proprio il processo che conduce alla soluzione del problema, con tutti i suoi step. Soluzione spesso diversa a seconda del gruppo di appartenenza, a significare che esistono approcci differenti alla medesima problematica ma tutti comunque validi, senza esclusione.

Alla meta, alla soluzione, si giunge compiendo un percorso fatto di tentativi e di errori, in cui sbagliare non è una colpa, ma motivo di apprendimento e di miglioramento continuo. Le dinamiche del lavoro di gruppo, inoltre, sono la palestra della comunicazione e della collaborazione efficace, includendo anche competenze relative alla gestione del tempo, all’organizzazione del lavoro e alla progettazione delle sequenze di azioni.

Grazie a questo metodo didattico, bambini e ragazzi sviluppano anche la creatività, il pensiero critico e la capacità di analizzare le relazioni tra causa ed effetto.

Ma ricordiamo che la robotica educativa è anche quello strumento per mezzo del quale i ragazzi più grandi – dell’ultimo anno delle scuole medie e del ciclo delle scuole superiori – sono introdotti alle materie STEM (Science Technology Engineering Mathematics), con la possibilità di apprendere le basi della robotica, del funzionamento di un androide, fino alle fondamenta della programmazione della macchina. Ma non solo.

La robotica educativa nel Piano Nazionale Scuola Digitale

Lavorando con i robot educativi, gli studenti allenano il pensiero logico e sviluppano il pensiero computazionale, concetto introdotto per la prima volta da Papert nel 1980 e col quale si fa riferimento a un approccio innovativo ai problemi e alla loro risoluzione. Approccio che poggia sull’utilizzo di procedure tipiche della programmazione dei robot, dei computer e, in generale, delle macchine che, senza istruzioni, non sono in grado di svolgere le funzioni richieste.

La robotica educativa – pensando al futuro della robotica applicata a contesti quotidiani e familiari – rientra tra le attività scolastiche previste dal decreto 851 del 27/10/2015 PNSD – Piano Nazionale Scuola Digitale, a cura del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, pensato per guidare le scuole in un percorso di innovazione e digitalizzazione, come previsto nella Legge 107/2015.

E, tra gli obiettivi e le azioni previste dal Piano, figura l’educazione al pensiero computazionale a partire già dalla scuola primaria, attraverso l’Iniziativa “Programma il futuro” in collaborazione con il CINI – Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica.

Educare al pensiero computazionale significa favorire, negli studenti, la capacità di analizzare e risolvere problemi, nonché l’acquisizione delle basi della programmazione delle machine tramite esperienze e obiettivi concreti. Lo scopo non è quello di formare a tappeto dei programmatori informatici, ma di divulgare conoscenze di base per appropriarsi della cultura scientifica moderna.

I progetti di laboratori di robotica educativa nelle scuole italiane, ad oggi, sono molteplici, soprattutto nelle aree del Nord e del Centro. Particolarmente attiva la Regione Toscana che, in collaborazione con la Scuola Sant’Anna di Pisa, e in accordo con l’Ufficio scolastico regionale, ha creato, negli anni, una rete per promuovere e diffondere le attività di robotica educativa nelle scuole del territorio, raccogliendo adesioni da parte di numerosi Istituti regionali, così come adesioni ai corsi di formazione per docenti, ai quali continuano a partecipare molti insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado.

robotica futuro
Come funziona un laboratorio di robotica educativa? Gli studenti lavorano in gruppi a un problema da risolvere, che ha come oggetto il robot-macchina, il suo funzionamento, il suo assemblaggio, la sua costruzione o la sua programmazione.

L’ingegneria robotica nel futuro della robotica

Nel futuro della robotica (in realtà già decisamente presente) c’è anche l’ingegneria robotica è quel segmento dell’ingegneria meccatronica che si occupa della progettazione, costruzione e implementazione di robot, macchine, congegni e loro sistemi di controllo, attingendo alle discipline classiche dell’ingegneria meccanica, dell’ingegneria elettronica e dell’ingegneria informatica.

Ingloba, oltre alla creazione di robot dai molteplici utilizzi (industriali, medico-chirurgici, educativi, assistenziali, ludici), anche l’automazione di macchine industriali, la messa a punto di particolari dispositivi elettrodomestici e di componentistica per autoveicoli.

È l’interdisciplinarietà a connotare l’ambito di studi dell’ingegneria robotica, che rimanda a conoscenze scientifiche e tecnologiche sull’automazione, la robotica industriale e la robotica mobile.

In particolare, la produzione di robot destinati all’industria – come rileva il World Robotics Report 2020 dell’International Federation of Robotics (IFR), reso noto a settembre 2020 – vanta numeri importanti, con il record di 2,7 milioni di robot che operano nelle fabbriche di tutto il mondo (+12% rispetto al 2018) e 373.000 unità spedite a livello globale nel 2019.

L’Asia rimane il mercato più forte per i robot industriali, con la Cina al primo posto, avendo raggiunto, nel 2019, circa 783.000 unità di macchine. Quanto all’Europa, questa, nel 2019, ha raggiunto uno stock operativo di 580.000 unità (+7%.).

La Germania rimane il principale utilizzatore, con uno stock operativo di circa 221.500 unità, ossia circa tre volte lo stock dell’Italia (74.400 unità), cinque volte lo stock della Francia (42.000 unità) e circa dieci volte lo stock del Regno Unito (21.700 unità).

Formazione e professione dell’ingegnere robotico

Ricordiamo che, sempre in base al Report dell’International Federation of Robotics, il nostro Paese è il sesto mercato mondiale, per quanto riguarda la progettazione di dispositivi robotici, e tra i primi dieci produttori. Alla luce di questo, la proposta formativa inerente il campo di studi dell’ingegneria robotica, da parte degli Atenei italiani, è assai vasta.

Un esempio fra tutti, quello dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisacentro di ricerca e laboratorio di innovazione tecnologica, il cui obiettivo è formare sempre più risorse in grado di progettare, in particolare, robot ispirati alla natura, per una robotica al servizio del benessere collettivo.

La professione dell’ingegnere robotico, oltre a prediligere quegli aspetti più prossimi alla progettazione e alla costruzione, verte sempre di più sullo sviluppo di software e di sistemi di intelligenza artificiale per la gestione dei robot, nonché su sistemi automatizzati, che consentano alle macchine di eseguire le attività in modo efficace e puntuale.

Tali sfaccettature ne fanno un mestiere prevalentemente da “squadra”, da team, dal momento che vede incrociarsi differenti competenze e discipline, che vanno dalla meccanica all’informatica, dalla psicologia alla biologia, dalla linguistica all’automazione.

Ma l’ingegnere robotico lavora anche su commissione da parte di aziende che fanno richiesta di sistemi robotici ad hoc, utili alla produzione di beni o servizi.C’è, dunque, la possibilità di sbocchi professionali, oltre che in ambito universitario, anche nel settore pubblico e privato, come libero professionista oppure per conto di centri nazionali di ricerca, che collaborano sia con la grande industria che con il settore pubblico.

È il caso dell’Istituto italiano di Tecnologia, centro di ricerca con sede a Genova con, all’attivo, numerose iniziative nel settore della robotica, tra cui il robot androide iCub, piattaforma alla quale gli scienziati dell’Istituto stanno lavorando per porre le basi della progettazione e della costruzione di “robot umanoidi che, nei prossimi anni, vivranno e lavoreranno al nostro fianco”.

ingegneria robotica
In base al Report 2020 dell’International Federation of Robotics, il nostro Paese è il sesto mercato mondiale, per quanto riguarda la progettazione di dispositivi robotici, e tra i primi dieci produttori.

Chirurgia robotica

Nel futuro della robotica (anche in questo caso ormai già presente) c’è anche la chirurgia robotica. La pratica chirurgica che si serve di mezzi robotici manovrati a distanza e di tecnologie computerizzate, in grado di riprodurre i movimenti delle mani del chirurgo all’interno del corpo del paziente, è conosciuta come “chirurgia robotica”o Robotic Assisted Surgery.

La differenze, rispetto alle tradizionali operazioni “a cielo aperto”, alla video-chirurgia e agli interventi chirurgici eseguiti con il semplice ausilio di bracci robotici – come, ad esempio, accade nella chirurgia ortopedica – è sostanziale: il chirurgo è fisicamente distante dal paziente e dal campo operatorio, seduto a una console dotata di monitor, dalla quale comanda il movimento dei bracci robotici, come se questi fossero amplificatori delle sue mani.

Il primo robot da sala operatoria, approvato dalla Food and Drug Administration nel 1994, si chiamava AESOP e fu creato, in realtà, solo per assistere i chirurghi durante interventi di chirurgia mininvasiva.

Il primo vero robot chirurgico, invece, fu ZEUS Robotic Surgical System (ZRSS) – con tre bracci robotizzati, controllati in remoto – apparso sempre in quegli anni, ma approvato dalla FDA solo nel 2001. Ma, prima di quell’anno, nel 2000, arrivò il robot chirurgico da Vinci – creatura della Silicon Valley – approvato per l’utilizzo in chirurgia laparoscopica, tecnica che non utilizza la classica incisione con bisturi.

Dall’anno del suo esordio, sono state molte le nuove versioni e gli upgrade, di cui l’ultima (da Vinci Xi) – giunta in Italia, presso l’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di Pietrelcina, in provincia di Benevento, a gennaio del 2021 – è considerata la punta più avanzata della tecnologia mininvasiva attualmente in circolazione a livello mondiale. Dove, per tecnologia mininvasiva, si intendono tutte quelle tecniche operatorie non basate sull’incisione chirurgica, ma sull’inserimento di uno strumento ottico (endoscopio) attraverso un piccolo foro.

Gli elementi che compongono il sistema chirurgico da Vinci prevedono la console del chirurgo, il carrello robotico posizionato al tavolo operatorio, in prossimità del paziente, dotato di quattro braccia articolate (una per la telecamera e tre per l’utilizzo degli strumenti, tra cui l’endoscopio 3D) e l’unità mobile, dove è posizionato un monitor per il team chirurgico.

La console è il centro di controllo della macchina: da qui, fuori dal campo sterile, il chirurgo decide i movimenti e l’utilizzo dello strumentario nelle mani del robot.

Gli ambiti di intervento

L’impiego della robotica chirurgica, oggi, è previsto prevalentemente in urologia, chirurgia toracica, cardiologica, ginecologica e nella chirurgia trans-orale, per il trattamento, attraverso la bocca, di alcune patologie dell’orofaringe.

In particolare, tra queste applicazioni, gli interventi in seguito a patologie urologiche sono al primo posto. Anzi, la chirurgia robotica ha preso il via proprio in questo specifico ambito. E, attualmente, nel mondo, è praticata in più della metà degli interventi per carcinoma della prostata e della vescica.

Restando sempre in campo oncologico, e guardando al futuro della robotica anche oltre l’urologia, la chirurgia robotica, negli ultimi anni, è sempre più impiegata con esiti positivi, ma solo – al momento – riferiti ad ambiti specifici, tra cui, ad esempio, quello del carcinoma dell’orofaringe.

Sul tema, c’è un interessante studio a cura del Cedars-Sinai Medical Center, in California, pubblicato sulla rivista JAMA Oncology ad agosto del 2020, in base al quale i pazienti con carcinoma dell’orofaringe allo stadio iniziale, operati mediante chirurgia robotica transorale, presentano un decorso della malattia più sereno rispetto a quanto, invece, accade nei pazienti operati con chirurgia tradizionale. E per diversi motivi.

Innanzitutto, il cancro dell’orofaringe si verifica nella parte posteriore della gola e comprende la base della lingua e le tonsille, un’area difficile da raggiungere con gli strumenti convenzionali. La chirurgia robotica transorale, invece, in quanto procedura minimamente invasiva e capace di produrre immagini 3D ad alta risoluzione della parte posteriore della bocca e della gola, è in grado di lavorare anche intorno agli angoli, per rimuovere ogni traccia del tumore dai tessuti circostanti.

La chirurgia robotica è, in questo caso, associata a tassi inferiori (il 12,5%) di margini chirurgici positivi (riferiti alle cellule tumorali che rimangono sul bordo del tessuto rimosso chirurgicamente) rispetto a un tasso del 20,3% per la chirurgia non robotica nei pazienti con cancro orofaringeo.

Inoltre, la chirurgia robotica è stata associata a un minore utilizzo della chemio-radioterapia postoperatoria, al 28,6%, rispetto al 35,7% dei pazienti sottoposti a chirurgia non robotica. Si tratta di uno studio considerato, dai suoi autori, “generatore di ulteriori ipotesi”, una sorta di apripista a futuri studi clinici sull’utilizzo dei robot chirurgici in oncologia. Questo è solo l’inizio.

I vantaggi clinici (e le criticità) della chirurgia robotica

Accesso facilitato anche verso anatomie nascoste; visione 3D in full HD, con conseguente maggiore visualizzazione degli spazi anatomici; accuratezza del movimento chirurgico; precisione durante le fasi di demolizione e di ricostruzione: sono questi i principali vantaggi clinici e operatori riconosciuti alla tecnica chirurgica robotica.

Ma è il ruolo svolto dall’elaborazione delle immagini – la cui visione endoscopica tridimensionale ad alta definizione è nettamente superiore a quella della laparoscopia tradizionale, dove, invece, l’immagine è bidimensionale – a rappresentare l’aspetto rivoluzionario.

Inoltre, la chirurgia robotica permette una maggiore precisione nelle tecniche di sutura, grazie ai sette gradi di movimento degli strumenti collegati ai bracci robotici, al controllo primario da parte della telecamera e alla filtrazione di eventuali tremori.

Oltre ai vantaggi clinici e operatori, esistono anche i vantaggi per lo stesso paziente, che consistono in piccole incisioni – anziché nella classica incisione da bisturi – con conseguente riduzione del sanguinamento. E, poi, nella riduzione del disagio postoperatorio, nei ridotti tempi di ospedalizzazione e in un recupero più rapido.

È però doveroso accennare anche ad alcune criticità che presenta la tecnica operatoria robotica, tra cui, in primis, la mancanza del riscontro “tattile” da parte del chirurgo, il quale non opera più sul paziente – dunque non lo “sente” e non lo vede – bensì sulla console, per giunta distante dal lettino operatorio. Anche se le tecnologie più recenti mettono a disposizione del chirurgo un feedback tattile multimodale e un feedback relativo ai movimenti dei bracci robotici, grazie ad attuatori pneumatici e a motori vibranti montati sulla console chirurgica.

Infine, i costi elevati relativi all’acquisto della macchina e alla sua manutenzione, unitamente ai costi per l’elaborazione delle immagini, costituiscono un altro motivo di “non vantaggio”, in parte ammortizzato dalla minore ospedalizzazione dei pazienti e dal loro più precoce re-inserimento sociale.

chirurgia robotica
Team di medici al lavoro durante un intervento eseguito dall’ultimo modello del robot chirurgico da Vinci (Xi), posizionato sul tavolo operatorio. In primo piano, a sinistra, la console dotata di monitor, dalla quale il chirurgo comanda il movimento dei quattro bracci robotici (Credit: Cedars-Sinai Medical Center, California).

Robotica industriale

Il futuro della robotica include anche le dinamiche proprie del settore della robotica industriale, che ha come scenario i siti produttivi e le catene di montaggio, dove un sistema di automazione, oggi, è in grado di sostituirsi all’uomo, compiendo, al posto suo, azioni ripetitive – spesso in un ambiente potenzialmente pericoloso per l’essere umano – a un ritmo costante, preciso, inarrestabile.

Rientrano nella definizione di robotica industriale tutti quegli strumenti meccanici progettati per compiere tali azioni in completa autonomia. E non solo per incrementare i livelli di produzione, ma anche per raggiungere determinati standard qualitativi nella produzione.

È la norma ISO TR/8373-2.3 a definire il robot industriale come “Un manipolatore con più gradi di libertà, governato automaticamente, riprogrammabile, multiscopo, che può essere fisso sul posto o mobile, per utilizzo in applicazioni di automazioni industriali“.

Il primo robot industriale che ricalca tale definizione – azionato da un motore elettrico e con cinque gradi di libertà – risale al 1937. Ma è del 1961 il primo brevetto di un robot industriale moderno – Unimate (così si chiamava) – creato negli Stati Uniti per la manipolazione di pezzi fabbricati con la pressofusione, da saldare sulle carrozzerie delle automobili. Il suo sistema meccatronico era composto da una console di comando, che si si interfacciava al braccio elettromeccanico.

E, nel 1969, dalla Stanford University, arriva il Braccio Stanford, elettrico e con sei gradi di libertà, primo esempio di braccio meccatronico in grado di compiere azioni complesse come assemblare e saldare. Tale braccio, più tardi, in seguito a una serie di step evolutivi, divenne il robot PUMA (Programmable Universal Machine for Assembly), primo robot industriale a motori elettrici.

Nel corso degli anni, la robotica industriale ha vissuto momenti significativi, che hanno portato a innovazioni importanti, seguite poi da momenti in cui si è lavorato al perfezionamento di tali innovazioni.

Oggi, il quadro è dato dalla presenza – nelle aziende – di robot industriali sempre più caratterizzati da velocità, capacità di carico e precisione, in grado di svolgere operazioni e lavorazioni complesse e particolarmente accurate, tra cui, ad esempio, saldature e tagli con sistemi laser, forature, fresature, verniciature e smaltature.

Le tipologie di robot industriali

Nei contesti industriali, le tipologie di robot maggiormente utilizzate sono i “robot seriali” – dalla struttura di braccio antropomorfo, caratterizzato da una “spalla”, un “gomito” e un “polso” – e i “robot paralleli”, ossia sistemi che utilizzano bracci meccanici controllati da un computer per supportare una piattaforma.

La loro classificazione prevede tre livelli, distinti da determinate specifiche. Rientrano nel “primo livello” quelle macchine programmate per svolgere fedelmente operazioni ripetitive senza variazioni e con un alto grado di precisione. Al loro interno, possiedono software in grado di guidarne i movimenti secondo parametri impostati in precedenza, tra cui direzione, velocità, accelerazione, frequenza e distanza dagli oggetti.

I robot di secondo livello, invece, includono macchine più flessibili, programmate da un software capace di adattarsi autonomamente alle variazioni delle condizioni operative. Ne sono un esempio i robot dotati di sistemi di visione artificiale, per mezzo dei quali riescono ad analizzare l’oggetto che devono spostare, a calcolarne la distanza, a compiere variazioni di traiettoria e, quindi, ad agire sulla base di tali dati.

Infine, appartengono al terzo livello i robot considerati più all’avanguardia, caratterizzati da reti neurali che permettono loro di prendere decisioni in totale autonomia, anche in assenza di esseri umani.

Attualmente, questa è la tipologia di robot industriale emergente, frutto di recenti studi e ricerche e ancora in fase di studio e di sperimentazione. Rappresenta il futuro del settore, di cui, di seguito, diamo un assaggio.

I traguardi futuri della robotica industriale

Nel futuro della robotica anche i prossimi traguardi della robotica industriale, che vedono interazioni sempre più forti tra uomo-macchina e machine-to-machine, in cui intelligenza artificiale e robot costituiscono il mix ideale per svolgere mansioni ancora oggi delegate alla mano dell’uomo.

Rientrano nel primo gruppo (interazioni uomo-macchina) le architetture robotiche (wearable robot), speciali strutture concepite per consentire ai lavoratori di sollevare e trasportare grosse quantità di materiali senza rischi per l’apparto scheletrico.

Fanno sempre parte di questo gruppo anche i robot collaborativi, detti cobot o co-robot (ovvero “collaborative robot”), sviluppati per collaborare e interagire fisicamente con l’uomo e l’ambiente circostante in uno spazio di lavoro definito.

In particolare, in risposta alle esigenze dell’Industria 4.0, la ricerca si sta muovendo verso cobot in cui, oltre alla precisione e alla manualità accurata, è basilare la flessibilità – e non la massima velocità di produzione – ottenuta grazie a speciali software e a sensori integrati, che ora comprendono anche sistemi di visione artificiale, funzioni di localizzazione e l’integrazione con i sistemi dei magazzini.

I cobot dotati di tecniche che fanno capo all’ambito di studi dell’intelligenza artificiale rappresentano attualmente il segmento di robotica industriale con il più alto tasso di crescita. Più nel dettaglio, le attuali applicazioni AI permettono ai cobot di svolgere, in ambito industriale, operazioni di monitoraggio, di simulazione e analisi dei dati e di previsione e diagnostica.

Nel primo caso, sono in grado di rilevare i cambiamenti all’interno dell’area di lavoro e, in base a questi, di gestirne il funzionamento. Grazie, poi, alla possibilità di connessione fra più macchine e all’analisi di un’ampia base dati, simulano scenari per l’ottimizzazione dei processi produttivi e fanno previsioni sulle possibili condizioni di malfunzionamento, col fine di migliorare le prestazioni.

Tra i traguardi della robotica industriale del futuro, anche i robot mobili sempre più in grado di mappare l’ambiente circostante mentre lavorano, attraverso una localizzazione di tipo laser che mette a confronto – più volte e ogni secondo – la mappa con l’ambiente stesso.

Si tratta di un settore in forte crescita, soprattutto in relazione ad ambiti come quello automobilistico, dell’automazione dei magazzini (con l’evasione degli ordini di e-commerce, ad esempio) e del food&beverage, col trasferimento di cibi dal forno al magazzino oppure con la movimentazione di scatole di cartone per il confezionamento.

Per quanto concerne, invece, le interazioni machine-to-machine, la robotica industriale punta all’integrazione tra cobot e robot mobili, resa più accessibile grazie al peso ridotto dei robot più recenti e alla possibilità di costruire piattaforme mobili su robot mobili.

I robot collaborativi installati su robot mobili possono diventare, ad esempio, elementi di soluzioni logistiche innovative, oppure garantire sottoassiemi per stazioni di assemblaggio da collocare in magazzino o nelle stazioni di controllo della qualità.

robotica industriale
Braccio robotico al lavoro all’interno di una linea di produzione industriale.

Soft robotica

Nel futuro della robotica, sempre più spazio avrà quel segmento della ricerca che, sovvertendo il registro dei robot dalla struttura rigida e pesante, apre allo studio e alla progettazione di robot dai materiali morbidi, flessibili e deformabili – soft, appunto – in grado di interagire in totale sicurezza con l’essere umano in ambienti naturali, non strutturati.

Sono, prevalentemente, la natura e, più in particolare, il modo in cui alcuni organismi vegetali e animali si muovono e si adattano all’ambiente che li circonda, la fonte di ispirazione per lo sviluppo di soft robot capaci di allungarsi, torcersi, deformarsi.

Ne è un manifesto il progetto “Octopus” – a cura dei ricercatori della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e co-finanziato dalla Commissione Europea – che, a partire dal 2015, ha permesso di approfondire la conoscenza scientifica delle strutture delle braccia e delle ventose del polpo.

E proprio lo studio della complessa distribuzione dei pori sulla superficie dei tentacoli e dell’architettura tridimensionale dei fasci muscolari presenti al loro interno, ha ispirato il braccio robotico – messo a punto dal team del progetto – del tutto simile a un tentacolo, dotato di ventose, sensibile all’ambiente e capace di muoversi e di afferrare oggetti.

Un altro progetto sperimentale di soft robotica che guarda al mondo animale, è quello ispirato alla proboscide dell’elefante, avviato alla fine del 2019, sostenuto dall’Unione europea e coordinato dall’Istituto Italiano di Tecnologia.

L’obiettivo, in questo caso, è sviluppare un braccio con una pelle sensibile ma resistente al calore, adatto a raccogliere carichi di grande peso o piccoli come foglie. Ma potrebbe anche diventare un supporto prezioso nell’assistenza sanitaria, per esempio per sollevare delicatamente una persona con difficoltà motorie.

In natura, anche gli organismi vegetali ispirano gli scienziati che lavorano alla soft robotica. Piante come la vite e l’edera, ad esempio, sono capaci di appoggiarsi a un supporto, o ad altre piante, e di avvolgervisi.

Sulle piante rampicanti stanno lavorando numerosi team di ricercatori, nel tentativo di replicare tali strutture nell’ambito dello sviluppo di sonde endoscopiche di nuova generazione, sempre più morbide e capaci di penetrare e di muoversi tra i delicati organi umani nel corso di un intervento chirurgico o di un esame endoscopico.

Di quali materiali sono fatti i soft robot?

Morbidi, flessibili, deformabili: sono gli aggettivi che connotano i tratti distintivi assoluti di questa nuova generazione di robot che, per la loro progettazione, necessitano, però, di materie prime scelte ad hoc.

Può trattarsi, ad esempio, di polimeri flessibili, di gomme, fibre di tessuti o addirittura di materiale biologico umano o animale. In molti casi, sono i materiali stessi a possedere intrinsecamente, la capacità di movimento, senza, dunque, la necessità di un vero e proprio scheletro di supporto o di motori che forniscano un input.

Un esempio viene dal tessuto robotico sviluppato dai ricercatori della Yale University di New Haven, nel Connecticut, il cui risultato finale è una stoffa attraversata da una nervatura metallica, che induce l’intera forma a contrarsi o a rilassarsi, oltre a essere in grado di rispondere a stimoli esterni grazie a un circuito di sensori.

Si chiama HASEL, invece, il soft robot realizzato – presso l’Università del Colorado – con un polimero flessibile attraversato da un liquido isolante, che risponde a un impulso elettrico. Imitando la fibra muscolare, l’impulso aziona la contrazione o l’espansione del fascio. Ed è capace di farlo tanto velocemente, al punto che il robot è capace persino di saltare.

Un altro esempio ancora è SoFi, soft robot a forma di pesce di gomma in silicone e plastiche flessibili, progettato dalMassachusetts Institute of Technology di Boston.

Questo robot à animato da un cuore-batteria al litio, il quale aziona un motore che, a sua volta, pompa acqua in due pistoni in modo alternativo, determinando l’ondeggiare della coda e permettendo al soft robot di muoversi senza vincoli.

Per arrivare a questi risultati in termini di materiali utilizzati, ricordiamo che gli scienziati sperimentano molte possibili composizioni chimiche, arrivando a mescolare polimeri e acqua, silicone e altri liquidi, sviluppando soluzioni volte a fare aderire i soft robot a diversi tipi di superficie e a renderli sempre più resistenti e performanti.

Le applicazioni (presenti e future) della soft robotica

I soft robot, proprio per le caratteristiche descritte e la tipologia dei materiali utilizzati, possiedono un forte potenziale sotto il profilo applicativo. In primis, le loro dimensioni e la loro flessibilità permettono a questi robot di introdursi in luoghi – terrestri o acquatici – dai quali i rigidi e pesanti robot tradizionali sono esclusi, rivelandosi indispensabili in particolari situazioni di emergenza o di soccorso.

Un’applicazione interessante è quella che sfrutta la somiglianza dei soft robot con alcuni organismi animali o vegetali (biomimetismo), al fine di esplorare – per motivi di studio e di ricerca – ambienti complessi come gli oceani e lo spazio.

Un esempio di tale applicazione è il progetto tentato da un team di scienziati della Cornell University che, nel 2015, in seguito a una sovvenzione tramite l’Innovative Advanced Concepts (NIAC) della NASA, ha progettato un soft robot capace di imitare, nei movimenti sott’acqua, una seppia. L’obiettivo era quello di esplorare la superficie dell’oceano sottostante gli strati di ghiaccio.

Ma, quando si fa riferimento ad applicazioni nei “luoghi esterni”, non si intendono soltanto luoghi fisici facenti parte del territorio, bensì anche luoghi e strutture interni al corpo umano, ad esempio durante un intervento chirurgico o un esame diagnostico, per mezzo di un braccio-tentacolo morbido e flessibile.

Nello specifico, i soft robot possono essere implementati nell’ambito della chirurgia invasiva, grazie alla loro capacità di cambiare forma, che permette loro di “navigare” all’interno di diverse anatomie del corpo umano, regolando di volta in volta la propria fisionomia.

Sempre in ambito medico, il valore della soft robotica la vede impiegata quale strumento per la creazione di eso-tute flessibili (chiamate anche “esoscheletri”) – strutture metalliche dotate di muscoli motorizzati per moltiplicare la forza di chi le indossa – da utilizzare per la riabilitazione dei pazienti, per assistere gli anziani o semplicemente per aumentare la forza muscolare di persone disabili o affette da patologie muscolo-scheletriche.

soft-robotica
Il soft robot “Caterpillar” – sviluppato da un lavoro congiunto dell’Università di Varsavia, del LENS Institute di Firenze e dell’Università di Cambridge – su scala naturale, dal design monolitico in elastomero cristallino. Proprio come un bruco, il robot imita le diverse movenze dei suoi parenti naturali: è in grado di camminare su un pendio, infilarsi in una fessura e spingere oggetti pesanti fino a dieci volte la sua massa (Credit: Facoltà di Fisica Università di Varsavia).
Scritto da:

Paola Cozzi

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